ACQUE CATARCHICHE ED ESCATOLOGICHE

ACQUE CATARCHICHE ED ESCATOLOGICHE

 

C’è un passo evangelico, nel quale Gesù Cristo dice che Giovanni Battista lo ha battezzato con l’acqua e che lui battezzerà con lo Spirito Santo. Questo passo apre a un interessante collegamento tra il cristianesimo e le religioni pre­cristiane, tra le quali quella che nella religione wicca è definita “vecchia religione”, termine dato da Margareth Murray, un’egittologa inglese, studiosa di antiche religioni. Tra queste religioni, ad esempio, c’è quella, di cui sono deità le tre Moire, una religione probabilmente legata alla Grande Madre.

Altre figure, probabilmente definite da Margareth Murray, all’interno della “vecchia religione”, sono le fate dei racconti ladini e le ondine dei racconti tedeschi del Tirolo, le quali possiedono il dono della chiaroveggenza e vivono nelle grotte, da cui sgorgano acque di sorgente. Queste figure mitiche fanno pensare alle deità greche, come le Moire, ad esempio, che vivevano nelle grotte, dove si trovavano fonti di acque dolci e nei luoghi acquei dolci, che avevano forse origini legate ai culti matriarcali. Queste deità probabilmente adoravano i serpenti, culti dei quali si constata ancora oggi la sopravvivenza nella festa detta dei Serpari di San Domenico, celebrata a Cocullo, in Abruzzo, dove vengono catturati i serpenti nei boschi e portati nel paese, il giorno della celebrazione, per poi essere lì liberati. Le deità primadette, legate ai culti matriarcali pre­cristiani, come le ninfe, le egerie, le naiadi, erano molto probabilmente le guardiane dell’acqua, esse forse erano le antropomorfizzazioni dei serpenti, che vivevano nei pressi degli stagni, che nella religione della Grande Dea erano considerati animali mitici. Le ninfe sono simboleggiate da un animale che ama nell’immaginario culturale greco, stare attaccato al suolo terrestre, il serpente. Questa è una delle figure simboliche più potenti, relativamente alla divinità della Grande Madre.

Le ninfe talvolta sono esse stesse antropomorfizzazioni di serpenti, molto probabilmente, infatti, si diceva che stessero a guardia delle fonti. Anche la figura mitica dell’anguana, presente nell’area piemontese, lombarda e soprattutto veneta, talvolta è legata a questo genere di antropomorfizzazioni. Se ci soffermiamo a considerare l’etimologia della parola anguana, scopriamo come questo termine derivi dal latino aquana, ninfa, creatura delle acque, ma l’etimologia popolare la associa all’etimologia della parola anguilla, dal latino anguilla, diminutivo di anguis, serpe. E’ molto singolare che la parola veneta bisatto, indicante l’anguilla, derivi da biscia, a sua volta derivante dal latino bestia, che dal V° sec. d.C. comincia ad indicare il serpente. Se poi si guarda alle caratteristiche di questo pesce, si scopre come esse siano simili a quelle attribuite all’anguana. L’anguilla è’ un pesce di abitudini notturne, che si muove in prevalenza con l’assenza di luna, poiché esso è lucifugo e possiede caratteristiche simil­anfibie, poiché si muove anche sul terreno al di fuori dei corsi d’acqua ed è amante del fango, dove ama cacciare e dove anche può sopravvivere a lungo. Altre sue caratteristiche lo pongono anche in diretto contatto col mistero e la morte. Per esempio è ancora poco chiaro il suo ciclo riproduttivo, per lungo tempo del tutto avvolto nel mistero. L’anguilla parte per un lungo viaggio, di cui si sa ancora poco con certezza, così come l’anguana, nelle tradizioni orali, ciclicamente si reca in luoghi solo a lei conosciuti. L’anguilla infine ha capacità necrofaghe e saprofaghe, amando cibarsi di animali morti. Le anguille, come rappresentazioni delle anguane e probabilmente in seguito, delle ninfe, delle moire e di molte altre figure mitiche femminili pre­cristiane, si rifugiano spesso nelle grotte d’acqua dolce e ogni anno forse, secondo le culture pre­cristiane, andavano oltre il concepibile, cioè in luoghi geografici immaginari, paragonabili al luogo dell’oltrevita.

La figura mitologica dell’anguana prevalentemente è vestita di bianco, che simbolicamente per certe culture è il colore dell’aldilà ma, a volte, nelle narrazioni di tradizione orale del Veneto, del Trentino e del Friuli, si racconta che essa indossi abiti colorati, rossi, neri o verdastri e assuma le sembianze proprie dell’anguilla femmina. A volte infatti l’anguana nelle narrazioni delle culture orali venete, è descritta con la coda di pesce, attorno alla quale si avvolgono i lunghi capelli, in effetti l’anguana ricorda molto quell’animale mezzo pesce e mezzo serpente, che nell’immaginario popolare è l’anquilla. Altre volte invece è raffigurata con i piedi di capra,come in un disegno attribuito a Tiziano Vecellio, il grande pittore cadorino. È un’ipotesi e forse un paradosso, da paradoxa, opinione oltre la verità, ma i colori dell’anguana suscitano simbolismi legati al rapporto tra i colori e un’immaginario popolare arcaico, forse pre­cristiano, tanto da dovere essere definito come forma archetipale. I colori in esame sono il nero, il rosso e soprattutto il bianco, rappresentato nell’immaginario popolare e nell’arte medioevale, sopratutto veneta, dal colore delle vesti dell’anguana. Il nero la può ricollegare al mondo dei morti, il rosso alla fecondità, il verdastro al suo contatto con l’acqua e con la terra.

Le anguane in alcuni accezioni dei dialetti veneti e trentini sono chiamate vane. Questo ci apre a una fantasia interpretativa interessante, è possibile infatti che le vane siano collegate alle popolazioni pre- indoeuropee e matriarcali di origine germanica, i Vani. Questi erano una delle poche popolazioni pre- indoeuropee, ancora memoria storica dell’occidente, la cui lingua ancora oggi è parlata in una delle poche aree che gli Asii non poterono invadere.  Nel periodo post­glaciale, che probabilmente suscitò la ricerca da parte degli indogurganici di nuovi territori da colonizzare, la zona abitata dai Vani, che si colloca nell’attuale Finlandia, era troppo fredda per loro, che venivano in Europa da zone molto più calde. Questo mi fa supporre il motivo per cui in Finandia, ancora oggi c’è probabilmente il ceppo linguistico dei Vani. Nella loro lingua, insieme a quella dei baschi, ancora oggi persiste un nucleo linguistico pre- indoeuropeo.

La ridefinizione veneta, trentina e ladina delle anguane, con il termine vane, può derivare da un sincretismo linguistico germanofilo. Tale germanismo, è presente in due culture: in quella connotata dal dialetto veneto e trentino, linguisticamente nel contempo germanico e italico e in quella connotata dalla lingua ladina, più specificamente, quella riguardante il dialetto ladino della val di Fiemme, uno dei quattro dialetti ladini di questa antichissima lingua italico­germanica, parlata da una popolazione di origine retica, proveniente dall’area germanica orientale, che incontrandosi con la cultura italica, durante la colonizzazione romana, prese il nome odierno di ladina. Anche simbolicamente le anguane sono legate alla vita e alla morte, così come alla purificazione. Pensare che lavare la biancheria, tipico di queste figure, era un lavoro che un tempo si svolgeva in primavera ed in autunno, al risveglio della vita e all’arrivo della morte. Ma si faceva anche in altre situazioni, alla nascita, durante il puerperio, durante la vecchiaia (pensiamo ai panni dei neonati e dei bambini, così come ai panni di un anziano). Si lavava poi tutta la biancheria di un morto subito dopo il funerale; così come si lavava il sangue mestruale. Tutto il resto poteva attendere il cambio delle stagioni, questi panni invece andavano lavati subito. Ma le donne gravide e le puerpere non potevano lavare, rischiavano la loro vita, così intervenivano le fate e le anguane, costituite in quell’immaginario culturale, spesso da donne morte di parto, da fanciulle e bimbe morte prematuramente o addirittura abortite, ancora avvolte nel sacco.

Queste figure antiche rappresentano, in tale immaginario tradizionale, il veicolo psicopompo tra il luogo della vita e il luogo dell’oltretomba, la morte, rappresentano il veicolo comunicazionale, all’interno delle ritualità stagionali delle antiche religioni, tra la primavera e l’autunno, tra spirito e carnalità. Nella loro essenza vive il serpente, e l’etimologia dei loro nomi ne è testimonianza. Sarebbe interessante interpellare anche la biologia, che ci insegna come il grado di salinità del sangue umano sia uguale al grado di salinità dell’acqua marina, retaggio della nostra primitiva origine. Mi piace fare questo parallelismo, seppure fantasioso, però considero bello pensare che le anguane, come le anguille che si riproducono in un mare salino per poi emigrare verso le acque dolci dei fiumi, immaginare che le anguane, appunto, siano figure, che attraverso l’acqua, siano veicolo di un lungo cammino che riconduce a dimensioni antiche e soprannaturali.

Da questa supposizione ne scaturisce un’altra: anche i serpenti e le apparizioni dei serpenti, che fanno la guardia ai tesori nascosti sotto terra, come nel caso della leggenda del cacciatore che si rifugia in una notte di pioggia in una grotta presso San Rabano e trova la gallina d’oro, che lo porta a scoprire dove è nascosto il tesoro, al quale però fa la guardia il serpente che gli impedisce di appropriarsene. Sembra che la figura mitica del serpente sia una antropomorfizzazione di deità femminili,come le egerie, le ninfe, le naiadi, probabilmente appartenenti al culto legato alla grande Madre, culto che verrà inglobato dalla religione cristiana.

Nella leggenda maremmana del cacciatore che scopre il tesoro posto dentro alla grotta nel bosco, dove si trova l’Abbazia di San Rabano, il serpente non è simboleggiato, è un protagonista vero e proprio della narrazione di tradizione orale e sta a guardia del tesoro, impedendo al cacciatore di appropriarsene. La figura del serpente, in questa narrazione, potrebbe teoricamente essere rappresentato anche da San Michele Arcangelo o essere la sua rappresentazione, come lo è probabilmente rispetto alle naiadi, alle egerie, alle moire, alle ninfe greche e romane, alle fate venete, friulane e trentine e alle ondine tirolesi. Infatti, sia lui, che San Domenico, sono legati entrambi alla figura serpentaria. San Domenico, celebrato in una festività a lui dedicata, in un paese del centro Italia e che ho già citato, è un santo serpentario, in onore del quale vengono catturati i serpenti per essere poi esposti e liberati in paese, durante la celebrazione a lui dedicata.

Sia San Domenico, che San Michele Arcangelo, sono probabilmente delle figure sostituitrici di deità pre­cristiane legate al culto del serpente, una religione probabilmente appartenente alla cultura matriarcale della Grande Madre. Quindi San Michele Arcangelo e San Domenico, sarebbero sostituzioni cristiane di figure divine legate alla Grande Madre e le celebrazioni laiche fatte nei racconti a veglia, nei tempi in cui non esisteva ancora la cultura scritturale e vigeva la tradizione orale, come modalità di continuità sociale e trasmissione delle conoscenze, che usava i racconti di tradizione orale, trasmessi durante le veglie, nelle quali venivano tramandati, in un ordine sociale di carattere gerontocratico, la memoria storico­culturale e religiosa che raccoglieva in se tutto, anche le competenze tecniche lavorative, ad esempio. La trasmissione attraverso le narrazioni di tradizione orale, delle competenze di ogni genere, ad esempio quelle professionali, all’interno di una memoria storico­culturale di carattere implicitamente religioso, nel senso di religere, unire l’uno alla molteplicità, l’individuo al kosmos, sarebbe legata a celebrazioni religiose antichissime, alle quali esse sono pervenute e nelle quali gli antichi rituali religiosi, dei culti legati alla Grande Madre, sarebbero semplificati proprio grazie alla immissione nei racconti di tradizione orale, apparentemente laici, giunti fino a noi, oggi.

Così, quando in queste narrazioni si parla del serpente che fa la guardia al tesoro posto dentro a grotte, in realtà si rinnovano le ritualità di simbolismi religiosi antichissimi, di culti oramai perduti e inglobati nella religione cristiana. San Michele sarebbe quindi l’antropomorfizzazione divina della figura sacra del serpente, figura liturgica legata a una precedente religione? La risposta non è certo definitiva, ma riallacciandomi alla narrazione di tradizione orale del cacciatore che scopre il tesoro di San Rabano, narrazione, la quale, pur non essendo legata all’acqua, è comunque una leggenda legata cripticamente alle divinità femminili delle religioni arcaiche matriarcali, in quanto il serpente è raffigurato nei miti delle acque dalle deità femminili e come le naiadi fa la guardia alle fonti, il serpente di San Rabano e San Michele Arcangelo, fanno entrambi la guardia a ciò che di sacro contiene la grotta: l’uno il tesoro, l’altro la sacra acqua miracolosa. Tra l’altro la leggenda di San Rabano ubbidisce ai quattro canoni che costituiscono la similarità tra le grotte che possiedono acque terapeutiche:

1° sta in zone boscose e lontane dalla presenza umana,

2° sta in grotte profonde, infatti la parte più importante della narrazione del tesoro di San Rabano, si sviluppa nel luogo dove sta nascosto il tesoro, proprio in una grotta profonda.

3° si trova sopra monti o rialzamenti di terreno,

4° l’avere al proprio interno un tesoro sacro, sacro come le acque considerate miracolose, entrambi tesori, nel caso di San Rabano, letterale e nel caso di San Michele Arcangelo, metaforico nel caso di San Michele Arcangelo.

La figura protettrice è espressa letteralmente ed il tesoro, costituito dall’acqua, espresso metaforicamente, nel caso invece della narrazione di San Rabano, la figura protettrice è espressa metaforicamente ed il tesoro espresso letteralmente. Questa dualità diametralmente opposta, che raffigura immaginari simili è, a mio parere, un dato fondamentale, dal quale si può immaginare più da vicino la contiguità tra l’arcaica religione matriarcale e quella più recente del cristianesimo. Nelle grotte dedicate a San Michele si trova l’acqua sacra, un tesoro metaforicamente definito e nella grotte di San Rabano, protetta dal serpente, di cui sono antropomorfizzazioni le deità femminili precristiane, si trova un tesoro letteralmente definito. Ci sono i riallacciamenti alle acque sacre, al serpente, similarità molto forti, che mi fanno pensare al legame con i culti pre­cristiani, ai quali con una certa probabilità i due argomenti erano legati.

Penso che possa esserci un legame tra le religioni matriarcali legate alla Madre Terra e le credenze popolari nelle acque miracolose delle fonti lattaie e di altre sorgenti curative, come ad esempio quelle che si trovano in Sardegna, le quali hanno origine nelle loro caratteristiche cultuali dai santuari dell’antica Fenicia e dai punici, da cui deriva la cultura sarda.

Stefania Pomiato, Marco Viti

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