Archivio di marzo 2012

La trascendenza dell’etica e l’immanenza della morale

Quando parliamo di Tradizione, ci riferiamo al Principio, unico, trascendente ed assoluto. In esso, pertanto, includiamo tutta la storia dell’umanità e il suo pensiero, scientifico e filosofico, quale parte integrante di un unicum spirituale. Si tratta, tuttavia, di un contenuto contraddittorio, perché nel suo dispiegarsi temporale e storico esso tende a contrapporre e a separare ciò che produce. Nel cercare, allora, di stabilire ciò che sono, o dovrebbero rappresentare, l’ etica e la morale secondo una concezione Tradizionale, è necessario intraprendere un cammino a ritroso e in forma ascendente, che riconduca tutto ciò che è contraddittorio e molteplice verso quel Principio unico e universale; che elevi verso l’alto ciò che è in basso e separato, per poi procedere, parafrasando Julis Evola, “con orientamento dall’alto verso l’alto”. Un’etica e una morale che si richiamino a quella Tradizione, necessariamente, non potranno che avere questo tipo di orientamento. Noi definiamo il percorso dell’uomo, che si ispira alla Tradizione, un itinerario etico e spirituale basato sulla conoscenza della propria essenza, il cui fine è il conseguimento, nell’unità, della perfezione divina. In questo articolo si vuole analizzare e stabilire il rapporto sussistente tra etica, morale e Tradizione, con l’obiettivo di dimostrarne il fondamento essente, ma anche esistenziale, attraverso un percorso unitario di riconversione. Nel definire tale rapporto e formulare un giudizio è, però, fondamentale non cadere nella tentazione di voler elaborare una soluzione esclusivamente ideologica, idealistica e speculativa, bensì è necessaria, in primo luogo, una visione razionale e contraddittoria tra l’elemento empirico e quello spirituale e universale. Ma, beninteso, il presupposto sostanziale è che un giudizio razionale, pur se elaborato nel contesto dinamico del finito e dell’empirico, non deve essere recepito come qualcosa di “altro estraneo da sé”, ossia del finito separato dall’universale, bensì come non contraddittorio, che ha saldo fondamento in se stesso e nel Principio unitario cui appartiene.  In questo senso la Tradizione può rappresentare il mesocosmo, ovvero il collegamento tra il mondo empirico, finito e materiale e l’assoluto, infinito e spirituale. “Ciò che vi è di grande nell’uomo, afferma Nietzsche, è che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare in un uomo è che egli è un passaggio e una caduta. Io amo coloro che non sanno vivere, anche se sono coloro che cadono, perché essi sono coloro che attraversano”.

Nell’antica Grecia il bene (tò agatòn) rappresenta la massima conoscenza (episteme), è l’origine del tutto e consiste nell’idea e nel suo contenuto: “ciò che è utile per la comunità”. Platone pone l’idea del bene al di sopra della conoscenza razionale, perciò non può essere penetrata nella sua essenza e non può essere trasmessa o insegnata dialetticamente e razionalmente. La conoscenza dell’idea è prerogativa del “sapiente”, il quale non l’acquisisce dall’insegnamento o con procedimento razionale, ma la possiede in forma diretta, intimamente. Platone, pertanto, procede nella spiegazione del suo concetto in forma negativa e, in questo senso, il bene non è piacere fisico o materiale e neppure utilità e vantaggio. Egli suggerisce che per accostarsi all’episteme, alla conoscenza, è necessario liberarsi del procedimento dianoetico e della doxa, l’opinione, muovendo nei quattro gradi della conoscenza: Immagini sensibili (eikasia); Credenza (pistis); Ragione discorsiva  (dianoia);  Intellezione  (nous o noesis). In Aristotele, invece, il bene consiste nel realizzare in questo mondo tutto ciò che esso rappresenta nell’idea. Ovvero egli non crede nel concetto di idea quale entità perfetta ed immobile, esistente  indipendentemente dalla realtà empirica e, quindi, estranea alla vita pratica dell’uomo. Tuttavia, il bene supremo, ovvero la perfezione, è il fine ed è alla sua portata; dunque va perseguito e realizzato mediante l’attività e l’opera. L’uomo può raggiungere il suo fine con il conseguimento della eudaimonia, la felicità.  Anche per Aristotele la felicità non è ricchezza, piacere fisico o materiale, intesi come utilità e vantaggio personali, bensì questi possono rappresentare dei mezzi da utilizzare per più nobili fini.  Quello di Aristotele, quindi, consiste in un finalismo, da attuarsi nella pratica eccellente delle opere conoscitive, tramite l’esercizio della virtù e della ragione. Il bene, dunque, non è più “conoscenza dell’essere”, come in Platone, ma “scienza del divenire”. Fondamentalmente nei due grandi teorici sussiste una visione diametralmente opposta del metodo da attuare per la ricerca dell’unico obiettivo rappresentato dal bene. Mentre per Platone è in sé e rappresenta l’archetipo essente, alla cui conoscenza solo il sapiente avrà accesso, per Aristotele, che non disconosce l’idea in quanto perfezione, è in divenire, da realizzarsi procedendo tramite l’insegnamento e la pratica della virtù. Per lui ogni cosa è “ciò verso cui naturalmente tende”, in costante evoluzione, che cerca di raggiungere un fine superiore tendendo a ciò che rappresenta il suo fine naturale ed ultimo: “ogni cosa vuole realizzare sé stessa per divenire ’essere che è sé stessa”. Si tratta, evidentemente, di due visioni inconciliabili nel metodo dell’indagine e del processo conoscitivo, ma, ed è ciò che a noi più interessa, nei due grandi pensatori non viene mai meno quel senso di unitarietà e di collegamento del concetto essenza-esistenza. Pertanto possiamo affermare, sintetizzando, che in Platone l’essenza determina l’esistenza, mentre in Aristotele è l’esistenza a determinare l’essenza.

La conseguenza di questi due tipi di concezione, pur nella sostanziale visione unitaria, è stata una scissione dualistica del concetto di bene, in ciò che oggi i moderni definiscono etica e morale. Pertanto, quando diciamo che è l’essenza a determinare l’esistenza parliamo di etica, mentre, quando asseriamo che l’esistenza determina l’essenza, ci riferiamo alla morale. I due termini hanno accezioni diverse, intendendo per morale l’insieme degli usi, dei costumi e delle consuetudini, relative ad una certa tradizione culturale e appartenenti ad un determinato gruppo sociale. La morale, nel suo massimo grado di perfezione, può essere definita una “scienza relativamente esatta”. La scienza, infatti, è oggettività relativa, perché fonda il suo rapporto nel particolare. La morale, per conseguenza, è immanente. Per etica, invece, intendiamo un valore trascendente, assoluto ed unitario; ovvero è la conoscenza che fonda il suo rapporto con l’assoluto e studia il concetto universale del bene e del male, contenendo in sé anche la morale. L’etica, pertanto, nel suo livello di astrazione filosofica più elevato, può essere definita una “conoscenza assoluta e perfetta”. Il rapporto che intercorre tra etica e morale può essere risolto analizzando e mettendo in evidenza le stesse assonanze e le differenze che intercorrono tra loro e quelle tra essenza ed esistenza, scienza e conoscenza e tra le due forme conoscitive dell’esoterismo. La distinzione sostanziale consiste  nell’immanenza dell’una e nella trascendenza dell’altra. La forma immanente è propria di alcune Tradizioni iniziatiche che mirano al perfezionamento interiore individuale, al fine di concentrare la loro opera a beneficio della collettività e di questo mondo. Esse non fanno riferimento nel loro operato, in questo senso sono immanenti, a finalità o realtà metafisiche o teologiche, pur non disconoscendole. La forma esoterica trascendente, pur comprendendo in sé il perfezionamento interiore del singolo e, anzi, ponendolo per condizione, ha come finalità il ricongiungimento con il divino. Pertanto, a seguito di questa condizione, la seconda forma ricomprende in sé anche la prima. Dunque, la sostanziale differenza, la linea di demarcazione che rileviamo tra esoterismo immanente ed esoterismo trascendente è, di fatto, la medesima  che rileviamo anche tra scienza e conoscenza, tra esistenza ed essenza e tra morale ed etica. Ne deduciamo, allora, che la Tradizione trascendente non può scindere e contrapporre l’etica e la morale, in quanto entrambe trovano la loro sintesi nel concetto di bene e la loro universalità nel Principio assoluto. Solo il Principio, infatti, in quanto assoluto, non ha in sé contraddizione.

Nella società moderna l’uomo proietta la propria esistenza basandola quasi esclusivamente su un progetto di vita materiale ed esteriore, trascurando o ignorando il proprio microcosmo interiore e spirituale. Questo accade in quanto nell’esistenza egli rinnega la sua vera essenza e pone il proprio io al servizio di ciò che è particolare e che solo illusoriamente rappresenta un fine. L’illusione della libertà dei moderni, infatti, è basata sulle conquiste sociali, a seguito delle rivoluzioni antifeudali e antiassolutistiche, che hanno prodotto una grave scissione del legame uomo-società ed esistenza-essenza. Hanno creato, cioè, una  contrapposizione fra autodeterminazione ed oggettivazione, fra particolare ed universale e, pertanto, un antagonismo conflittuale dell’uomo contro l’uomo, del singolo contro la società e della società contro il singolo. I principi di uguaglianza, fraternità e libertà, contenuti nella dichiarazione dei diritti del 1791, sono rimasti principi esclusivamente astratti e formali, in quanto basati solo su un fondamento teoretico e ideologico, privi di alcun presupposto pedagogico capace di incidere profondamente sulla società civile e, di fatto, mantenendo inalterati e integri i particolarismi e le tensioni pregresse esistenti nella sfera sociale. Dunque la società, l’etica stessa, l’arte, la religione, i loro concetti, così meramente ideologizzati, risultano essere solamente una cornice alienata ed estranea agli individui, un “essere altro” esterno e, paradossalmente, una limitazione della libertà originaria. Una società, i cui membri sono dediti ciascuno al proprio interesse particolare, è soltanto un universale formale, un falso ideale assolutamente estraniato da colui che la compone, sì che l’universale varrà soltanto come un mezzo per il raggiungimento dei propri fini particolari. L’etica dell’uomo Tradizionale consiste nel recuperare la  totalità  organica, che il mondo moderno  ha completamente disgregato. Occorre,   cioè,  superare  quei   presupposti  teoretici dell’astrattismo   e  di un  certo  tipo  di  formalismo rivoluzionario,  trasformandoli  in principi da ricondurre ad una concezione esistente nella polis ateniese, ma in forma più elevata di quanto non lo fossero nel mondo antico, poiché la bella eticità era immediata, ovvero era il frutto dell’istinto e del costume, più che della ragione. L’eticità, allora, deve basarsi sul principio della personalità infinitamente sviluppata e libera, capace di rovesciare nuovamente quei valori schiavizzanti, rappresentati dal possesso e dall’asservimento ai bisogni materiali, relegandoli nuovamente al loro naturale ruolo di mezzi. La libertà e la responsabilità (intese nel loro significato trascendente e Tradizionale) rappresentano, nell’uomo, il fondamento della sua etica, tenendo presente che non dovrà mai venir meno quel presupposto iniziale, quel senso di unitarietà del concetto essenza-esistenza, che ha saldo fondamento in se stesso e nel Principio unitario cui appartiene.

Il ciceone è la bevanda, composta da acqua, menta e orzo triturato, che ristora Demetra durante la ricerca di Persefone, la figlia rapita. Nel rituale eleusino, l’iniziato annunciava: “ho bevuto il ciceone” e si rendeva degno della visione suprema. Questa consisteva in un viaggio compiuto dall’iniziato agli inferi, il cui tragitto era costellato da apparizioni e simboli, per poi proseguire in un percorso ascendente. Il momento culminante del viaggio era rappresentato dal passaggio dall’oscurità alla luce, così che egli potesse contemplare gli oggetti sacri. Durante l’esperienza estatica avveniva la metamorfosi che rendeva degno l’iniziato di appartenere al novero degli dei. Al termine egli assumeva il titolo di “epoptes”, che significa “colui che ha visto”. L’esperienza estatica dell’iniziato consisteva nella comprensione e nella visione unitaria del tutto, ovvero nella completa assimilazione di qualsiasi dualismo e molteplicità nell’unità divina. Ma il ciceone era anche la bevanda con cui Circe tentò di portare Odisseo alla perdizione, aggiungendo alla pozione ingredienti come vino, miele e spezie magiche. Si tratta, ovviamente, di un rituale simbolico il cui significato è profondamente esoterico. In esso ci viene svelato che all’uomo non è preclusa la possibilità di conoscere e di ritrovare in se stesso la propria divinità. Questo, anzi, è auspicabile, ma diverrà impossibile se l’uomo vorrà fare della conoscenza e della propria divinità un utilizzo improprio ed abusato. Per cui, la conoscenza e la divinità saranno nuovamente prerogative umane, che potranno essere riacquistate solamente con il ritrovamento della purezza e dell’ingenuità originarie. Si tratta delle due qualità divine perdute, che rappresentano la chiave e la giusta via, per chi saprà riconoscerle e rinvenirle, nel perseguire la meta finale. Linterpretazione del pensiero antico e della Tradizione non può prescindere dal possesso di quella chiave, che viene concessa solamente all’iniziato che abbia scelto, intimamente, di bere la coppa di Demetra e non quella di Circe, la quale, invece di condurlo dall’oscurità alla luce, lo porterebbe soltanto alla perdizione. In questo caso sarebbe preferibile astenersi dallo scegliere e attendere un momento più illuminante. In conclusione, per definire ciò che rappresenta la forma etica, poiché ci rifacciamo ad una Tradizione di tipo trascendente, noi intendiamo richiamarci a quel valore assoluto ed unitario. Esso rappresenta il fondamento stesso in cui la conoscenza si realizza nel suo rapportarsi con il divino, elevandosi al suo livello. L’etica, come già detto, studia il concetto universale del bene e del male e, per tutto ciò, la definiamo  una “conoscenza assoluta e perfetta”. Non appaia blasfemo, dunque, che l’uomo Tradizionale aspiri alla conoscenza e alla divinità. Egli in realtà non intende sostituirsi a Dio, ma aspira a raggiungere quella perfezione ideale, nelle qualità che da Dio stesso gli sono attribuite in questa esistenza. Quelle stesse qualità che l’uomo ha erroneamente alienate da se stesso, ritenendole  a lui estranee ed unicamente prerogative di un entità divina. In questo modo è avvenuta la separazione dall’Essere Originario e si è creata una frattura e una contrapposizione dualistica tra l’uomo e Dio. L’uomo Tradizionale, pertanto, deve rovesciare il significato della concezione moderna di ciò che rappresenta un fine e di ciò che rappresenta un mezzo, ovvero deve fare della conoscenza della propria essenza il fine e della propria esistenza,  nonché delle necessità materiali, i mezzi. Egli è consapevole che in questa esistenza non acquisirà l’onniscienza, l’onnipotenza, il perfetto amore, l’ideale giustizia e la virtù, ma nel perseguirli ritroverà certamente se stesso e la propria essenza, accostandosi sempre più a Dio e divenendo un Suo mezzo e un Suo strumento, compartecipe attivo e consapevole della Creazione e della realizzazione del Disegno Divino. Questa è la massima aspirazione e il massimo risultato di questa esistenza; questa è l’Etica della Tradizione Trascendente.

Sandro Secci

Bibliografia di riferimento:

Ludwig Feuerbach – l’essenza del Cristianesimo

Friedrich Wilhelm Nietzsche – Così parlò Zarathustra

Platone – Apologia di Socrate

Georg Wilhelm Friedrich Hegel – La fenomenologia dello spirito

Benjamin Constant – La libertà degli antichi

Aristotele – Etica Nicomachea 

IL DIO NATO DALLA PIETRA Un aspetto particolare del dio Mithra : il forte volere ed il “giusto vedere”.

La letteratura sul dio Mithra è vastissima, sia per quel che riguarda il dio iranico, sia per quel che riguarda il Mithra romano. L’aspetto più famoso e noto dell’iconografia mitriaca – e della mitologia cui rimanda – è la raffigurazione della tauromachìa, ossia la lotta del dio col Toro primordiale che si conclude con l’uccisione dell’animale, il suo sacrificio rituale quale atto vivificante e cosmologico. Dalla coda del toro o dal sangue della sua ferita nasce infatti una spiga di grano, simbolo di rinnovamento e di fecondità spirituale, comune anche ai Misteri di Eleusi e, in particolare, all’iconografia della dea Demètra. Dalla morte del toro e dalla effusione del suo sangue scaturisce la nascita e la vita del cosmo. Una iscrizione mitriaca, parzialmente leggibile, rinvenuta nel mitreo di Santa Prisca a Roma, recita “Et tu servasti…… aeternali sanguine fuso” (tu salvasti [la vita, l' universo] con l’effusione del sangue eterno [del toro primordiale] ). Analogamente, dal mantello di Mithra, all’atto del sacrificio taurino, scaturisce il firmamento stellato.

In questa sede intendo soffermarmi su un particolare profilo di questa divinità, meno noto ma degno della massima attenzione. Mi riferisco alle peculiarità della nascita di Mithra fanciullo, quali si evincono dall’iconografia scoperta nelle vestigia religiose mitriache rinvenute in tutta l’area geografica che rientrava nell’Impero Romano e databili, a seconda dei casi, fra il II ed il IV secolo d.C. Mi riferisco quindi al Mithra romanizzato, ossia una divinità che presenta forti tratti di originalità e di differenziazione rispetto all’originaria divinità iranica.

Dalle sculture e dai rilievi mithriaci si evince, come figura costante, che Mithra nasce da una roccia, recando in una mano – quella destra – la spada e nell’altra una fiaccola. Talvolta la sua testa è radiata, con la rappresentazione dei raggi solari, talvolta compaiono alcune varianti iconografiche come la nascita di Mithra Fanciullo da una pigna(mitreo di S. Clemente in Roma), oppure da un uovo – l’Uovo Cosmico – nel contesto di una rappresentazione complessiva dello Zodiaco (1). In alcune sculture la nascita del dio petrogenito (de petra natus, theòs ek pétras) avviene accanto ad un fiume ed il Fanciullo Divino, venuto alla luce dalla pietra, sale su un albero di fico per raccoglierne e mangiarne i frutti. Costante, nell’iconografia mithriaca, è la rappresentazione dei pastori che, scesi da un monte, si avvicinano per rendere il loro omaggio al dio generato dalla pietra, lanciando verso di lui un bacio quale segno di omaggio e di amore per il divino.

Gli elementi di valutazione e di riflessione sono molteplici per comprendere il senso del mito e le conseguenti rappresentazioni dell’arte religiosa antica.
La roccia rimanda alla terra che può essere letta come un simbolo per il corpo dell’uomo, quale tempio dello spirito, quale realtà in cui sorge una nuova coscienza dell’origine divina dell’uomo. Tale lettura, pur essendo pertinente, è tuttavia ancora vaga; di là da essa, possiamo cogliere un senso più interno, di tipo alchemico, di trasformazione della materia, se assumiamo il termine materia in una accezione ampia, secondo la lezione del Kremmerz (2), che comprende anche aspetti sottili di essa che sfuggono alla ordinaria percezione dei nostri sensi. Il nostro corpo può essere inteso come un laboratorio alchemico, in cui può avvenire una trasformazione delle nostre forze, se opportunamente e saggiamente diretta ed orientata.
Il nostro corpo può essere assimilato alla fornace, al vaso alchemico in cui avviene la “cottura” delle sostanze per generare l’Oro filosofale, il nuovo principio di coscienza non più dominato dai sensi, ma che li assoggetta alla sua presenza ed al suo volere.
“Venire alla luce uscendo dalla roccia” può quindi significare svincolarsi dalla condizione ordinaria di pietrificazione, di fissità e rigidità della coscienza che ci preclude una percezione più ampia e profonda della realtà e far nascere in noi una nuovo stato di coscienza segnato dalla capacità di “vedere” (simboleggiata dalla luce della fiaccola) e dalla capacità di combattere e vincere le insidie di Ahriman (il Signore dell’oscurità), in noi e fuori di noi (raffigurata dalla spada).
I simboli dell’Uovo (che ricorda l’Atanor alchemico) e della pigna (che allude anch’essa alla “fecondità” della terra) rientrano nello stesso ordine di idee.

Questa lettura sotto il profilo dell’interiorità non esclude ma è anzi complementare a quella illustrata da Rudolf Steiner (3), nei termini di quella che possiamo definire una “metafisica della natura”, ossia una considerazione dei processi della natura sotto un profilo più profondo in relazione al Mistero del Solstizio invernale, che egli legge in relazione ai processi, al tempo stesso fisico-chimici e “sottili” , che si svolgono nella terra e nella natura in generale.
A partire dall’autunno, la terra ripiega su se stessa, la natura si richiude, le foglie ingialliscono e cadono, la temperatura diminuisce, la neve scende sulla terra e la copre col suo manto bianco.
Nei paesi mediterranei, pur in assenza di neve, si assiste, comunque, ad un assopirsi della terra, ad un “sonno” della natura, mentre la luce diurna gradualmente diminuisce, fino al giorno più breve dell’anno, il Solstizio d’Inverno.
Questa fase di sonno della terra va equilibrata dall’uomo con un suo processo di raccoglimento interiore – reso propizio dalle condizioni ambientali esterne – e di affermazione di una forte volontà interiore di rinnovamento e di veglia coscienziale. E’ il momento in cui l’uomo può raccogliersi e chiarire i suoi pensieri, la direzione della sua volontà, gli aspetti di sé che vuole migliorare.

I Grandi Misteri, ad Eleusi, venivano celebrati – ed è significativo – nel mese di settembre/ottobre.
La brina, la neve, il ghiaccio, visti da un punto ideale di osservazione, da una distanza siderale, ci apparirebbero come un grande specchio cosmico che attrae e rispecchia i raggi solari. La terra assorbe ed elabora la forza solare.
Nella terra si genera, in questa fase, il nuovo Sole, la nuova luce, che comparirà, realmente e simbolicamente, dal Solstizio in poi, sull’orizzonte, come una luce ascendente e sempre più duratura.
Sul piano alchemico, il nuovo Sole è la forza solare assorbita dalla terra e rigenerata in forza fecondante, nel calore, nel fuoco tellurico che si raccoglie alle radici delle piante, nelle profondità del grembo materno e che elabora le nuove forme di vita che poi si manifesteranno col risveglio primaverile della natura.
Quando Steiner parla del seme, parla, non a caso, della sua “cottura” da cui scaturisce la pianta, la nuova forma di vita.
Il nuovo Sole nasce dall’oscurità e dalla terra visti come una grande matrice e, contestualmente, nell’interiorità dell’uomo nasce la nuova coscienza, spiritualmente fortificata e rinnovata.
L’immagine della dea Iside che reca fra le braccia il Fanciullo Solare, Horus, nato dall’unione con Osiride (il Sole) – sposo e fratello di Iside – simboleggia lo stesso ordine di significati.
La Donna dalla chioma e dagli occhi chiari, dal biancore luminoso, di una luminosità lunare, che reca in braccio il Fanciullo Divino con l’aureola radiata, è un Archetipo presente in tutta l’arte italiana del Trecento e del Quattrocento, seppure con diversità di stili.

Proviamo ora a leggere il tutto sub specie interioritatis. Il nuovo Sole (la nuova coscienza) non nasce da solo e non esiste da solo. Per una completa realizzazione spirituale occorre, è imprescindibile, l’apporto vivificante della forza fecondatrice e della sua Acqua di Vita, dell’energia femminile (diversamente rappresentata di volta in volta: l’Uovo, la terra, la roccia, la pigna) che dona la freschezza interiore e lo slancio creativo per rinnovarsi.
La terra, la roccia, possono essere colti nella loro ambivalenza reale, come pietrificazione interiore, ma anche come laboratorio creativo; sono veri entrambi gli aspetti, a seconda del piano di coscienza in cui l’uomo si trova.

Rispetto a questi significati, gli altri simboli appaiono come complementari.
Il fiume, ossia il fluire delle acque, simboleggia il divenire, perché la nuova coscienza sorge nella storia, nell’integrazione con la quotidianità e non in un astratto evasionismo. Questo è un insegnamento molto importante e di forte attualità, poiché la modernità va integrata, armonizzata con la realizzazione interiore e non negata in una prospettiva dualistica e dissociativa.

L’albero di fico simboleggia, in tutte le tradizioni, una potenza di fecondità e di risveglio interiore; il Buddha raggiunge l’illuminazione ai piedi di un fico, come il Ruminalis Ficus è fondamentale nella tradizione romana, perché alla sua ombra la lupa si prende cura dei due gemelli, Romolo e Remo. La sacralità degli alberi nelle tradizioni antiche non è una mera credenza ma rispecchia precise conoscenze e percezioni sugli aspetti sottili, energetici degli alberi e sulla funzione di ausilio che essi possono avere per l’esperienza del risveglio dell’uomo.

Il raccogliere i frutti allude all’integrazione dell’uomo, spiritualmente rinnovato, con le “forze” della natura. Mangiare i frutti vuol dire integrare in sé le energie naturali, ossia l’aspetto “sottile” della natura.
I pastori che rendono l’omaggio d’amore a Mithra petrogenito simboleggiano – e qui mi richiamo alla lettura di J. Evola (4) – le presenze spirituali che animano la natura e che si dispongono armonicamente ed in modo accogliente verso il nuovo essere.
E’ agevole vedere come il cristianesimo, in una versione non misterica, ma del tutto fideistico-devozionale, abbia ripreso vari elementi di provenienza misterica, fra i quali anche alcuni elementi costitutivi dello scenario del presepe . Il culto di Mithra risaliva all’antichità religiosa iranica ed indiana, fino alla preistoria dell’ “indoeuropeo comune”. Secondo le fonti dei Parsi – i seguaci di Zoroastro presenti tuttora in India – lo scenario astronomico-simbolico cui allude la tauromachìa mitriaca risalirebbe, addirittura, al 9000 a.C. circa e non al periodo dell’Impero Romano (5). E’ un tema sul quale mi riservo di ritornare in modo più specifico.
E’ chiaro, quindi, che a differenza di quanto sostenevano i polemisti cristiani nei primi secoli del cristianesimo, fu proprio questo antichissimo culto di origine iranica – fortemente ed originalmente romanizzato – ad esercitare un’influenza sulla religione cristiana.

Di là da questo aspetto storico, i significati racchiusi in quelle figurazioni simboliche risultano di una grande ed attuale validità: vivificare ed attualizzare, con la disciplina interiore, una direzione centripeta, un ritorno a se stessi, alla propria identità più autentica. Osservare se stessi, per riscoprirsi, per conoscersi (il gnòti te autòn dell’Apollo delfico), per perfezionarsi.
In una società dominata dall’effimero e dal banale, dall’esteriorità, dall’attimo, dalla frenesia del “fare”, non potrebbe esservi migliore lezione di saggezza.
L’attitudine combattiva, il forte volere (= la spada, la volontà ben orientata) e la chiarezza della propria coscienza con la luce della fiaccola interna (= il giusto “vedere”) sono le risorse interiori da attivare e fortificare per un cammino di rinnovamento.

Stefano Arcella

NOTE

1) G. Kremmerz, La Scienza dei Magi, Ed. Mediterranee, 1975.

2) R. Steiner, L’esperienza del corso dell’anno in quattro immaginazioni cosmiche, Editrice Antroposofica, Milano, 1983, pp. 20-35. Cfr. Ora il bellissimo saggio anonimo Solstizio d’Inverno, pubblicato sul sito www. centrostudilaruna.it/tradizionesolare. L’anonimo autore di questo saggio sta svolgendo un interessante lavoro di rielaborazione e reinterpretazione del pensiero di Rudolf Steiner, riportandolo agli Archetipi del mondo pre-crisitano.

3) J. Evola, La Via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mithra ( a cura di Stefano Arcella). Fondazione J.Evola-Controcorrente, Napoli, dicembre 2007; cfr., in particolare, il primo saggio di J. Evola che reca lo stesso titolo del testo e che venne pubblicato, in origine, sulla rivista Ultra, n.3, Roma, 1926.

4) Shorab Sola Hakim, I Misteri di Mithra visti da uno zoroastriano, in Conoscenza Religiosa, I, 1976, p. 63 ss. L’intervento di questo sacerdote Parsi è la relazione presentata nel Convegno Internazionale di Studi Mitriaci svoltosi a Teheran nel 1975. Sulla personalità e la spiritualità di questo sacerdote Parsi cfr. E. Zolla, Aure. I luoghi e i riti, Marsilio, Venezia, 1995, pp. 125 – 131.