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Romanità…sub specie interioritatis!

Roma non è soltanto una entità geografica.

 Roma non è circoscritta da fiumi, monti o mari.

 Roma non è un fatto di razza, sangue o religione:

Roma è un ideale”[1]

Si presentano diverse visuali con cui ci si può approcciare al Mito di Roma, alla sua gloriosa storia, alla sua immensa eredità giuridico-religiosa e sapienziale. Secondo il nostro modesto intendimento, il Mistero dei Sette Colli va inteso, anche in continuità con l’incipit ciceroniano che abbiamo voluto evidenziare, primariamente come una dimensione dello spirito, come un preciso stato ontologico, come un trascendimento, una sublimazione del dato etnico-naturalistico. Non vanno sottaciute, in tale senso, le personalità imperiali di un Flavio Giuliano – che non era romano di nascita né vide mai la città di Roma -, oppure di  Marco Giulio Filippo, più noto come Filippo l’Arabo, per le sue origini non proprio indoeuropee, nonché la figura eroica di Stilicone, Magister Militum e Patrizio, nonostante la propria origine germanica, più romano dei romani di nascita, per la difesa che oppose ad Alarico, in nome di quell’Idea di Roma, come adesione a ciò che Evola ebbe a definire autentica Razza dello Spirito:”Universalità come conoscenza e universalità come azione: ecco le due basi di ogni epoca imperiale. La conoscenza è universale, quando giunge a darci il senso di cose, dinanzi alla cui grandezza e alla cui eternità tutto ciò che è pathos e tendenza degli uomini scompare: quando ci introduce nel primordiale, nel cosmico, ciò che nel campo dello spirito ha gli stessi caratteri di purità e di potenza degli oceani, dei deserti, dei ghiacciai[2]. In tal guisa, è possibile comprendere come la Romanità possa esser stata definita – da Evola, da Reghini, da Filippani Ronconi – un autentico Mistero, che le pur approfondite ed erudite ricerche storico-archeologiche non hanno la capacità di cogliere minimamente. Le connessioni della Città Eterna col substrato italico, col contiguo mondo etrusco, con la discendenza mitica troiana, con le migrazioni indoeuropee, come mirabilmente descritte dal saggio su Cibele di Alessandro Giuli[3] oppure negli studi di un Dumèzil, non colgono il senso profondo del patto dei Romani con gli Dei, perché prettamente di natura misterica, cioè di origine e condizione noetica, quale realizzazione di presenza spirituale “ordinata”. Non è assolutamente casuale, che lo stesso Giuli, sfatando il falso mito dell’assenza di una dimensione mistagogica nella religiosità romana, si riferisca, nell’ambito del culto metroarco in Giuliano ad una dottrina profondissima, di levatura iniziatica non devozionale, tramite cui solamente, nell’antichità come nell’ermetismo italico dei primi del ‘900, è stato possibile rimanifestare la Romanità nella sua essenzialità arcana:”Quel che a tutti è lecito dire è che presso l’equinozio primaverile, con il Sole in Ariete, gli ierofanti romani si preoccupano di trattenere entro il limite della giusta misura la spinta alla rigenerazione cosmica…fecondatore nel dominio della <<natura naturata>> e anagogico nel dominio della <<natura naturante>>…[4]. Tale riferimento teurgico è afferente all’idea di Roma come Eternità e Ordine, indi come Ecumene Cosmica, come incarnazione terrena di una dimensione metafisica che non può essere inficiata dal divenire storico o ciclico, ma che permane, eternamente, come Fas uno e tripartito, senza limitazioni, sancita dalla predizione del Numen segreto della stessa Città:”His ego nec metas rerum nec tempora pono, imperium sine fine dedi[5]. Tutto ciò ci conduce a definire magicamente l’idea di Fas, non solo come diritto divino, ma come volontà divina che si esplicita, nella sua a-cosmicità, tramite la classica ripartizione triadica, pitagorico-platonica, nella partizione macrocosmica, come sede delle divinità infra-cosmiche, in quella statuale, come dimensione del Diritto e della comune Res Publica, ed, infine, nella dimensione microcosmica, come perfetta analogia ermetica tra “ciò che è in altro e ciò che in basso”. E’ la perfetta armonia tra Ordine divino-cosmico, Ordine civile-sociale, Ordine personale-psichico[6], in cui la Pace degli Dei, la Giustizia nel Politico, il riconoscimento del Demone nel cittadino, possono realizzarsi simultaneamente con un processo di identificazione palingenetica, tramite un’opera di visione e di equilibrio, di anamnesi e di riconquista di un ordine primordiale smarrito. Pertanto, l’analogia tra  Cosmos – Antropos – Polis si configura come adesione, non solo ideale e vagamente emozionale, ma secca e priva di buoni intendimenti, perché autentica trasfigurazione metanoica, a quella dimensione noetica indicata da Platone ed incarnata nella storia dalla Romanità:“Esiste dunque nei cieli un modello per chiunque intenda vederlo e, vedutolo, fondarlo in sé stesso. Che siffatto esemplare esista o abbia mai a esistere in alcun luogo non importa, giacché questo è l’unico Stato di cui egli sia partecipe”[7]. L’orizzonte magico-realizzativo dell’Ecumene Romana come dimensione dello spirito, come dimensione dell’Ordine, lo si evince ancor più maggiormente se si considerano le diverse varianti del mito di Fondazione dell’Urbe. A nostro parere, in tale ambito, è fondamentale consultare le opere più significative di due importanti studiosi del mondo romano, cioè Arcana Urbis di Marco Baistrocchi[8] e Il Nome Segreto di Roma di Giandomenico Casalino[9]. A differenza di come molti reputano, il Baistrocchi, sulla scia delle testimonianze di Plutarco, Macrobio e soprattutto Varrone[10] afferma che il primordiale Sulcus Primigenius non fosse stato affatto quadrangolare, ma circolare e come tale associazione sia in perfetta sintonia con riferimento archetipale e celeste, anche rispetto al modello della capanna arcaica greco-romana, al cui centro vi era un focolare rotondo. A tale centralità sferica, simbolo del Centro del Mondo in cui si manifesta, tramite l’axis mundi che è rappresentato tanto dal focolare di Vesta quanto dal Mundus e dal Pomerium (tutti a forma circolare), la presenza numenica nella sua triadica esplicitazione, cioè celeste, terrestre e infera[11], si affianca ad una progressiva sostituzione nel mito e nei riporti testimoniali della forma sferica con quella quadrata, soprattutto in ciò che è possibile leggere in Dionisio Alicarnasso e Cicerone. Il Baistrocchi, inoltre, ci fornisce alcuni elementi che potremo, di seguito, sviluppare in un’esegesi alchimica tramite lo studio citato del Casalino:”…sarà forse opportuno non passare sotto silenzio il fatto che il ternario è rappresentato geometricamente dal triangolo, ma anche assai spesso, sotto certi profili, dal cerchio, come il quaternario dal quadrato. Abbiamo anzi motivo di ritenere che il passaggio da un sistema all’altro si sia verificato a Roma in epoca assai antica…è possibile infatti che si sia potuto procedere a rettificare l’originario perimetro romuleo ed a tracciare, nuovamente, ma sempre sul Palatino, un solco quadrato[12]. Tale mutamento polare non può che essere colto da una profonda analisi di natura magico-simbolica, l’accademia potendo certificare solo la consequenzialità degli eventi e dei riferimenti, non comprendendo il senso recondito ed altamente spirituale, il quale ci viene suggerito dal Casalino, tramite Kerenyi, secondo cui la sovrapposizione della Roma Circolare con quella Quadrata farebbe emergere la vera forma dell’Urbe, cioè quella di un Mandala, la cosiddetta ed ermetica “quadratura del cerchio”, in cui la dimensione celeste viene alchimicamente fissata nella sfera terrestre per trasmutarla e renderla ad immagine e somiglia del Mondo degli Dei:”…la piazza quadrangolare del Comitium (cioè la quadratura del mundus che è il fosso rotondo di Plutarco) con al centro il Mistero della Pietra (lapis niger) che occulta la divinità essenziale di Roma…[13]. Da tutto ciò, si desume ancora una volta il significato dell’Urbis, che è anche Orbis, che è città che diviene Mondo, che è Omphalos che ridona l’Ordine Divino, è l’Impero, cioè il Mondo divinamente Ordinato, per cui i simboli di tale carattere è possibile rintracciarli nella giurisprudenza espressa nel Digesto di un Ulpiano[14], come nella preminenza augustea ed architettonica del marmo, come elemento di purezza, di lucentezza e di stabilità: la Romanità, quale dinamica ordinatrice e trasfigurante, espressa nel Foro, nelle moderne e fasciste costruzioni dell’EUR, lontana, come ben insegnava Evola[15], tanto dal pietismo cristiano quanto dalle forme acquatico-femminee di un nebuloso paganesimo, che non sa distinguere, selezionare, ma che tutto confonde, superficialmente, smarrendo il senso di diversità di Roma rispetto a tutto il resto. Ritorna, ancora una volta, l’idea ecumenica, come ordine razionale universale, che non concepisce il mondo come un’arena agonale tra dualismi, ma come cosmo che armonizza le differenze polari[16].

E’ la via politico-sacrale che solarmente riordina il Cosmo in accordo pacifico con gli Dei, permettendo al cittadino di riannodarsi a quella originaria trama spirituale da cui solo illusoriamente si è e si sente separato. Tale è l’idea che rifulge nella vita, nelle opere, negli scritti di Giuliano Imperatore, che non definiremmo ultimo imperatore pagano, ma ultimo Imperatore, uomo che integralmente ha interpretato ed esplicitato la volontà divina, così in Alto quanto in basso. E’ l’autentica concezione imperiale, quella espressa da Giuliano, che fa assurgere Helios quale forza trascendente e metafisica a espressione dell’Ente che legittima e consacra l’Autorità dello Stato ed il suo ordinamento, in cui l’Imperator è incarnazione autentica del Sacro che informa e sublima il Politico. Pertanto, la visione romana si caratterizza per la sua alta spiritualità, per la sua ecumenica e tollerante visione del mondo, che concepisce come uno e molteplice, lontana dal settarismo cristiano e dal suo omologo moderno, cioè quello massonico, esprimendosi in tutta la sua bellezza tramite le parole proverbiali di un Simmaco:“Guardiamo le medesime stelle, comune è il cielo, un medesimo universo ci racchiude: che importa con quale dottrina ciascuno ricerca la verità? Non si può giungere fino a così sublime segreto per mezzo di una sola via[17]. E’ la realizzazione di ciò che è conforme al Divino, esclusivamente l’ordinato ed armonioso svolgersi della Natura[18].

Nell’ambito della tripartizione analogica ivi enunciata, al di là della dimensione civile-sociale – che non è inerente codesto studio e che il lettore potrà approfondire in autori come Platone, Evola, Dumèzil[19] e nel piccolo capolavoro di Franco Freda, “Platone, Lo Stato secondo Giustizia” delle Edizioni di Ar – è possibile comprendere come esista, secondo la dottrina tradizionale, una diretta corrispondenza tra Ordine Divino e dimensione interiore, tra macrocosmo e i livelli di fisiologia occulta. In quelli che sono gli insegnamenti dell’Ars Magna ogni centro sottile è presieduto da un Nume, da un riferimento metallico, astrale e da una precisa aderenza ad una fase specifica dell’Opus Magicum, così come da un preciso indirizzo palingenetico. Se consideriamo l’uomo come un vaso alchimico, quindi organicamente unitario ed ermeticamente chiuso, è possibile constatare la sua tripartizione, in un centro motore, in un centro emozionale ed in un centro intellettivo, con l’aggiunta di un centro di pura irradiazione divina, che si pone al di là della realizzazione cosmica[20]. Al plesso motore, del basso ventre, potremo associare Quirino, il pacificatore, ma anche l’elemento Terra, la stagione dell’Inverno, la notte oscura e la prima fase al Nero dell’Arte. Il suo indirizzo trasmutatorio è, pertanto, configurabile nel primo dominio degli istinti e della materia minerale, cioè nella virtù platonica della Temperanza. Al plesso emozionale (detto anche plesso solare od ombelicale) potremo associare Marte[21] Gradivo, la legione armata ma disciplinata, l’elemento Acqua (purificato), le prime luci dell’alba, la stagione primaverile e la seconda fase al Bianco dell’Arte: l’aretè della Fortezza in esso testimonia la capacità di imbrigliare la foga guerriera dell’irrazionale, che è dimensione, appunto, emozionale, quindi lunare[22]. Al plesso intellettivo o mentale, al centro degli occhi, come terzo volto occulto di Giano si esplicita tutta la Potenza Numenica e Paterna di Jupiter: come dominatore dei cieli, a lui sono associati l’elemento Aria, il Mezzogiorno, cioè la piena visibilità del Sole sensibile, la stagione dell’estate, con la Giustizia, come virtù di riferimento. In Giove si attua il giusto ordine che necessariamente deve esserci tra gli elementi, circa l’identità tra polis e Cosmo, tra polis e cittadino: la possibilità di porre armonia dentro di sé, di riconoscere il proprio essere, avvicinando sé  e la stessa comunità in cui si vive al mondo ordinato degli Dei. Qui si manifesta l’esegesi arcana della Triade Capitolina, quale realizzazione interiore di una pratica magica o taumaturgica, in cui si attua la neutralità della componente terrena, similmente all’armonia dei vasi comunicanti nella dottrina ermetico-alchimica, che permette di stabilizzare ciò che è profanamente inquieto, misto. Il Fas che abbiamo definito uno e triadico, però, necessita di un completamento iper-cosmico, in riferimento al plesso coronale, presieduto da Saturno, dall’elemento Fuoco, dall’autunno, stagione della raccolta e dei Saturnalia, dal Sole di Mezzanotte e dall’ultima fase al Rosso dell’Arte. La Sapienza, come conoscenza effettiva ed irradiante, è la realizzazione e la conquista dell’Eudaimonia. In tale quadro generalista, in quelle che sono state i cambiamenti circa ciò che si andrà a configurare come la Triade post-arcaica, Giunone sostituirà Quirino, Jupiter diverrà Giove Ottimo Massimo, inglobando in parte anche le funzioni di Saturno descritte.

Tale è il sapere antico che supera il fideismo popolare delle religioni di massa, tale l’Arte che non conosce contrapposizioni, dicotomie, perché è la pratica medico-alchimistica della misura, del giusto dosaggio, del giusto rapporto tra gli elementi, tra uomini, demoni, eroi e Dei, della naturale complementarietà tra le due polarità dell’Universo. E’ l’affermazione delle divinità bifronti, così comune nell’antichità: si pensi al Giano bifronte dei Romani o allo stesso Albero della Vita, che nella Tradizione simboleggia la Forza Universale, la Potenza-çakti, esprimendosi in modo ambivalente, essendo anche fonte di pericolo e di morte. In generale tutte le popolazioni di origine indoeuropea, e quindi anche i Romani ben sapevano che soltanto sublimandola col Rito tale potenza concedeva l’immortalità olimpica; chi commetteva, invece, l’errore di “affrontare” la Forza fuori del Rito correva il rischio di essere travolto da ciò che per lui era solo caotico ed oscuro, proprio per non aver invertito verso l’Alto la Forza stessa, per aver osato senza l’equilibrio psichico necessario. E’ questa essenza che ci permette di conoscere il nomen-numen di ciascuna cosa, la componente partecipativa del Tutto, la matrice comune di esso, la luce che non si vede: essa può essere colta non già dai sensi,  bensì in forma confusa dalla dialettica in un primo momento e dall’intuizione poi, ma la conoscenza effettiva di codesta luce, di codesta Forza è il dominio, il potere ed il segreto dell’Alta Magia:”…la giustizia più perfetta consiste nell’attività rivolta verso l’Intelligenza, la temperanza in una conversione interiore verso l’Intelligenza, il coraggio in una impassibilità che imita l’impassibilità naturale dell’Intelligenza, alla quale essa guarda[23]. Pertanto, il Romano ascolta, vede e sa e, per l’effetto, agisce nei termini in cui la legge è la natura ordinata secondo il volere degli Dei. La legge, dunque, si esplicita quale principio operativo della Giustizia Divina (la famosa Dea con la bilancia), elemento trascendente mediante cui si realizza il perfetto equilibrio tra gli opponenti esistenti nell’immanente:”Se le pratiche preliminari della concentrazione, del silenzio, del senso integrale del tuo corpo e della sua attività saranno state correttamente effettuate, se in Te saranno armonizzati gli elementi, allora potrai evocare del profondo del tuo essere la sensazione del tuo Corpo Perfetto[24].

Infine, nel sito web EreticaMente.net, da Roberto Incardona, sono state delle nette e pragmatiche indicazioni[25] per un vivere secondo l’insegnamento tradizionale romano, in cui la dimensione interiore, la prudenza, una pratica ascetica di purità mentale, possano riaffermare l’alto ideale sapienziale romano, come centratura animica, tramite cui una data manifestazione dell’Essere possa esplicitarsi, al di là di vane enunciazioni di spurio spiritualismo neopagano o di vuota retorica nazionalistica…la vera Romanità non può che essere SUB SPECIE INTERIORITATIS:“È necessario far rinascere la nostra razza, perché la nostra razza è stata sovente confusa con una razza animale. Noi non siamo degli animali. E anche se avessimo il volto di pellirossa o di persiani o di polinesiani, noi siamo Romani, perché abbiamo, prima di nascere, eletto di essere Romani. Altrimenti non saremmo nati Romani. E anche non parlo di Roma come città, ma dico Roma come realtà spirituale[26].

LUCA VALENTINI



[1] Cicerone, Discorso durante la campagna elettorale della Gallia Citeriore

[2] J. Evola, Universalità imperiale e particolarismo nazionalistico, in I testi de La Vita Italiana, primo tomo 1931 – 1938, Edizioni di Ar, Padova 2005, p. 97.

[3] A. Giuli, Venne La Magna Madre, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2012,

[4] A. Giuli, op. cit., p. 135.

[5] Virgilio, Eneide, 1, 278.

[6] L.M.A. Religio Aeterna, vol. I, Edizioni Victrix, Forlì 2004, p. 257.

[7] Platone, Repubblica, 592b.

[8] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, Libri del Graal, Roma 2009.

[9] G. Casalino, Il Nome Segreto di Roma, Edizioni Mediterranee, Roma 2003.

[10] M. Baistrocchi, op. cit., p. 140.

[11] A tal proposito, le invocazioni al triplice mondo nei Versi Aurei di Pitagora, dovrebbero far riflettere in merito.

[12] M. Baistrocchi, op. cit., p. 147.

[13] G. Casalino, op. cit., p. 69-70.

[14] Ulpiano, Digesto, 1.1.1.3 e 4 “…ius naturale est  quod  natura  omnia  animalia docuit”.

[15] Presentazione di Evola in H. F. K. Gùnther, Religiosità Indoeuropea, Edizioni di Ar, Padova 1980.

[16] Presentazione di Evola, op. cit., p. 12.

[17]  Simmaco, Relatio III, De ara Victoriae, I, 10.

[18] Giamblico, op. cit., XXX, p.333:”Pitagora considerava particolarmente utile all’instaurazione della giustizia la fede nel potere degli Dei; ed è prendendo le mosse da questa che stabilì la costituzione e le leggi, la giustizia e il diritto”.

[19] Un’opera molto importante è Jupiter, Mars, Quirinus di G. Dumèzil, Edizioni Scientifiche Einaudi, Torino 1955, la tripartizione religiosa e civile nel mondo romano ed in quello indoeuropeo è dettagliamente descritta.

[20] Tali insegnamenti è possibile ritrovarli in Kremmerz (I Dialoghi sull’Ermetismo), in Evola (La Tradizione Ermetica), ma anche in Gurdjieff ed in molte opere alchimiche occidentali.

[21] Marte e non Ares, essendoci tra la divinità italica e quella greca una differenza sotto il profilo equilibrante o meno della componente furorica e guerriera: equilibrio presente in Marte, ma non in Ares. Anche la simbologia alchimica specifica tale differenza attribuendo al primo il segno del cerchio della forza elementare fissato e sovrastato da una croce ed al secondo lo stesso cerchio con una freccia verso l’esterno a testimoniare l’instabilità centrifuga della Forza espressa.

[22] E’ completamente fuoristrada chi accosta l’elemento marziale ad una dimensione solare, la quale avrà bisogna di ben altre purificazione, di ben altre sublimazioni per realizzarsi.

[23] Plotino, Enneadi, I, 2, 6.

[24] La via romana degli Dei, pubblicazione privata.

[25] “Per uno stile di vita tradizionale romano” (http://www.ereticamente.net/2015/06/per-uno-stile-di-vita-tradizionale-romano.html)

[26] Pio Filippani Ronconi, relazione presso l’Ass. Fons Perennis di Roma, consultabile in vari siti web.

Il Simbolismo della Guerra Santa

IL SIMBOLISMO DELLA GUERRA SANTA

 Quanto vogliamo significare in questo articolo ha lo scopo di farci distinguere i due tipi di guerra che sul piano umano possono essere condotte, ovvero la grande e la piccola guerra santa. Questo  dovrebbe portarci a meglio valutare, in maniera più approfondita e appropriata, quale sia la vera e giusta guerra santa per la quale valga la pena combattere. Il fine di ogni guerra, a qualsiasi livello la si voglia considerare, sia di ordine metafisico, sia di ordine terreno, ha lo scopo di ricondurre verso la pace, ovvero di ristabilire un ordine precostituito nel disordine e nel caos. Benché a prima vista questo possa sembrare contraddittorio, dal momento che anche la guerra, di per se, rappresenta disordine e caos, si tratta, tuttavia, di un disordine momentaneo. Lo scopo infatti, (e qui vogliamo evidenziare l’importanza del concetto di intenzionalità nel condurre tale battaglia) è quello di ristabilire quell’ordine e quella pace di cui prima abbiamo fatto cenno. Il termine “ricondurre ad un ordine precostituito”, da un punto di vista metafisico, sta per ritornare all’Origine, ovvero a quel Centro metafisico che nella simbologia induista viene rappresentato come “i due che sono entrati nella caverna”. La caverna rappresenta la cavità del cuore e i due di cui si parla sono il Se e l’Io, ovvero il luogo dell’unione tra il particolare e l’universale, tra l’individualità e la Personalità. Ciò che si allontana dal Centro e dall’Unità metafisica, quale luogo di armonia e di pace, separandosi crea dispersione, contrapposizione e, dunque, caos e disordine. Ricondurre all’originaria Unità e al Centro metafisico, pertanto, non significa annullare la particolarità e l’individualità di ciascuna parte e di ciascun essere, bensì annullarne la dispersione e renderle complementari e non contrapposte, valorizzandone in questo modo le differenze. Solo attraverso la complementarietà, infatti, si possono esaltare le individualità e le diversità di ciascun essere. Detto questo dobbiamo ulteriormente distinguere tra “piccola guerra santa” e “grande guerra santa”, suddividendole in due ordini, anch’essi non contrapposti ma complementari. Parleremo di piccola guerra santa quando questa venga condotta attraverso una azione e a livello umano, nell’ambito della sfera dell’immanenza tangibile e manifestata; dunque si tratta di una azione condotta dall’uomo verso il mondo esteriore a se stesso. Parleremo invece di grande guerra santa quando questa venga condotta non con l’azione e il dinamismo verso il mondo esteriore all’essere, bensì attraverso una riflessione introspettiva di confronto e di lotta interiore tra il Se universale e l’io individuale. Si tratta, pertanto, di un processo interamente interiore e spirituale. La differenza sostanziale tra i due tipi di “guerra” è che la prima agisce in una sfera in cui  le parti contrapposte possono essere considerate allo stesso livello, mentre nella seconda le parti in conflitto sono, con tutta evidenza, di livelli la cui differenza è abissale. Nel simbolismo geometrico, infatti, il campo d’azione della piccola guerra santa è rappresentato su un piano orizzontale, mentre quello della grande su un piano verticale. Questa concezione la ritroviamo parimenti sia nella dottrina induista come in quella cristiana e islamica. La battaglia simboleggiata nella Bhagavad-Gita è condotta da Krishna che rappresenta il Se, ovvero la Personalità e l’universale, e da Arjuna che rappresenta l’io, ovvero l’individualità e il particolare. I due stanno sullo stesso carro da guerra, ma mentre Arjuna combatte attivamente, Krishna guida il carro e non partecipa in alcun modo al combattimento e all’azione fisica di battaglia. Un esempio di guerra interiore e della sua drammaticità lo troviamo parimenti nella vita di Gesù all’interno della comunità ebraica. Esso racconta di un conflitto riguardante la scelta di condividere il destino terreno del suo popolo combattendo i propri nemici al suo fianco, ma rinnegando così la sua natura divina, oppure quella di abbandonarlo al suo destino riunificandosi al Dio Padre, operando in questo modo il Ritorno e ristabilendo la sua natura divina. Gesù scelse la seconda ipotesi, passando attraverso un momento sublime di lotta tra sacro e profano, nella consapevolezza della disperazione in cui sarebbe caduto il suo popolo, ma anche dell’orrore e della distruzione che ciò avrebbe comportato: “Con il loglio viene distrutto anche il frumento…”. Ma Gesù, pur nella perfetta consapevolezza delle conseguenze che la sua scelta avrebbe comportato, non si preoccupò minimamente di consolare il suo popolo e di raddolcirne il proprio destino: “Io non sono venuto a portare pace sulla terra, ma per portare la spada; io sono venuto per opporre il figlio al padre, la figlia alla madre, lo sposo alla sposa”. Perciò Egli chiese ai suoi discepoli di seguirlo in questa scelta e li ammonì: “Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me, non è degno di me”. La scelta di Gesù, la sua guerra santa interiore, non lascia dubbi di sorta e ci lancia chiaro il messaggio che nessuno può esimersi dal condurre la propria guerra o di rimandarla, poiché il rimando stesso equivale alla negazione della divinità e del sacro, la cui essenza è insita nella natura umana. Anche nella dottrina islamica è necessario distinguere tra le due tipologie di Jihad. Nel Corano il Profeta Maometto ha definito “Maggiore” il Jihad spirituale e interiore, mentre ha definito “Minore” il Jihad militare. Il Jihad maggiore consiste in uno sforzo teso verso il miglioramento e la crescita individuale “Sulla via di Dio”. Pertanto si parla di lotta interiore e di conflitto verso il proprio io e i suoi limiti e verso le debolezze del peccato. Tornando al concetto di complementarietà di cui abbiamo qui sopra accennato, sorge il problema di come  si possa giungere a considerare complementari due tipologie di guerra così marcatamente diverse e contrapposte, apparentemente inconciliabili tra loro. Rimanendo nell’ambito dell’Islam, ma precisiamo che questo esempio vale per tutto il contesto dell’argomento trattato, la Jihad minore o militare è l’aspetto più violento della guerra santa e l’interpretazione che la storia moderna ha dato di questo concetto è in tutta evidenza strumentale e fuorviante. Parafrasando Max Weber, nell’età del disincanto il fare leva su motivi religiosi per mobilitare le masse è la quintessenza del secolarismo. E’ del tutto evidente che si tratta di una strategia ideologica attuata da una élite di potere avvezza ad ogni astuzia e ben lontana dal principio di ossequio e devozione spirituale. ll jihad minore originariamente consisteva in una guerra esclusivamente difensiva; se per esempio l’Islam o la società musulmana fossero stati minacciati o aggrediti, ogni musulmano aveva il diritto e il dovere di difendere la propria fede, se stesso e la sua comunità, con le stesse armi dell’aggressore. La complementarietà, dunque, consiste nell’intenzionalità; concetto anch’esso già accennato precedentemente. Se consideriamo, infatti, quali siano le regole dettate dal Corano affinché una  Jihad minore possa essere iniziata, il problema assumerà una dimensione ben diversa da come ci appare oggi:

- Deve essere proclamata da un leader religioso;

- Deve essere sempre difensiva;

- Prima di giungere al conflitto va tentata qualsiasi azione conciliativa;

- Gli innocenti non devono essere uccisi

- Donne, bambini e anziani non devono essere feriti o uccisi

- Le donne non devono essere violentate;

- È vietato avvelenare i pozzi d’acqua;

- Non devono essere recati danni alle proprietà dei nemici;

- I prigionieri devono essere trattati con giustizia;

Tenendo presente la definizione di Jihad come “lotta spirituale al fine di vivere nel migliore dei modi la fede islamica” e prendendo in considerazione i punti precedentemente esposti, appare assolutamente evidente quale differenza abissale scorra tra il Jihad minore inteso dal Corano e dalle parole di Maometto e l’azione militare dei tempi moderni. Dunque tutto potrebbe ridursi a un mero problema di interpretazione, ma anche qui il Corano qualcosa di importante lo dice. Nella dottrina islamica il termine “At-Ta’wil” in origine aveva il significato di “Ritorno”, o “Luogo a cui si fa ritorno”, ma è anche sinonimo di esegesi, ovvero è l’interpretazione dei testi finalizzata alla comprensione del senso delle parole. Pertanto il Versetto: “..cercano di darne (del Sacro Corano) la propria interpretazione, ma nessuno tranne Allah la conosce..” ci ammonisce sul fatto che la Parola non sarebbe accessibile a chiunque tranne a Dio (o forse a pochi che sono ispirati da Lui), ma il significato originario del termine “At-Ta’wil” è sicuramente in grado di indicarci la giusta Via da intraprendere.

Sandro Secci

Il Respiro Cosmico

Il “Respiro cosmico” fa musica.

 

la geometria delle forme è musica solidificata

                                                                          Pitagora

 

Possiamo considerare il cosmo come un grande sistema armonico? Come una specie di grande orchestra che esegue perennemente la sua opera? Il suono è in grado di dare origine alla forma? L’astrologia esoterica ritiene di si, e afferma che esiste una corrispondenza fra i pianeti e le note musicali. I sette pianeti (esclusa la terra) Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e Saturno, vengono messi in corrispondenza con le sette note della scala diatonica maggiore secondo lo schema redatto da Rudolf  Stainer (filosofo, esoterista e pedagogista austriaco) : Do – Marte, Re – Mercurio, Mi – Giove, Fa – Venere, Sol – Saturno, La – Sole, Si – Luna. Sappiamo che in numerose religioni la genesi del mondo è frutto della creazione di un Dio che si avvale di luce e suono (vibrazione) un Dio che genera per mezzo della Parola (dal Vangelo di Giovanni “In principio era la Parola. Per mezzo di essa furono fatte tutte le cose” ). La divinità, dunque, per mezzo della Voce (allo stesso modo di una potente vibrazione) ha creato tutti i mondi e tutti gli esseri in sei “giorni” e il settimo “giorno” si è riposata, sette giorni proprio come le sette note musicali. Inoltre, così come a ogni pianeta corrisponde una nota, se ne può assegnare una anche per le 12 costellazioni zodiacali. Ma in che modo questi “accordi celesti” hanno creato e creano l’universo fisico? Le ricerche del musicista e fisico tedesco Ernst Florens Friedrich Chladni, possono aiutarci nella comprensione del fenomeno della vibrazione che sembra essere la matrice generativa del cosmo. Lo studioso dimostrò come il suono abbia capacità plasmanti, facendo vibrare con un archetto di violino delle lastre di vetro cosparse di un sottile strato di polvere (o sabbia), vide che in base alla vibrazione conferita, la polvere si disponeva secondo chiare definite e ripetibili linee di forza che originavano forme, e che a ogni suono-vibrazione- nota, corrispondeva una forma.

http://youtu.be/KurHB_fu_wE

In seguito lo studioso Hans Jenny, sulla base delle teorie di Chladni, perfeziona nella Cimatica la teoria dell’effetto morfogenetico delle onde sonore. Con la Cimatica si ha la prova che la vibrazione – il suono, crea e influenza la materia.

http://youtu.be/r_K-rNjsBQU

Ora, pensiamo alla tradizione esoterica, essa afferma che la struttura dell’universo deve la sua conformazione proprio alla vibrazione, al “Respiro cosmico” della divinità, sostiene che l’universo è regolato dall’armonia e che in esso ogni elemento possiede la propria nota-vibrazione. La fisica contemporanea sembra confermare in pieno queste visioni, pensiamo appunto alla teoria delle stringhe, alla cimatica, agli studi sul DNA. In questa prospettiva le teorie di Pitagora vengono rinsaldate e rese ancora più attuali. Ricordiamo che la musica nell’antica Grecia assumeva valenze curative oltre che contemplative e veniva insegnata insieme alla geometria, all’astronomia e all’aritmetica (le arti del quadrivio) e vi si faceva ricorso per curare le persone al fine di armonizzarne corpo e spirito. Nel VI secolo a.C, Pitagora precisò i rapporti armonici tra le note e con l’ausilio di monocorde (uno strumento composto da una cassa armonica in legno sulla quale era fissata una sola corda) e dimostrava che le note corrispondono a quote della corda e che gli armonici seguono rapporti numerici ben precisi, propri anche dello spazio che ci circonda. Ricordiamo che la nostra scala musicale, deriva proprio dalla scala pitagorica, così come anche la nostra comprensione delle armonie. Nella visione pitagorica, l’intero universo è un incommensurabile monocorde e lo studio della musica come scienza esatta sarebbe in grado di spiegare le relazioni esistenti anche fra i pianeti e le costellazioni. Egli affermava che i movimenti dei pianeti generano musica, una musica che egli chiamava “Musica delle Sfere”. Anche Platone classifica le serie di suoni musicali in corrispondenza con la serie dei corpi celesti e in più, lega ad essi l’equivalenza di un terzo elemento naturale: l’acqua, il fuoco, l’aria.. in modo da creare tante possibili terne di suono-astro-sostanza. Al filosofo indiano Sarngadeva, dobbiamo invece, la prima compiuta teoria dello zodiaco musicale, in essa ogni segno trova un suo corrispondente suono, e l’indicazione che nei nomi stessi degli astri sia velata l’armonia musicale. Sulla stessa linea si muovono le teorie dell’artista filosofo Schneider, nel ritenere che ogni pianeta abbia lo stesso suono del segno zodiacale associato al proprio pianeta:

 

Sole Leone Fa
Luna Cancro Re bemolle
Saturno CapricornoAcquario Mi bemolleSol
Giove SaggittarioPesci Si bemolleSi
Marte ArieteScorpione DoFa diesis
Venere ToroBilancia MiRe
Mercurio GemelliVergine La bemolleLa

 

egli raggruppa le dodici costellazioni sotto i quattro punti cardinali, composte di quattro segni fissi e quattro mobili:

 

Segni cardinali:DO=ArieteRE bemolle=CancroRE=BilanciaMI bemolle=Capricorno Segni fissi:MI=Toro
FA=Leone
FA diesis=ScorpioneSOL=Acquario
Segni mobili:LA bemolle=GemelliLA=VergineSI bemolle=SaggittarioSI=Pesci

 

Questi concetti sono stati ripresi anche da studiosi contemporanei, i quali affermano che nel nostro sistema solare ogni pianeta esegue una nota. Si tratta di frequenze molto basse e sebbene il nostro udito non riesca a percepirle, i pianeti del sistema solare eseguono una melodia che rievoca una delle progressioni armoniche più semplici e diffuse nella musica: tonica, sottodominante, dominante, tonica.

Pianeta Nota Intonazione Accordatura Ottava
Mercurio Do diesis Crescente +33 cent ottava -29
Venere La Crescente +10 cent ottava -29
Terra Do diesis Calante -31 cent ottava -30
Marte Re Calante -25 cent ottava -31
Giove Fa diesis Calante -13 cent ottava -34
Saturno Re Crescente +12 cent ottava -35
Urano Sol diesis Calante +1 cent ottava -37
Nettuno Sol diesis Crescente +32 cent ottava -38
Plutone Do diesis Crescente +26 cent ottava -38

 

L’armonia planetaria si fonda su precise leggi fisiche che rilevano che ad ogni corpo, con un oscillazione periodica regolare, è conforme una frequenza (in oscillazioni al secondo) e quindi una precisa nota musicale. Però per riprodurre le frequenze di oscillazione dei pianeti e arrivare a frequenze udibili dovremmo avere una super-gigante tastiera di 12 ottave e dovremmo più o meno triplicare l’estensione di questa tastiera e infine accostare ad essa un pianoforte a coda reale.

Se consideriamo la musica (la vibrazione) connaturale al cosmo intero, non possiamo non osservare che l’essere umano è sia ‘creato’ dal suono, e a sua volta è creatore di vibrazioni.  Ma in quale misura l’essere umano viene influenzato da queste vibrazioni? Alcuni studiosi contemporanei di biofisica esaminano come la musica agisce sul DNA. David Deamer è stato il primo a tradurre il DNA in musica, trasferendo le sequenze delle quattro unità chimiche che ne formano la molecola. Questo suono è stato ribattezzato “Il suono della vita”. Successivamente gli studi di Susumu Ohno e Marty Jabara, rivelano che le incredibili partiture vibrazionali del DNA sono fortemente somiglianti alle partiture di musicisti come Chopin o Bach. La più recente ricerca scientifica russa afferma che il DNA può essere influenzato e riprogrammato dalle parole e dalle frequenza senza sezionare e rimpiazzare geni individuali. I maestri esoterici e spirituali sanno da millenni che il nostro corpo si può programmare con il linguaggio con le parole e con il pensiero. Oggi però abbiamo le prove scientifiche di quelle intuizioni millenarie. La musica sembra davvero essere il sigillo dell’universo. Un universo tutto fatto di vibrazioni, dentro e fuori di noi. Alla luce di questi studi, l’indiscusso pregio della musica si rivela essere molto più strutturale che impalpabile nella sua capacità d’influenzare l’animo umano, di commuoverlo, di creare energia, di unire spiritualmente più persone in un rito d’ascolto, nelle sue doti terapeutiche capaci di donare benefici al corpo, all’intelletto e all’anima. L’essere umano vibra.. e in una sinfonia di suoni ritrova la sua stessa origine.

Simone Onnis

L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA – Stefano Arcella

L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA

di Stefano Arcella (da Studi Evoliani 2010) www.fondazionejuliusevola.it

 

1. I precedenti della ricerca.

La mia attenzione al rapporto fra il pensiero di G. B. Vico e quella di J. Evola è andata maturando gradualmente negli anni, prima in occasione della mia Introduzione alle “Lettere di J.Evola a B. Croce”, poi nella relazione su “Lo Stato Organico nel pensiero di J. Evola”, infine nel contributo apparso in Appendice all’ultima edizione di Maschera e Voltodello spiritualismo contemporaneo. In questi interventi, il mio interesse si è concentrato sui motivi del passaggio di Evola dalla fase filosofica a quella che si può definire ”esoterico-tradizionale” e quindi sull’analisi di alcuni brani dei Saggi sull’Idealismo Magico e di Teoria dell’Individuo Assoluto concernenti il richiamo di J. Evola alla tesi vichiana del “Verum ipsum factum” e la lettura che il filosofo romano elabora di questo assunto filosofico. Il pensiero di Evola, si configura – ed è un tema sul quale tornerò più avanti – come una filosofia della prassi, intesa come azione interiore. Peraltro, questo aspetto del pensiero evoliano non è il solo che susciti un interesse sotto il profilo dei rapporti col pensiero del filosofo napoletano. Vi sono altri profili, quali la concezione ciclica della storia, i richiami molteplici alle “età vichiane”, la scelta del “metodo tradizionale” come approccio in profondità per la comprensione della storia, privilegiando l’attenzione al mito e al simbolo quali espressioni più autentiche dell”’anima” di una civiltà; sono tutti aspetti che completano il quadro dei possibili rapporti fra i due filosofi e che costituiscono, nell’insieme, altrettanti motivi di riflessione. Prima di entrare nel merito di questi aspetti, verificando se e fino a che punto vi siano influenze di Vico su Evola, è opportuno svolgere una ricognizione preliminare sulle citazioni di Vico nei testi del filosofo romano, analizzando il contesto tematico in cui tali citazioni sono state fatte.

2. Le citazioni di Vico nelle opere di Evola.

La prima citazione di Vico che si incontra è contenuta nei Saggi sull’Idealismo Magico (1925), laddove il pensatore romano si richiama alla tesi vichiana “Verum et factum convertuntur” con la quali Vico confuta il razionalismo cartesiano. Si tratta, a mio avviso, di un passo fondamentale per cogliere la peculiarità del pensiero evoliano come filosofia della prassi che sfocia in un vero e proprio superamento, apertamente asserito, della fase speculativa, benché – come ha giustamente notato Piero Di Vona – il profilo filosofico in Evola non si è mai esaurito, perché egli conservò sempre e tenne viva una statura filosofica. Quanto all’opera principale, Rivolta contro il mondo moderno, nell’Appendice dell’ultima edizione Roberto Melchionda, in un suo contributo intitolato Le tre edizioni di Rivolta, osserva che “la seconda edizione si accompagnò ad un discreto intervento sull’apparato con non molti apporti nuovi (solo ora compaiono Vico e il De Maistre de Les soirées du St.Petersboug et Du Pape) e con alcuni sfrondamenti e depennamenti (sparisce Dumézil)”. La prima edizione di Rivolta non conteneva citazioni di Vico e ciò mi sembra significativo; il filosofo romano scriveva sotto la spinta di un impulso intuitivo che solo in una fase successiva – di maggiore sistematizzazione – si arricchiva del supporto di più accurate citazioni bibliografiche. In Rivolta sono tre le citazioni di Vico. La prima, nel capitolo sulla Virilità spirituale, in ordine alla distinzione fra vir e homo e sul senso proprio di viro “Già G. B. Vico – scrive Evola citando La Scienza Nuova del 1725 (III,41) – aveva rilevato come questo termine implicasse una speciale degnità, designando non pure l’uomo di fronte alla donna nelle unioni patrizie e i nobili ma anche magistrati (duumviri, decemviri), sacerdoti (quindecemviri, vi gintiviri) , giudici (centumviri) «talché con questa voce vir si spiegava sapienza, sacerdozio e regno, che si è sopra dimostrato essere stata una stessa cosa nella persona dei primi padri nello stato delle famiglie». Ancora, nel capitolo “Sul carattere primordiale del patriziato, Evola cita Vico e specificamente le articolazioni di ciò che Vico chiamò ‘diritto naturale delle genti eroiche”‘. Nel caso specifico manca una citazione specifica in nota. Il riferimento vi chi ano si colloca subito dopo il riferimento al pater familias, alla sua sacralità ed allo ius vitae neclsque . Infine, nel capitolo Vita e morte delle civiltà, l’Autore osserva, riguardo al tema della decadenza, che “il mos delle vichiane età eroiche mai ha avuto a che fare con limitazioni moralistiche”. Egli sostiene che la causa della decadenza non va vista nella corruzione dei costumi che, semmai, è un effetto, non la causa vera. Orbene, queste citazioni hanno un elemento in comune: esse si situano nella prima parte di Rivolta, dedicata alle categorie spirituali del Mondo della Tradizione intese come categorie “a priori” di valore normativo e metastorico. Il metodo vichiano della ricerca etimologica per risalire alla Sapienza degli antichi Italici – teorizzato dal filosofo napoletano nel De Antiquissima Italorum Sapientia, ancor prima che nella Scienza Nuova - influenza il pensiero evoliano nel momento in cui deve identificare le peculiarità del “Mondo della Tradizione” e illuminarne i significati profondi. Quando Evola deve spiegare il senso profondo di certi vocaboli latini e coglierne l’origine, avverte l’esigenza di richiamarsi a Vico. Altre citazioni di Vico compaiono in Metafisica del Sesso  riguardo al concetto di pudore ed al senso del pudore presso gli uomini della vichiana “età degli dèi, ne L’arco e la clava (in tema di nazionalismo, allorché cita la vichiana “boria delle nazioni”) e soprattutto nella Introduzione al Tramonto dell’Occidente di O. Spengler, in tema di concezione ciclica della storia, con riferimento alle età vichiane ed ai corsi e ricorsi storici. Infine, un fugace cenno a Vico compare in un articolo per la rivista Rassegna Italiana del 1952 che concerne la rivoluzione conservatrice come “rivoluzione mancata” ove parla di “ritorno delle stesse forme” come caratteristica della dinamica storica e cita Vico e Spengler. Nei testi della fase ultima – quali Ricognizionil e Ultimi scritti, che sono raccolte di articoli giornalistici – compaiono due citazioni di Vico, rispettivamente in un articolo su “Prospettive della cultura di destra” e su ”La cultura di destra” a proposito della lettura regressiva della storia che, secondo Evola, “al massimo”, può desumersi dalla lettura di Vico. E’ interessante notare – ed il dato non appare casuale – che in tutti questi articoli, nessuno sia dedicato specificamente a Vico nel suo titolo, mentre compaiono molti altri articoli dedicati, nella loro intitolazione, a filosofi e scrittori sia antichi che moderni. Un esame attento e reiterato di tutta la bibliografia evoliana consente di affermare che, nonostante la copiosa produzione giornalistica, nessun articolo, né alcun saggio – fra i tanti che pure pubblicò su molteplici riviste – è dedicato specificamente al pensiero di Vico. L’impressione complessiva è che Vico, pur essendo ben presente nell’orizzonte culturale di Evola, in rapporto a temi significativi e centrali, sia rimasto, per cosÌ dire, “dietro le quinte” della produzione evoliana, a titolo di conoscenza specialistica, citato in alcuni testi per alcuni particolari riferimenti. Tale impressione è confermata dalla mancata citazione di Vico nella prefazione di Rivolta – in tutte e tre le edizioni -laddove illustra il senso e la funzione di quello che chiama “il metodo tradizionale”, riguardo al quale pure ebbe a citare, in varie sedi, il Bachofen e il Fustel de Coulanges. Al filosofo romano pure non poteva sfuggire la rivalutazione del mito come “vero narrativo” che è nella Scienza Nuova da lui citata in rapporto ad alcune etimologie. Peraltro, la pubblicistica su Evola non ha trascurato .di riferirsi in varie occasioni, all’importanza di Vico almeno quale antecedente e precursore - sotto alcuni specifici aspetti – del pensiero evoliano, dalla recensione di Piero Operti a Gli Uomini e le Rovine19 ai contributi di Piero di Vona e di Thomas Hakl che cita proprio Vico quale antecedente, insieme a Bachofen e a Fustel de Coulanges, del metodo tradizionale evoliano. Completato questo sintetico excursus bibliografico che è utile per avere una visione di insieme dello spazio e della collocazione di Vico nella produzione evoliana, occorre ora esaminare se e quali possano essere i punti di contatto fra i due pensatori.

3. Verum ipsum jactum.

Il De-Antiquissima Italorum Sapientia è dedicato a Matteo Doria, riferimento significativo poiché si tratta di un matematico e filosofo genovese trasferitosi a Napoli, che era attestato su una decisa posizione filosofica neo-platonica ed anti-cartesiana e che si riproponeva di ricostruire e riaffermare la matematica platonica e quindi, in definitiva, si collegava alla matematica pitagorica. Napoli, sin dall’epoca della dinastia aragonese, era un centro della tradizione filosofica ed esoterica neoplatonica. L’Accademia Pontaniana è – forse insieme a quella di Rimini – la piu’ antica Accademia Neoplatonica dell’Italia; essa fu una prosecuzione e una trasformazione dell’Accademia Aragonese. Il legame di Vico con il neoplatonismo rinascimentale è stato approfondito ed evidenziato da Giovanni Gentile, in un suo saggio sul filosofo napoletano. Nella sua opera, Vico attraverso l’originale metodo dell’analisi etimologica e l’individuazione delle voci “dotte” risale ad un antico sapere filosofico degli Italici e cita espressamente gli Ioni e gli Etruschi, valorizzando i primi per la loro sapienza matematica e geometrica, i secondi per la loro scienza rituale e la loro conoscenza dell’architettura, scienze entrambe trasmesse poi ai Romani. Già questo approccio è dirompente rispetto ad una concezione progressi sta della storia, poiché colloca in un lontano passato l’origine di una Sapienza dimenticata e che poi si riscopre attraverso il ricorso all’etimologia, coniugando filologia e filosofia .. Con tale metodo, Vico ritiene di identificare il fulcro di queste antichissime concezioni filosofiche, ossia che Verum et factum convertuntur, il vero e il fatto si convertono reciprocamente, nel senso che io posso conoscere solo ciò che ho fatto, il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto, per cui il campo di conoscenza dell’uomo concerne la matematica e la storia. La prima, perché possiamo dire di conoscere le proposizioni matematiche in quanto siamo noi a farle tramite postulati, definizioni; la seconda – la storia – possiamo dire di conoscerla perché essa è il frutto dell’azione dell’uomo. Noi non potremo dire – secondo Vico – di conoscere la natura perché non siamo noi uomini ad averla creata; essa esula dalle nostre possibilità creative. In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente delle Scuole, si convertono (Latinis ve rum et factum reciprocantur, seu, ut Scholarum vulgus loquitur, convertuntur). Intelligere è lo stesso che leggere perfettamente, conoscere apertamente. Si diceva cogitare nel senso in cui noi in volgare diciamo: “pensare” e ”andar raccogliendo”. Ratio significava il calcolo aritmetico, e la dote propria dell’uomo, per cui si differenzia dagli animali bruti e li supera; descrivevano comunemente l’uomo come un animale “partecipe di ragione”, non padrone completo di essa. D’altronde, come le parole sono simboli e note delle idee, così le idee sono simboli e note delle cose. Dunque, come legere è l’atto di chi raccoglie gli elementi della scrittura da cui si compongono le parole, così intelligere è il raccogliere tutti gli elementi della cosa atti ad esprimere un’idea perfettissima. Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero circa la verità, nelle seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto …… . Per illustrare tutto questo con una similitudine: il vero divino è una solida immagine delle cose, una specie di plastico; quello umano è un monogramma, un’immagine piana, una specie di dipinto. Pertanto mentre il vero divino è quello che Dio dispone e genera nel momento stesso in cui lo conosce, il vero umano è quello che l’uomo compone e fa nel momento stesso in cui lo apprende. E così la scienza è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa; per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa. Solida per Dio, che comprende tutto; piana per l’uomo, che comprende gli elementi estrinseci” (G.B. Vico. De Ant. , Cap.I, L).  In questa prospettiva, Vico anticipa l’idealismo del secolo successivo come ebbe a notare giustamente Giovanni Gentile. ‘ ”Non importa – scrive Gentile – peraltro qui vedere quali scienze Vico conceda alla mente umana; importa invece il carattere che egli attribuisce alla scienza, questo carattere costruttivo della realtà che ne è l’oggetto. Concetto che evidentemente nega la preesistenza dell’oggetto alla mente che lo conosce, e conferisce a questa un’ attività creatrice di quel mondo che essa è in grado di conoscere; sicché la certezza del fatto viene a coincidere con questa intimità della mente al mondo di cui è artefice. E’ la certezza del poeta che è il creatore dei suoi fantasmi, come Dio crea gli uomini vivi; ed è perciò dentro di essi, e ne conosce tutti i segreti. La verità è sì pensiero (evidenza delle idee alla mente) come voleva Cartesio; ma il pensiero non è spettatore di quel che si rappresenta, bensì produttore. Il fatto di cui perciò siamo certi non è quello di cui siamo testimoni; ma quello invece di cui noi siamo gli attori (costruendolo o ricostruendolo ). Orbene, Evola riprende questa tesi vichiana e la estende al campo dell’azione interiore, spirituale. L’uomo può conoscere non solo la storia in senso profano – leggi, costumi, usi civili, organizzazione economica _ ma può conoscere la realizzazione magica, può conoscere l’esperienza del rito e dell’azione sacrale guerriera, nonché le discipline della meditazione, della concentrazione, della contemplazione ma anche perché è egli stesso a farle, ossia a praticarle, a realizzarle con un atto della sua volontà e come contenuto della sua esperienza  ”Si è già visto – scrive il pensatore romano – come uno dei princìpi fondamentali che l’idealismo magico, con riferimento alle conquiste della moderna gnoseologia afferma, è che in tanto la conoscenza può essere intesa come capace di fornire un sistema di assoluta certezza, in quanto si va a concepire il pensiero non più come modellantesi sulle cose, bensì come modellante esso stesso le cose, cioè non più come un passivo riprodurre, bensì come una funzione generante, con sua energia, l’oggetto del conoscere nello stesso punto che la conoscenza di esso. Tale teoria fu intravista sin dal Vico, che la fissò nella nota formula: “verum et factum convertuntur” – cioè il vero, l’incondizionatamente certo – si mutua col fatto, ossia con ciò che viene prodotto consapevolmente da un’attività dell’Io: non vi è sapere assoluto, che là dove la scienza trae da se stessa il proprio soggetto … Concezione, questa, che nel Vico fu probabilmente provocata dall’osservazione delle matematiche, nelle quali il carattere di apoditticità e di universale validità si connette appunto al fatto che esse procedono essenzialmente per costruzione, secondo una libera posizione e una legislazione a priori. Senonché il Vico, in quanto si tenne ad un concetto concreto sì, ma unilaterale delle possibilità umane, si trovò costretto dal suesposto criterio a restringere la conoscenza assolutamente certa per l’uomo al dominio alquanto misero della matematica e della storia, sembrandogli questi i soli campi in cui l’Io potesse dirsi effettivamente creatore, laddove, circa la natura, affermò poter venire essa conosciuta secondo sapere assoluto solo da Dio. Evola non si ferma alla posizione del Vico e, richiamandosi al pensiero di Fichte, di Schelling e di Hegel, esprime una esigenza di estensione del dominio del “fatto” all’intero ambito dell’esperienza umana. ”Un sapere – egli scrive – se è parziale, non può avere il carattere di assoluto sapere e spezzare a metà il dominio della certezza implica in verità rovinare ogni certezza, in quanto assoluta certezza’. E poi, più avanti asserisce: “L’esigenza della filosofia di là da Vico è dunque legittima: se, in generale, vi deve essere una certezza assoluta, nulla deve essere per l’Io, che l’Io non abbia posto. Il filosofo critica poi l’astrattezza dell’Io trascendentale della filosofia idealistica e compie l’apertura alle dottrine sapienziali dell’Oriente e dell’Occidente. ”La veduta degli Orientali, che poi riecheggia nella mistica di ogni luogo, è invece che il processo conoscitivo è condizionato dal processo di effettiva trasmutazione e di potenziamento dell’Io concreto, che l’assoluto conoscere è un flatus vocis quando non rappresenti come il fiore o la luce sgorgante da colui che, con la sua potenza, si è compiuto nell’assoluta autorealizzazione del Rishi vedico, dell’Ahrat buddhistico, del Phap taoistico. Infine conclude che solo nell’Individuo assoluto “solo nell’atto interamente sufficiente il mondo diviene certo e, in ciò, è reale,,30. La filosofia di Evola si configura quindi come una filosofia della prassi, ove questo termine si estende al campo dell’azione interiore, volta a riscoprire e a modificare se stessi fino all’apice dell’unione col divino, sul modello e secondo le finalità degli antichi Misteri. Tale elaborazione del retaggio vichiano spiega perché il filosofo romano, in apertura dei saggi, ponga quella citazione di Lagneau secondo cui la filosofia è la riflessione che perviene alla coscienza della propria insufficienza – che come tale va superata – ed alla necessità di una azione assoluta che parta dall’interiorità. Se infatti noi conosciamo solo ciò che facciamo, ciò che è il frutto delle nostre azioni, che apprendiamo nel momento stesso in cui lo facciamo e viceversa, una filosofia intesa come pensiero astratto, scisso dal nostro fare, non ci offre alcuna effettiva possibilità di conoscenza. In questa premessa vichiana sviluppata dal filosofo romano, cogliamo la tendenza al superamento della fase esclusivamente speculativa per andare verso una fase operativa, realizzati va che avrà poi nella esperienza del gruppo di UR la sua espressione più significativa. Il rapporto fra i due pensatori non è, però, riduci bile, a questo aspetto, pur rilevante. E’ un rapporto più ampio e complesso che investe l’aspetto metodologico evoliano. Occorre chiedersi infatti quali siano le radici di questo metodo, se e fino a che punto il pensiero vichiano abbia influito su quello di Evola, o almeno sia un antecedente in termini di filosofia del metodo, di quello evoliano. In altri termini, possiamo considerare Vico quale precursore del metodo tradizionale? La risposta a questa domanda postula una analisi accurata di alcuni aspetti salienti del pensiero vichiano confrontati con l’elaborazione metodologica evoliana.

4. Vico precursore del metodo tradizionale?

Nella prefazione a Rivolta, Evola privilegia l’attenzione al mito e al simbolo per comprendere in profondità l’anima di una civiltà e delle civiltà, nel loro contenuto universale e metastorico. Un mito sull’imperatore Federico II dice – in questa prospettiva molto più di quanto dica la storia delle battaglie, delle guerre, dei re e delle corti; esso ci parla dell’anima della civiltà medievale, della sensibilità e della visione del mondo propria all’uomo del Medio Evo. Un mito dell’antica Grecia ci dice della sensibilità e della capacità immaginativa dei Greci, della loro anima, molto più di quanto ci dicano le lotte fra poleis greche. Peraltro il mito e il simbolo – di là dalla varietà delle forme specifiche in cui possono esprimersi e che sono legate alla varietà delle varie culture - risalgono ad un significato universale e metastorico, dimensione che unifica e accomuna le varie civiltà tradizionali, di là dalle differenze di tempo e di spazio. Nell’approfondire il rapporto Vico-Evola sotto l’aspetto della centralità del mito, mi richiamo ad un saggio di Gianfranco Cantelli ed anche al recentissimo libro di Stefano De Rosa su Vico precursore della nuova storia, dove si analizza il rapporto fra il pensatore napoletano e la scuola delle Annales e la cosiddetta Teoria delle catastrofi. Questi interventi riguardano un fondamentale aspetto del pensiero e dell’opera del filosofo napoletano: il mito come particolare tipo di linguaggio, al quale egli attribuisce un carattere di originalità, anzi di unicità. Il punto di vista ordinario, normalmente condiviso vuole che “il linguaggio dei miti, per costituirsi, trasmettersi e svilupparsi abbia come proprio fondamento quello che per noi è il vero linguaggio, cioé il linguaggio articolato” partendo dal presupposto secondo cui “il mito, quale oggi lo conosciamo, sia sempre espresso, sotto forma di racconto, da un discorso che si serve delle stesse parole, della stessa grammatica e della stessa sintassi che si usano per dire qualsiasi altra cosa riguardante l’esperienza umana. Da questo punto di vista il linguaggio dei miti non può quindi essere altro che un linguaggio di secondo livello”. La distinzione fra il significato logico-discorsivo delle parole con le quali viene narrata la storia del mito ed il senso allegorico di ciò cui il mito rinvia, secondo un diverso codice di lettura della realtà, consente a Vico di assumere una posizione del tutto diversa: egli sostiene che il linguaggio dei miti è un linguaggio originario, quindi anteriore al linguaggio articolato; quest’ultimo non avrebbe potuto formarsi senza il linguaggio mitico. ”Il mito – scrive Cantelli interpretando il pensatore partenopeo – è il primo linguaggio che “naturalmente ha parlato l’umanità. Ciò vuoI dire che “la storia procede per miti, e che le sue forze sono mitiche. Anche altri studiosi hanno posto in rilievo che, per Vico, l’invenzione del linguaggio è anteriore allo sviluppo della ragione e che quindi esso, in origine, era un mezzo per comunicare emozioni; i primi uomini espressero le loro idee come poesia. Vico enuncia questa teoria nella Sezione della Scienza Nuova dedicata alla metafisica poetica: “Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita e immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie. L’essere ricorso all’immaginazione poetica per spiegare come i pnll1l uomini abbiano esercitato in modo creativo la loro immaginazione ancor prima di aver inventato il linguaggio parlato, ha consentito a Edmund Leanch di accostare Vico e Lévi-Strauss; quest’ultimo, nel suo strutturalismo, condivide il medesimo punto di vista sull’anteriorità dell’immaginazione poetica rispetto non solo alla ragione ma al linguaggio parlato di tipo logico-discorsivo. E’ interessante notare come Vico parli di una metafisica non ragionata ed astratta, ma “sentita e immaginata”; egli non si limita a dire che essa fu immaginata, ma aggiunge che fu “sentita”, ossia corrispondeva ad un modo di percepire il mondo. Questo brano suscita il confronto con le prime pagine di Rivolta, laddove Evola parla della capacità conoscitiva - propria all’uomo delle civiltà tradizionali – di un diverso ordine di realtà sconosciuto all’uomo moderno. Il filosofo della Tradizione si spinge oltre Vico, parla di capacità percettiva e conoscitiva, mentre Vico parla di un sentire e di un immaginare, ma sempre nel quadro di un processo in cui questa esperienza del mondo è la prima fase, l’infanzia, di uno sviluppo, di una crescita che non è irreversibile e unidirezionale perché può avere anche interruzioni regressive, ma fondamentalmente, nelle grandi linee, si tratta pur sempre di un processo di crescita. E’ stato evidenziato che Vico, oltre a porre in risalto la capacità immaginativa dell’uomo allo stato di natura, arriva a presupporre uno stadio iniziale in cui gli uomini “naturali” vivevano in una condizione di pace beata. “Ma in quei tempi tutti orgoglio e fierezza per la fresca origine della libertà bestiale …. nella somma semplicità e rozzezza di cotal vita, ch’eran contenti de’ frutti spontanei della natura, dell’acqua delle fontane e di dormire nelle grotte; nella naturale egualità dello stato, nel quale tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto intendere né froda, né forza, colla quale uno potesse assoggettir tutti gli altri ad una civil monarchia [. ... ] . Qui è evidente l’eco del mito dell’età dell’oro presente in Esiodo e nel mito latino di Saturno, dio dell’aurea aetas, sebbene non su un piano di conoscenza spirituale ma di “rozza semplicità”, che sembra echeggiare una idealizzazione arcadica tipica del gusto e della cultura del ’700. In questo stato naturale, i primi uomini, ancor prima di aver inventato il linguaggio parlato, esercitano in modo creativo, secondo Vico, la loro immaginazione che egli chiama “immaginazione poetica”. ”E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutte robuste forze di corpo che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo essere un gran corpo animato, che per tale aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette “maggiori” che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa; e incominciarono a celebrare la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza. Noi vediamo il cielo e lo definiamo cielo e diamo per scontato che si sia sempre proceduto così. Ma i primi uomini crearono prima Giove quale ”sostanza animata” e poi definirono il tuono, il lampo e il cielo come manifestazioni di Giove. Ecco il punto in cui Vico capovolge la prospettiva razionali sta e dà risalto ai momenti prelogici dello spirito, con ciò anticipando certi temi del Romanticismo, come il Gentile ebbe giustamente ad osservare circa il carattere “preromantico” del pensatore napoletano. Al riguardo, Evola ebbe a dire, nel saggio sui Misteri di Mithra del 1926, che l’uomo delle civiltà tradizionali non divinizzò i fenomeni naturali in quanto tali ma li percepì come manifestazioni sensibili del sovrasensibile, la natura venendo sentita e vissuta come un grande linguaggio simbolico vivente, animato. In questa lettura evoliana del modo di percepire e vivere la natura si può cogliere l’eco e l’influenza del pensiero di Vico, tanto più che questi non si limitò certo all’esempio di Giove, ma ne fece molti altri (fra i quali Achille, Ercole) visti come modelli tipologici, quelli che lui chiama gli ”universali fantastici”. Resta, comunque, un problema: lo scarto fra il senso letterale dei linguaggi articolati – il nostro linguaggio logico-discorsivo – e il significato di immagini e di simboli che le parole tentano di definire. Vico offre una sua spiegazione di questo scarto. Il linguaggio che noi usiamo e nel quale il mito viene enunciato sotto forma di un racconto si è articolato, costituito e definito all’interno di una esperienza del mondo profondamente lontana dalla esperienza umana che si è formata ed espressa sulla base del mito. Per il pensatore napoletano, i miti sono i resti pervenuti da un mondo umano remoto, che testimoniano di un modo di vivere e di percepire il mondo che non ha più nel nostro linguaggio un adeguato strumento espressivo. Tra mito e linguaggio non c’è, pertanto, solo un divario ma una vera opposizione per cui il senso dei miti non solo è comunicato in modo inadeguato ma viene sistematicamente travisato dalle parole di un linguaggio logico-discorsivo che riflette tutt’altra esperienza del mondo. Eppure, il paradosso è che non abbiamo altro codice espressivo per poter dire il mito. Pertanto, fra l’universo di significati cui rimanda il mito e quello cui fa riferimento il nostro linguaggio, non c’è alcun punto in comune se non quello, paradossale, per cui il secondo si presenta quale l’unico strumento mediante cui il mito può essere trasmesso e comunicato. L’unico pensatore moderno che abbia reinventato un linguaggio miti cosimbolico per dire il mito e farlo parlare all’uomo moderno è il Nietsche di Così parlò Zarathustra, dove l’uso della metafora è frequente, quale frutto di una facoltà creativa che rivive e ripropone il mondo mitico dell’uomo antico. Il nostro linguaggio ordinario esprime un pensiero che nella riflessione e nella concettualizzazione ha già posto le basi per giudicare i contenuti dell’esperienza. Il linguaggio mitico, nelle sue immagini, figure e simboli, esprime un diverso stile di pensiero dominato – secondo Vico - dalla fantasia e dalla immaginazione dove i princìpi e le regole che definiscono il credibile e il verosimile sono abbandonati. Nel pensiero vichiano il linguaggio dei miti è, dunque, un linguaggio autentico e originario, perché originaria è l’esperienza del mondo cui quel linguaggio rinvia. Per Vico la conoscenza e la comprensione dei miti è, dunque, fondamentale, per comprendere la cultura e la storia dei popoli più antichi. In questo senso e sotto questo aspetto, Vico è un precursore del metodo tradizionale di Evola, anche se va subito notata una differenza di fondo fra i due pensatori; per il primo, la visione animata del mondo propria ai primi uomini è il frutto di una immaginazione creativa, il che sottintende che, in fondo, quella esperienza, non è conforme alla realtà ma è reale solo nel senso che quel tipo d’uomo, nella sua “semplicità e rozzezza” percepisce la realtà in quel modo. La visione animata della realtà propria all’ uomo della Tradizione di cui parla Evola è la conoscenza di un ordine di esperienze che è reale in un senso più profondo e che quindi per l’autore di Rivolta ha un valore oggettivo. E’ comunque da Vico che parte il processo speculativo che conduce a riscoprire e rivalutare il mito ed il simbolo nella loro dignità di linguaggio originario. Il pensiero del filosofo napoletano è, a sua volta, figlio di tutto un filone speculativo che risale al neoplatonismo rinascimentale e, in definitiva, a Platone, alla rilevanza che i miti hanno nella sua opera, echi, a loro volta, di antiche tradizioni di tipo misterico. Nell’Accademia Platonica di Firenze – fondata per volontà di Lorenzo il Magnifico – si curava particolarmente lo studio dei miti greci, com’è testimoniato dal Commento al Convito di Platone scritto da Marsilio Ficino. Peraltro, come Evola mette in rilievo che Vico anticipa, per certi aspetti, l’idealismo dell’800, cosÌ Giuseppe Rensi, nella sua introduzione all’opera di Ficino, osserva che questi, in certi passaggi del suo libro ”Sull’Amore” – scritto nell’italiano del ’400 – anticipa il pensiero idealista. E giustamente Giovanni Gentile, in un suo saggio su Vico, pone in rilievo questo legame fra l’autore della Scienza Nuova e i neoplatonici rinascimentali.

5. “Universali fantastici” ed archetipi.

Altro aspetto degno di rilievo e che merita attenta riflessione è la funzione di precursore che Vico ha svolto rispetto alla psicologia del profondo del Novecento, in particolare rispetto agli archetipi di cui parla Jung e che in Vico sono qualificati come “universali fantastici”. Secondo lo psicologo e filosofo americano James Hilmann, Vico può essere considerato un precursore della psicologia archetipica soprattutto per la sua elaborazione del pensiero metaforico. Hilmann coglie alcuni punti di contatto nell’uso vichiano degli archetipi animus ed anima e nell’asserire, come poi sosterrà Jung, l’origine autoctona dei miti i quali - secondo il filosofo napoletano – nascono in modo indipendente, senza un’unica fonte di diffusione fra popoli fra loro sconosciuti e quindi non riferibile a fenomeni migratori. Tale affinità si coglie inoltre nella tesi vichiana secondo cui determinati concetti come quelli espressi nel senso comune, nelle massime, nella saggezza popolare fanno parte di un immaginario di universali mentali ”una lingua mentale comune a tutte le nazioni. ”Per Vico – scrive James – questo tipo di pensiero era primario, come è primario per Jung il pensiero fantastico. Pertanto, la relazione fra i “caratteri poetici” di Vico e il concetto junghiano di archetipo sarebbe strettissima. Questa funzione di anticipazione della psicologia archetipica moderna e contemporanea viene colta da James anche in Plotino e in Ficino. Riguardo a quest’ultimo, si può ricordare che egli, nel suo libro “Sopra lo Amore” (ossia il Commento al Convito di Platone) evoca l’archetipo del dio Amore, come “il più antico di tutti gli dèi” e che la sua lettura del Convito solo in apparenza rispecchia il pensiero platonico, in realtà ricevendo anche, sotto vari aspetti, gli influssi del pensiero di Plotino. Tale comparazione ha un suo interesse ai fini del presente contributo, poiché è noto che Jung lesse e citò La Tradizione Ermetica di Evola, proprio nel quadro del suo approfondimento degli archetipi e dell’inconscio collettivo. Questa comparazione fra Vico e Jung sul tema degli archetipi – e quindi sui contenuti perenni di quella che Evola definisce come la “Tradizione universale” – ci avvicina ad un argomento importante, concernente il significato stesso del concetto di Tradizione nel pensiero di Evola e i suoi eventuali rapporti col pensiero di Vico.

6. Provvidenza vichiana e Tradizione evoliana. 

La dottrina di Vico esclude che la “storia ideale eterna” sia trascendente rispetto alla storia temporale, nel senso di essere esterna ad essa e capace di orientarla dal di fuori. Al tempo stesso, il pensiero di Vico esclude che la storia ideale eterna sia immanente nella storia umana e che l’ordine delle vicende umane sia in ogni caso garantito da quella. Se fosse così, il corso delle vicende umane dovrebbe necessariamente conformarsi alla successione ideale delle età, escludendo ogni libero arbitrio dell’uomo, quindi negando la sua libertà: in tal caso la provvidenza sarebbe l’unico vero protagonista. La Provvidenza di Vico non è né trascendente né immanente. Essa è equidistante sia dalla concezione crociana che la voleva priva di riferimenti alla trascendenza, sia dalla lettura anti-immanentista tipica dei filosofi cristiani della storia. Il filosofo Nicola Abbagnano legge la provvidenza vichiana come “una norma ideale cui il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente. In altre parole, la provvidenza vi chiana è un disegno che è, al tempo stesso, un’onnipresente sollecitazione o dover-essere profondo che spinge l’uomo ad agire in vista di valori ideali eterni. Se la provvidenza è un “dover-essere o sollecitazione profonda” vuoI dire che essa ha un valore normativo; se l’uomo, sollecitato dalla provvidenza, agisce per fini ideali eterni, vuoI dire che essa ha un carattere di “apriori”, ossia ha una validità intrinseca, a prescindere dall’esperienza umana. Orbene, nella prefazione di Rivolta e in vari capitoli della prima parte dell’opera, Evola considera la Tradizione come un valore normativo ed il mondo della Tradizione come un insieme di categorie a-priori. Le civiltà tradizionali sono una approssimazione, più o meno imperfetta, al modello dei valori tradizionali, metastorici e universali. Questa Tradizione universale si esprime in una pluralità di forme diverse secondo le differenze di tempo, luogo, etnia, condizione geografica. La Tradizione è dunque per Evola una “Trascendenza immanente”: ossia essa si cala e si esprime nella storia umana ma senza mai esaurirsi nella storia, che è sempre un’approssimazione. La storia dell’ uomo può avvicinarsi o discostarsi dalla Tradizione, perché al centro della storia c’è l’uomo con la sua azione. Evola, infatti, critica la concezione della storia con la s maiuscola tipica dello storicismo e contesta il determinismo. “Il nostro punto di vista – scrive in Orientamenti – non è quello del determinismo. Il fiume della storia scorre nel letto che esso stesso si è scavato . Questa configurazione della Tradizione come un quid né del tutto trascendente né del tutto immanente, poiché essa travalica la storia pur esprimendosi nella storia, presenta, a mio avviso, una qualche affinità con la provvidenza vichiana. Vico si ispira a Platone; la sua “storia ideale eterna” esprime una concezione di matrice platonica, così come la rivalutazione e la riscoperta del mito va collegata alla rilettura di Platone e dei miti che il filosofo ateniese tramanda (celebre, ad esempio, il mito della caverna). Orbene, non è certo un caso che, in apertura de Gli uomini e le rovine, Evola citi una frase di Platone, tratta dalla Repubblica, che dice “Vi è un modello fissato nei cieli che l’uomo possa vedere e, avendolo visto, conformarvisi in se stesso. Ma che esso esista o sia mai esistito, è cosa priva di importanza; perché questo è l’unico modello di cui egli mai possa considerarsi parte”. La “Trascendenza immanente” di Evola ha dunque una ispirazione platonica nel suo essere una norma ideale, un “modello nei cieli” cui l’uomo si conforma interiormente, se sceglie di conformarsi. Credo che i due sistemi di pensiero – quello vi chi ano e quello di Evola - nella loro comune ispirazione platonica abbiano pertanto un punto di contatto, ma anche alcune significative differenze, poiché in Vico la provvidenza si colloca nell’ambito di una concezione religiosa cristiana risolutamente negata dal filosofo romano della Tradizione. Il cristianesimo è visto, infatti, in Evola, come un processo involutivo antitradizionale, quale “sincope della tradizione occidentale” (che è, significativamente, il titolo del capitolo di Rivolta dedicato al cristianesimo) sovversione dei valori tradizionali; una posizione che il filosofo romano mantenne anche negli ultimi anni, com’è dimostrato da ciò che scrisse ne L’arco e la clava sul rapporto fra cristianesimo ed esoterismo tradizionale. La successiva romanizzazione del cristianesimo in cattolicesimo romano viene considerata, nella sua prospettiva, nella misura – e solo nella misura in cui – sono accolti dal cattolicesimo elementi caratteristici della romanità. Lo studio dei rapporti fra i due pensatori è appena iniziato e va ulteriormente approfondito. Intanto un primo punto fermo si può fissare: il filosofo napoletano, nel riscoprire il rilievo del mito per conoscere e comprendere le culture e la storia dei popoli più antichi ha aperto la strada per l’elaborazione di quel metodo di ricerca in profondità della storia universale che Evola definÌ “metodo tradizionale”. Le stesse ricerche e le intuizioni della storiografia romantica dell’800 sono state anticipate da Vico. E la visione della Provvidenza come un “dover-essere” ha aperto la strada per una lettura del rapporto fra Trascendenza e storia che fosse oltre l’esclusiva trascendenza o l’esclusiva immanenza.

INTRODUZIONE da – Immagine umana, immagine divina -

Introduzione da – Immagine umana, immagine divina.
di Philip Sherrard (Denise Harvey Publishing, 1991)

Su una cosa almeno non è più necessario tornare a discutere, ovvero sul fatto che ci troviamo alla soglia di una crisi di dimensioni davvero preoccupanti. Questa crisi tendiamo a chiamarla ‘ecologica’, e tale termine è adatto nella misura in cui i suoi effetti sono evidenti soprattutto nella sfera ecologica. Infatti qui il messaggio è più che evidente: l’intero nostro modo di vivere è suicida, sia a livello umano che ambientale, e se non avviene un cambiamento radicalmente non v’è modo d’evitare la catastrofe cosmica. Senza tale cambiamento l’intera avventura della civiltà giungerà al suo termine nel corso dell’esistenza di molti di coloro che vivono oggi.
Sfortunatamente sembra che non abbiamo ancora capito l’urgenza della necessità di tale cambiamento, e nonostante tutto, continuiamo a persistere sulla stessa strada di devastazione, in una sorta di cieco incubo messo in scena con la stessa inesorabilità d’una tragedia greca, programmando di estendere ulteriormente il nostro dominio di artificiosità sterilizzata e di metodologie specializzate, facendosi largo nelle giungle dell’informatica e dell’elettronica, elaborando sistemi finanziari sempre più estesi e sofisticati, manipolando il naturale processo riproduttivo delle piante, degli animali, degli esseri umani, saturando i terreni e le colture con potenti additivi chimici e con una varietà di veleni che nessuna comunità mentalmente equilibrata si sarebbe mai sognata di portare fuori da un laboratorio, spogliando il mondo di quel ch’è rimasto delle foreste ad una velocità incredibile, e comportandosi generalmente in una maniera tale che, persino se l’avessimo deliberatamente programmata, non avrebbe potuto essere più adatta al nostro auto-annichilimento e a quello del mondo che ci circonda. È come se fossimo nel bel mezzo di una mostruosa psicosi collettiva, come se di fatto un enorme desiderio di morte aleggiasse sul cosiddetto mondo civilizzato. Nella sfera ecologica il messaggio è, come già detto, fin troppo chiaro, per quanto possiamo continuare a ignorarlo. Tuttavia, nonostante gli effetti della nostra crisi contemporanea siano più che evidenti in tale sfera, la stessa crisi non è in primo luogo una crisi ecologica. È innanzi tutto una crisi che riguarda il modo in cui pensiamo. Stiamo trattando il nostro pianeta in una maniera inumana, dissacrante, dal momento che vediamo le cose in modo inumano e dimentico del divino. E vediamo così le cose, poiché fondamentalmente quello è il modo in cui conosciamo noi stessi.
Questa è la prima cosa che dobbiamo assolutamente chiarire se vogliamo almeno cominciare a trovare una via per uscire dagli inferni dell’auto-mutilazione a cui ci siamo condannati. Il modo in cui vediamo il mondo dipende soprattutto da come vediamo noi stessi. Il nostro modello dell’universo – il nostro quadro del mondo, ovvero l’immagine del mondo – è basato sul modello che abbiamo di noi, sull’immagine che ci costruiamo di noi stessi. Quando guardiamo il mondo, quel che vediamo è un riflesso della nostra mente, della nostra modalità di coscienza. La nostra percezione di un albero, di una montagna, di un volto, d’un animale o di un uccello è un riflesso della nostra idea su noi stessi. Quel che sperimentiamo in queste cose non è tanto la realtà o la loro natura in sé, quanto semplicemente ciò che i nostri limiti, spirituali, psicologici e fisici, ci permettono di sperimentarne. La nostra capacità di percepire e sperimentare è stereotipa a seconda di come l’abbiamo forgiata a nostra personale immagine e somiglianza.
Ciò significa che prima di poter effettivamente trattare il problema ecologico, dobbiamo cambiare la nostra immagine del mondo, e ciò a sua volta significa che dobbiamo cambiare l’immagine di noi stessi. A meno che non cambi la valutazione che abbiamo di noi stessi, ovvero di ciò che costituisce la vera natura del nostro essere, non cambierà neanche il modo in cui trattiamo il mondo intorno a noi. E a meno che ciò non accada, la teoria e la pratica della tutela ambientale, per quanto possa essere ben intenzionata e necessaria, non giungerà al cuore del problema. Nel migliore dei casi rappresenteranno uno sforzo nell’affrontare cose che in fin dei conti non sono che sintomi, e non cause.
Non voglio in alcun modo sottovalutare tali sforzi, che sono spesso encomiabili, solitari ed incredibili, contro tutte le avversità. Una delle terribili tentazioni da affrontare è quella di pensare che il problema sia così grande che nulla di ciò che facciamo su scala individuale possa sortire alcun effetto, e che quindi dovremmo lasciarlo alle autorità, ai governi, agli esperti.
Questo atteggiamento è fatale. Ogni singolo gesto compiuto, per quanto insignificante possa sembrare, conta, e può comportare incalcolabili conseguenze. Il pensiero, se non viene accompagnato da una pratica corrispondente diviene subito sterile. Comunque allo stesso tempo la pratica che deriva da un pensiero scorretto diventa facilmente controproducente, poiché tale pratica ha soprattutto a che fare coi sintomi. Le cause sono radicate nel modo in cui pensiamo, ed è proprio per questa ragione che la nostra crisi, prima di tutto, ha a che fare con l’immagine di noi stessi e con la visione che abbiamo del mondo.
È questo il punto cruciale della nostra situazione. L’inferno tecnologico e industriale che abbiamo prodotto attorno a noi, e con cui stiamo oggi devastando il mondo, non è qualcosa che si è verificato accidentalmente. Al contrario, è la diretta conseguenza del fatto che abbiamo permesso a noi stessi di essere dominati da un certo paradigma di pensiero – che comprende una particolare immagine umana e una particolare immagine del mondo – ad un grado tale da determinare ora virtualmente tutti i nostri atteggiamenti mentali e tutte le nostre azioni, pubbliche e private.
È un paradigma del pensiero che ci induce a guardare a noi come poco più che animali bipedi il cui destino e necessità possono essere meglio soddisfatti grazie a un’attività di auto-coinvolgimento sociale, politico ed economico. E per trovare una corrispondenza a tale immagine di sé abbiamo inventato una visione del mondo in cui la natura è vista come un bene economico impersonale, una fonte senz’anima di cibo, di materie prime, di benessere, di potere e così via, che pensiamo di avere il diritto di sperimentare, sfruttare, rimodellare e generalmente di abusarne attraverso qualsiasi tecnica scientifica e meccanica che siamo in grado di approntare e produrre, per soddisfare ed allargare tale interesse. Avendo nelle nostre menti dissacrato noi stessi, abbiamo anche dissacrato la natura nelle nostre menti; l’abbiamo rimossa dalla sovranità del divino e ce ne siamo considerati signori, ed è proprio questo il nostro asservimento: sottomessi alla nostra volontà. In breve, sotto l’egida di questa immagine e di questa visione del mondo siamo riusciti a ridurci nella più depravata e depravante di tutte le creature della terra.
Questa immagine di sé e questa visione del mondo hanno le loro origini in un vuoto di memoria, in una dimenticanza di chi siamo, e nella nostra caduta a un livello d’ignoranza e di stupidità che minaccia la sopravvivenza della nostra razza. Per una logica implacabile inerente a tale origine, siamo costretti a procedere lungo una strada segnata ad ogni passo dalla nostra caduta, in un’ignoranza ancora più profonda della nostra natura e di conseguenza in un’ignoranza altrettanto profonda della natura di ogni altra cosa.
Finché rimaniamo su questa strada, siamo destinati a procedere alla cieca e ad un ritmo ancora più serrato di totale perdita di identità, totale perdita di controllo ed infine totale autodistruzione. E nulla può fermare il processo tranne che una completa virata, un cambiamento radicale del modo in cui osserviamo noi stessi e quindi del modo in cui osserviamo il mondo intorno a noi. Senza questo cambiamento, continueremo semplicemente ad aggiungere combustibile alla nostra pira funebre.
Siamo in grado di compiere tale inversione, tale radicale raddrizzamento? Nessuno può impedirci di farlo tranne noi stessi, questa credo sia la risposta. Nessuno può impedirci di cambiare l’immagine di sé e di conseguenza la nostra visione del mondo tranne noi stessi.
La questione – l’unica vera questione – è quella di sapere quale immagine di sé e quale visione del mondo dobbiamo porre a sostituzione degli stereotipi falliti, le finzioni inanimate che hanno preso il sopravvento su di noi.
Qui è necessaria una particolare azione di recupero. Ho detto che l’immagine di sé e la visione del mondo che ora ci dominano hanno le loro origini in una perdita di memoria, nella dimenticanza d’identità. Cosa voglio intendere con ciò?
Nelle grandi culture creative del mondo, gli esseri umani non si considerano animali bipedi, che discendono dalle scimmie, le cui necessità e soddisfazioni possono essere ottenute perseguendo un proprio interesse sociale, politico ed economico nel mondo materiale, come se la loro vita fosse confinata a una dimensione materiale di spazio-tempo. Al contrario, essi pensano di se stessi in primo luogo ed eminentemente come discendenti degli dei, o di Dio, ed eredi dell’eternità, con un destino che va assai al di là della politica della società e dell’economia, o di qualsiasi altra cosa che possa essere soddisfatta nei termini del mondo materiale o appagando i propri desideri passeggeri e le proprie necessità fisiche. Essi pensano di sé come ad esseri sacri, persino semi-divini, non per proprio diritto, ma perché creati ad immagine divina, l’immagine di Dio, di una forma trascendente e sovrumana di consapevolezza. Provengono da una fonte divina, e il mondo divino è il loro diritto di nascita, la loro vera dimora.
Allo stesso modo, essi non considerano ciò che noi chiamiamo il mondo esterno, il mondo della natura, come una semplice e casuale associazione di atomi o altro, o come qualcosa d’impersonale, privo d’anima, non vivente, che si sentono in diritto di manipolare, comandare, sfruttare e generalmente saccheggiare e devastare per gratificare le loro ingordigie e smanie di potere. Essi considerano anche la natura come creazione divina, piena di saggezza nascosta e, pari a loro stessi, piena di una personale e sensibile anima vivente o di una vita psichica come la loro. Essi riconoscono e comprendono anche nella natura una realtà sacra, una presenza divina invisibile, resa manifesta. Essi sentono che ogni parte della terra – del cosmo intero – è sacra. Nella loro memoria ed esperienza, ogni foglia, ogni granello di sabbia o di terra, ogni uccello, animale e stella, l’aria ed ogni insetto è santo, è istinto dotato di vita. La linfa che scorre nell’albero è sacra proprio come il loro sangue – è parte del loro sangue. Foreste, montagne, laghi, campi, mari, le grandi pianure e persino i deserti non sono ‘risorse’ da sfruttare; sono una modalità di vita. Essi possono far sì commercio dei doni che offrono – in pietre preziose e spezie, in grano e bestiame. Possono nell’ignoranza essere eccessivi nelle loro richieste, nel far brucare i campi ai loro greggi o nell’abbattere troppi alberi. Ma non commerciano deliberatamente nella natura in sé, o a discapito della natura. Non ne inaridiscono, e non avrebbero potuto mai farlo (e non per mancanza di conoscenze tecniche), le viscere testando di bombe nucleari, deturpandone il cielo con lo scarico fumoso e nauseante di aeroplani e navicelle spaziali, non ne avvelenano i fiumi, i laghi, i mari, le fonti d’acqua sotterranee sciogliendovi sostanze chimiche, ed attraverso uno stillicidio velenoso, non la violano nei tanti altri modi che pratichiamo oggi.
E quando dico ‘non avrebbero potuto’, non voglio intendere ciò in senso sentimentale. Si tratta di un divieto radicato nelle profondità più recondite della loro comprensione delle cose. Se la natura è creazione di Dio, ovvero manifestazione di Suprema Saggezza ed Armonia, allora ne segue che è espressione d’un ordine e d’una disposizione divini, ma anche che quest’ordine e questa disposizione rappresentano il meglio che sia possibile, date le condizioni all’interno delle quali la natura viene creata o resa manifesta. Di conseguenza, immaginare che possiamo migliorarla – o rimuovere le imperfezioni che vi si vogliono trovare, interferendo con essa, rimodellandola, trasformandola e così via, in modi che comportano lo sconvolgimento e la perversione dell’ordine e della disposizione divini, come anche i processi organici che sono loro parte integrante – è pura follia e sfrontatezza: è come immaginare di poter intervenire a migliorare la saggezza dell’Assoluta Saggezza. Inevitabilmente, quindi, qualsiasi tentativo da parte nostra di interferire in tal modo su di essa o di rielaborarla potrà soltanto degenerare, creare dei cancri, corrompere e viziare le condizioni in cui dobbiamo vivere la nostra vita sulla terra. Negli ultimi secoli è quindi chiaramente emersa tale verità, e non dovremmo aver più bisogno di ulteriori prove riguardo alla giustezza della comprensione su cui è radicata.
Tuttavia, nonostante ciò, tale comprensione, e il senso della sacralità sia dell’uomo che della natura, come anche il timore reverenziale che essi ispirano, vengono oggi spesso caratterizzati come primitivi, ovvero basati sulla superstizione, e considerati parte dell’epoca pre-scientifica e come qualcosa promosso soltanto da coloro che non sono riusciti, per una qualche ragione, a ‘progredire’ nella direzione del XX° secolo (ovvero il XXI° secolo, dal momento che ci siamo quasi). E quando viene messo in evidenza che le teorie dell’evoluzione biologica, sia in forma darwiniana che post-darwiniana, sono state fraintese, e che gli esseri umani, lungi dall’esser discesi dalle scimmie, sviluppano soltanto tendenze e caratteristiche simili alla scimmia quando pervertono la loro natura umana e diventano subumani, o disumani, non c’è da meravigliarsi se ciò cade nel ridicolo. Insistere sul fatto che non possiamo ottenere alcuna autentica conoscenza del mondo fisico a meno che prima non si sia ottenuta una conoscenza delle realtà spirituali o metafisiche, significa attirarsi accuse d’oscurantismo, se non d’idiozia: tendiamo a prendere per certo non solo che sia perfettamente possibile ottenere una conoscenza del mondo fisico senza alcun riferimento a una qualsiasi idea di Dio, o d’un Creatore, o di qualsiasi soggiacente realtà metafisica che vada al di là dello spazio e del tempo, ma anche che non possiamo decisamente permettere che una tale idea determini sia i metodi che impieghiamo nella nostra ricerca di conoscenza che la sostanza di ciò che consideriamo conoscenza. Possiamo e dobbiamo esaminare la natura visibile (natura naturata) come se fosse indipendente dall’invisibile natura metafisica (natura naturans) da cui deriva e in cui è radicata. Possiamo e dobbiamo spiegare i fenomeni naturali come se fossero indipendenti dal regno del soprannaturale. Possiamo e dobbiamo spiegarli semplicemente nei termini delle leggi della fisica e della chimica, senza alcun riferimento alla natura naturans o al regno del soprannaturale. Tale è il livello a cui l’intelligenza umana è degradata nella sua ricerca degli scopi che caratterizzano il nostro mondo moderno.
E ciò a discapito del fatto che – per limitarci soltanto alla tradizione europea – non v’è più grande filosofo da Platone a Berdjev, né alcun grande poeta, da Omero a Yeats, che non abbia esplicitamente o implicitamente affermato quel tipo di cosmologia che noi oggi tendiamo tanto a ridicolizzare, a ripudiare, ad ignorare. Uno dei grandi irrisolti enigmi psicologici del mondo moderno occidentale è la questione di cosa o chi ci abbia persuaso ad accettare come virtualmente assiomatica una visione di sé e una visione del mondo che ci richiede, senza mezzi termini, di rifiutare la saggezza e la visione dei nostri maggiori filosofi e poeti per imprigionare il nostro pensiero e il nostro essere nella camera di tortura materialista, meccanicista e dogmatica, costruita da una mente scientifica quantitativa d’infima categoria.
Riguardo a ciò, v’è un particolare errore di cui dobbiamo liberarci, ovvero che le teorie scientifiche contemporanee, e le descrizioni che le accompagnano, siano in un certo qual modo neutre, ovvero libere da certi valori, e che non presuppongano la sottomissione della mente umana a un sistema di supposizioni o dogmi, proprio in quella modalità che si dice sia richiesta a chi vuole aderire a una fede religiosa. Tale idea è, di contro, ancora promossa e persino ritenuta vera da molti degli stessi scienziati. Su di essa si basa l’affermazione che le descrizioni scientifiche delle cose siano oggettive. Non è che questi scienziati neghino che ci siano, o possano esservi, valori. Il fatto è che nel loro ruolo di scienziati, affermano di operare indipendentemente da ogni giudizio di valore, e di essere impegnati in ciò che amano chiamare ‘ricerca scientifica’, puramente disinteressata.
Si tratta di uno degli errori più insidiosi di cui ancora tendiamo a rimanere vittime. Persino persone che affermano di combattere per una nuova filosofia di valori ecologici, come Henryk Skolimowski, continuano a esserne succubi come se fosse fuori discussione. In realtà, lungi dall’essere fuori discussione, ciò rappresenta una vera e propria bugia. Ogni pensiero, ogni osservazione, ogni giudizio, ogni descrizione, sia dello scienziato moderno che di qualsiasi altro individuo, è imbevuto a priori di giudizi precostituiti di valori, supposizioni e dogmi quantomeno così rigidi, se non più (dal momento che sono spesso abbracciati in maniera inconscia), di quelli di un qualsiasi sistema religioso. La vera natura del pensiero umano è tale che non può operare indipendentemente da giudizi di valori, supposizioni e dogmi. Persino l’asserzione che ciò sia possibile, costituisce un giudizio di valore e implica un’intera filosofia, sia che ne siamo consapevoli o no.
Oltre a quest’errore, e strettamente alleato ad esso, ce n’è un altro da cui continuiamo ad essere vittime. Non si tratta della nozione – a cui già abbiamo fatto riferimento – che la scienza moderna sia libera da valori, o che sia l’unica scienza possibile, ma che sia valida in relazione a quell’aspetto limitato delle cose che si presta allo studio – ovvero, il loro aspetto materiale e fenomenico, ed esteso nel tempo e nello spazio. Questa nozione non è intesa a negare che ci sia, o che ci possa essere, un altro aspetto delle cose – ciò che è spirituale ed eterno, e privo d’estensione spazio-temporale – che possa essere anche di per sé studiato e che possa costituire la sfera della conoscenza spirituale o di una scienza spirituale. Essa semplicemente implica l’affermazione che ci sono due livelli di realtà; che ciascun livello possa essere studiato separatamente, e senza alcun riferimento all’altro; e che la conoscenza ottenuta come risultato di aver studiato un livello sia valida nei suoi termini proprio come la conoscenza ottenuta attraverso lo studio dell’altro livello.
Questo modo di affrontare le cose è una falsità poiché il primario elemento determinante della conoscenza (o quel che riteniamo essere la conoscenza), ciò che otteniamo dalle cose non è il particolare livello di realtà a cui tale conoscenza si ritiene sia pertinente. Il suo principale elemento determinante è il livello, ovvero la modalità, di consapevolezza di cui tale conoscenza è espressione. Ciò vuol dire che non si tratta tanto d’una differenza di livelli di realtà da percepire e sperimentare, uno interiore e spirituale e l’altro esteriore e materiale, ciascuno con una scienza indipendente che corrisponde ad essa. Si tratta piuttosto di differenti livelli o modalità di consapevolezza nell’uomo, attraverso cui egli percepisce e sperimenta; così che quel che percepisce e sperimenta dipenderà prima di tutto dal livello o modalità di consapevolezza attiva in lui, e non dal livello di realtà che gli capita di studiare.
Non vi sono due scienze, una che si occupa dell’aspetto materiale ed esteriore delle cose estese nel tempo e nello spazio, e l’altra della dimensione spirituale ed eterna, priva di estensione spazio-temporale. Esiste solo una scienza. Tuttavia ci sono due modalità dominanti di consapevolezza nell’uomo: la consapevolezza dell’ego, che è la sua modalità più bassa di consapevolezza, che corrisponde di fatto a ciò ch’è più inumano e satanico in lui; e la sua consapevolezza angelica o spirituale, che è la sua modalità più elevata di consapevolezza. Naturalmente, ci sono infinite sfumature tra queste due modalità, a seconda che la consapevolezza graviti più o meno da una parte o dall’altra.
La consapevolezza superiore o spirituale percepisce e sperimenta le cose come sono in se stesse, interne ed esterne, spirituali e materiali, metafisiche e fisiche interpenetrandole e formando una singola realtà indivisa e indivisibile. La consapevolezza profana, ovvero dell’ego, non può percepire e sperimentare le cose così come sono. Può percepire e sperimentare soltanto quel che le viene permesso dalla sua opacità e ciò non è la realtà delle cose, ma si tratta di cose avulse dalla loro realtà. Non può esservi una scienza delle cose – dei fenomeni – che ignora la realtà dei fenomeni, in virtù della quale essi sono quel che sono. Non può esservi una scienza valida soltanto nell’aspetto fisico delle cose, per la semplice ragione che la nozione che le cose posseggano un aspetto fisico esteriore staccato dalla loro dimensione spirituale interiore è una nozione illusoria.
Se potessimo percepire e sperimentare con piena chiarezza la nostra consapevolezza superiore e spirituale, saremmo in grado di vedere e capire che di per sé nessuna cosa visibile – nulla che appartiene al mondo dei fenomeni – ha una propria esistenza o un proprio essere. Vedremmo e comprenderemmo che separati da questa dimensione e identità interiore e spirituale non possediamo alcuna realtà di sorta, sia fisica, materiale o sostanziale, e che tale nozione è semplicemente un’illusione o una distorsione inerente al punto di vista della consapevolezza dell’ego. Non è possibile separare in alcun modo la fisica dalla metafisica, e se a tutt’oggi pensiamo che ciò sia possibile, non facciamo che dare prova dell’inanità del nostro pensiero.
Quindi, visto che a tutt’oggi la scienza moderna presuppone la nozione che possiamo ottenere conoscenza dei fenomeni senza alcun riferimento a una precedente conoscenza della loro dimensione interiore e spirituale, e separatamente da essa, allora vuol dire che è basata totalmente sulla consapevolezza dell’ego, ovvero – il che porta alle medesime conclusioni – è ancora al servizio di un dualismo che oppone mente e materia, soggetto e oggetto, conoscitore e conosciuto – un dualismo che rappresenta una totale distorsione della realtà. Ciò significa che tale scienza risulta corrotta da caratteristiche inumane e sataniche in quell’uomo la cui consapevolezza le farà da veicolo. Ecco perché la sua applicazione, nella tecnologia o in altre forme, è suscettibile di essere carica di conseguenze che sono ugualmente inumane e sataniche, sia riguardo al nostro proprio essere che riguardo al mondo fisico naturale.
Ecco dunque perché anche ogni estensione dell’impero e dell’influenza della nostra mentalità contemporanea secolare e scientifica è andata e continua ad andare a braccetto con una nostra corrispondente ed accentuata erosione del senso del sacro. In realtà, non abbiamo alcun rispetto, non parliamo neanche di riverenza, per il mondo della natura poiché fondamentalmente non abbiamo alcun rispetto, né tanto meno riverenza, per noi stessi. E questo perché, dal momento che abbiamo perso il senso della nostra realtà personale, abbiamo perso il senso di qualsiasi altra realtà. E dal momento che paralizziamo e mutiliamo noi stessi, ecco che paralizziamo e mutiliamo qualsiasi altra cosa. La nostra crisi contemporanea non è che la rappresentazione amplificata della nostra personale depravazione.
Quindi l’unica risposta a questa crisi è l’interrompere la nostra depravazione. È recuperare un senso della nostra vera identità e dignità, l’immagine di noi stessi come esseri sacri, come esseri immortali. Una falsa visione di sé alimenta una falsa visione del mondo, e assieme alimentano la nostra nemesi, e la nemesi del mondo. Una volta ritornati in possesso di un senso della santità personale, recupereremo anche il senso di santità del mondo che ci circonda, e agiremo dunque sul mondo attorno a noi con quel timore reverenziale e quell’umiltà che dovremmo avere ogni volta che mettiamo piede in un santuario, in un tempio d’amore e di bellezza dove si prega e si fa adorazione. Soltanto in questo modo riusciremo ad essere consci che il nostro destino e il destino della natura sono una cosa sola. Soltanto in questo modo potremo restaurare un’armonia cosmica. Se non percorreremo questa strada, allora le cose prenderanno un’altra piega, dal momento che non v’è altra via d’uscita. Fallire qui significa fallire irrevocabilmente: non può esservi alcuna via di fuga al nostro genocidio inumano. Senza un senso del sacro (del fatto che ogni cosa che vive è santa) e senza umiltà nei confronti del tutto – verso l’uomo, la natura e verso ciò che sta al di là sia dell’uomo che della natura, loro fonte e origine trascendente – procederemo semplicemente, dritti, dritti, verso un’autodistruzione di cui siamo noi i responsabili.
Tutto ciò significa che se dobbiamo affrontare la nostra crisi contemporanea fino ad andare alle sue radici, il nostro compito è duplice. Dobbiamo prima di tutto far chiarezza nella nostra mente – identificare coerentemente e senza ombra di dubbio – il paradigma di pensiero che soggiace e determina l’attuale immagine di noi stessi e la nostra visione del mondo. Se prima non facciamo ciò potremmo facilmente diventare vittime di una sorta di doppio pensiero, che attacca i sintomi mentre rimane soggetto alle cause che producono i sintomi. E per noi è d’importanza fondamentale, dal momento che abbiamo tendenzialmente dimenticato quelle che sono le presunzioni e le supposizioni che caratterizzano questo paradigma: esse sono profondamente innestate nei baluardi dei nostri processi ordinari del pensiero, e noi siamo inconsapevoli di quanto in realtà stiano alla base di tali processi e di come li determinino.
In secondo luogo, dobbiamo cercare di recuperare, o di riscoprire, la visione dell’uomo e della natura – o piuttosto, la visione teoantropocosmica – che ci permetterà di percepire e quindi di sperimentare sia noi stessi che il mondo in cui viviamo come realtà sacre, ovvero quel che sono; poiché se non recuperiamo il senso della loro sacralità, che è basata su di una coerente comprensione del perché esse siano sacre, i nostri tentativi di riaffermare in loro questa qualità potrà essere inficiata da ciò che alla fine risulta essere poco più che un pregiudizio sentimentale.
La nostra ricerca, quindi, è al contempo antropologica – rivolta alla questione dell’identità dell’uomo – e cosmologica – che vuole rispondere alla domanda sulla natura dell’universo. È in ultima istanza un tentativo di riaffermare le immagini sacre sia dell’uomo che della natura: di affermare un’immagine umana e del mondo che sia sacra.
(Traduzione di Eduardo Ciampi)

BALLATOI TERMINALI E MODELLINI DI NURAGHI MAI ESISTITI

Nel quadro generale di assurdità e di ridicolaggini relative alla civiltà nuragica tracciato da alcuni archeologi, ad iniziare da Antonio Taramelli fino a qualcuno vivente – quadro che è perfino offensivo per la intelligenza di noi Sardi – entrano anche la storiella del «ballatoio o terrazzino terminale» che avrebbero avuto i nuraghi e la storiella dei «modellini di nuraghi». Purtroppo non c’è opera o studio, sia che aspiri ad essere scientifico sia che abbia un intento di divulgazione, che non presenti i nuraghi col ballatoio terminale, come quello delle torri medioevali e post-medioevali. Ed invece questi “ballatoi” e quei “modellini” non esistono affatto e non sono esistiti mai.

I supposti “ballatoi”

L’archeologo che ha scavato il Nuraxi di Barumini ha ritenuto di poter affermare l’esistenza del ballatoio terminale nel grande nuraghe in base al ritrovamento, non in situ, ma sparsi nel terreno, di lunghi massi che egli ha considerato “mensoloni”, i quali appunto avrebbero sostenuto il “ballatoio” terminale dell’imponente edificio.

Egli ha pure disegnato quella che sarebbe stata la posizione originaria di quei mensoloni, ma purtroppo in una maniera tale che è chiaramente contraria alle leggi della statica. Sul piano funzionale egli ha sostenuto che il ballatoio serviva ai guerrieri assediati nella supposta grande fortezza, a far sì che i massi scaraventati sui nemici cadessero a perpendicolo su di essi (quasi che rimbalzando sulla muraglia inclinata non potessero essere altrettanto dannosi!).

 Senonché nessun nuraghe ha mai avuto un “terrazzino o ballatoio terminale”, per il fatto essenziale che lo impediva la tecnica costruttiva di allora, fondata sull’uso esclusivo della “pietra”, per di più senza l’uso di alcuna malta.

Si deve considerare che la costruzione dei ballatoi terminali degli antichi campanili, torri e castelli è stata possibile solamente dopo l’uso di mattoni cotti, cementati da malte molto resistenti. Però nessuno studioso ha mai affermato e tanto meno dimostrato che i nuraghi avessero sulla cima ballatoi costruiti con mattoni e cementati con una qualsiasi malta.

Questa “favola” dei ballatoi terminali dei nuraghi, messa in bella mostra dai cartelloni esplicativi di nuraghi monumentali e dei nostri musei e dai pieghevoli pubblicitari ad uso dei turisti, è partita – come dicevo poco fa – dal ritrovamento, ai piedi prima del Nuraxi di Barumini e dopo di numerosi altri nuraghi, di “mensoloni” che avrebbero per l’appunto avuto la funzione di sorreggere quei “ballatoi”.

Io però avevo pubblicato, già nel 1970 e poi di recente nel 2006, le fotografie di mensoloni situati ancora in situ, sulla cima dei Tresnuraches di Nùoro e del nuraghe Albucciu di Arzachena, i quali risultano separati l’uno dall’altro e intervallati, in una posizione che non ha alcuna funzionalità pratica, mentre mostra di averne una semplicemente decorativa, esattamente come fanno i mensoloni che si trovano sulla cima delle torri dell’Elefante e di san Pancrazio di Cagliari e del Castello dei Malaspina di Bosa (M. Pittau, La Sardegna Nuragica, Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 64, 65; M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monti Prama, Sassari 2009, II ediz., EDES, pag. 16).

A questi esempi sono oggi in grado di aggiungere le fotografie di un nuraghe dei monti di Baunei, che mi sono state fornite da un mio amico del luogo:

Insomma i mensoloni terminali dei nuraghi in effetti determinavano e costituivano una “corona radiata” con funzione decorativa dell’edificio. Ma oltre che funzione decorativa i mensoloni del Nuraxi di Barumini e di altri numerosi nuraghi potevano forse avere una funzione simbolico-religiosa, indicante i raggi del Sole, divinità che indubbiamente anche i Nuragici adoravano.

 I supposti “modellini di nuraghe”

Dei “modellini di nuraghe” per il vero si faceva un gran parlare da molto tempo, ma il loro entrare prepotente nelle discussioni è venuto dopo che – finalmente – sono stati effettuati un po’ di scavi nel sito dove sono stati trovati gli ormai famosi Guerrieri di Monti Prama. Uno degli archeologi che hanno effettuato gli scavi ha ritenuto di aver trovati ben 8 modelli di “nuraghi complessi” e poi altri 13 modellini di “nuraghi singoli”. Per il vero egli ha manifestato una notevole difficoltà quando ha tentato di metter su una spiegazione di questi troppo numerosi “modelli e modellini di nuraghi”, ma soprattutto è caduto nell’errore di interpretare un elemento conico che sta sulla cima di questi “modellini” come «la copertura della scala di accesso al terrazzo superiore».

Ma di che materiale sarebbe stata fatta questa “copertura della scala”? forse di plexi-glas? E quale riscontro archeologico è stato mai trovato per essa? Perché quell’elemento conico o cupoletta risulta al centro della cima del “modellino” e non decentrata, come decentrata risulta essere sempre la scala di tutti i nuraghi?

In realtà i supposti 8 modelli di nuraghi complessi non sono altro – come è stato giustamente detto da un altro archeologo – che “basi di colonne” e “capitelli” del tempio ivi esistente.

E nemmeno le altre 13 statuette, alte una trentina di centimetri, sono “modellini di nuraghe”, I) perché risultano troppo alte e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alte come sono avrebbero dovuto avere anche un segno di qualche finestrone, come di fatto si constata in alcuni nuraghi piuttosto alti.

In realtà le 13 statuette di Monti Prama non sono altro che miniature di “lucerne” o di “candelabri”, la cui cupoletta finale indica la fiamma accesa.

Si deve considerare con attenzione che la presenza di lucerne o candelabri in miniatura nel sito di Monti Prama ha una sua esatta motivazione nel fatto che erano in un sito sacrale e precisamente in un tempio dedicato al Sardus Pater. Invece eventuali “modellini di nuraghe” quale mai motivazione potevano avere nel tempio e, più in generale, in qualsiasi altro sito? Che senso aveva e quale spiegazione aveva la fabbricazione di molti “modellini di nuraghe” in generale? Nella sala delle riunioni del nuraghe di Palmavera di Alghero la presenza di un altare a forma di coppa o calice ha un senso in vista delle importanti decisioni politico-religiose che vi si prendevano, mentre la presenza di un “grande modello di nuraghe” – come è stato comicamente detto e scritto – non ha alcun senso né alcuna spiegazione.

E pure grandemente errata è la spiegazione che è stata data e corre in giro del cosiddetto “Modellino di Olmedo”. Questo non era affatto il modellino in bronzo di un nuraghe quadrilobato, I) perché i suoi 5 bracci risultano troppo alti e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno, in quella che dovrebbe essere la lunga cerchia muraria, per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alti come sono i 5 bracci e soprattutto quello centrale avrebbero dovuto avere anche il segno di qualche finestrone nella loro muraglia e invece non ne hanno alcuno.

E le stesse identiche obiezioni muovo per il bronzetto di Ittireddu, anch’esso erroneamente interpretato come “modellino di nuraghe”.

Invece, a mio giudizio, anche quelli di Olmedo e di Ittireddu non sono altro che il modellino di una lucerna, una “lucerna plurima” a 5 bracci o becchi, analoga ad una plurima di terracotta che è stata trovata a Sant’Antioco. Ed anche a questo proposito vale la importante considerazione or ora fatta: nelle caratteristiche di sacralità che valeva per tutti i bronzetti nuragici – dato che costituivano tutti altrettanti doni fatti alle varie divinità – la riproduzione di una lucerna plurima si spiega perfettamente, la riproduzione di un nuraghe plurimo o polilobato non trova alcuna spiegazione.

È verosimile che queste due lucerne plurime implichino anche una “simbologia cosmica”, come ha scritto il mio amico architetto Franco Laner: i bracci dei quattro spigoli rappresenterebbero i quattro punti cardinali, mentre il braccio centrale rappresenterebbe la dimensione verticale dell’alto e del basso.

In proposito è da ricordare che questa medesima simbologia probabilmente esisteva anche nella cosiddetta “Tomba di Porsenna” di Chiusi, in Etruria.

La “favola” del ballatoio terminale dei nuraghi è entrata anche nella fabbricazione del cosiddetto “modellino di nuraghe quadrilobato di San Sperate”, in pietra arenaria giallo-rosa, esposto in bella evidenza nel Museo di Cagliari, che io di recente ho dimostrato essere nient’altro che un grossolano ed anche ridicolo “falso”. Che di falso si tratti, scolpito da qualcuno che quasi certamente si potrebbe riconoscere dalle carte che riguardano l’acquisizione dell’oggetto da parte della Soprintendenza Archeologica di Cagliari, è dimostrato chiaramente da alcuni fatti, ma soprattutto da due particolari: I) Il supposto modello di nuraghe presenta un “porticato” che costituirebbe la base dell’edificio; 2) Il muro dei quattro torrioni presenta nella sua parte finale una “rientranza circolare”. Senonché si tratta di due particolari costruttivi che da un lato non si ritrovano in nessun nuraghe reale, dall’altro avrebbero impedito la prosecuzione della costruzione del nuraghe stesso, il quale sarebbe crollato subito, con la messa in opera dei successivi cerchi di massi.

Infine l’oggetto sembra appena uscito dall’officina di uno scultore (e ben a ragione!), dato che presenta molti spigoli della pietra ancora vivi ed intatti.

Massimo Pittau

www.pittau.it

L’Uomo e il Sacro

L’Uomo e il Sacro

Emanuele Maffia

 

Indagare il rapporto fra l’uomo e il Divino non è cosa facile.

Prima di iniziare questa indagine è necessario fare un po’ di chiarezza su alcuni concetti spesso fraintesi.

Solitamente si definisce mistica una persona estremamente religiosa, che non manca mai alle funzioni della propria chiesa o confessione, che sembra fidarsi cecamente di quanto i ministri di culto le presentano, che non perde occasione per leggere i libri a lei sacri e non esita a profondere parole piene d’emozione parlando del suo credo, che prega molto e che tutto chiede al suo creatore.

Tuttavia questo è un grave errore.

La parola Mistico deriva dal greco Mysté che significa Iniziato (ai misteri).

Quello che si suole comunemente chiamare mistico non è affatto tale, perché in realtà il suo approccio al divino è semplicemente emotivo. Non si tratta di un mistico ma di una persona emotivamente esaltata.

Il vero Mistico è un entusiasta, nel senso etimologico della parola, ovvero, è in Dio.

Anche “entusiasta” è un termine che oggi è utilizzato in un’accezione distante dal suo significato originale, ed esprime anch’esso uno stato emotivo.

Queste premesse erano necessarie per comprendere come, nel tempo, si sia confusa la religiosità con l’emotività.

A questo punto è necessario analizzare il polo solitamente opposto a quello mistico, ossia, quello occulto.

Si definisce occultista una persona che si occupa di esoterismo e soprattutto di pratiche a esso legate. Spesso il termine occultista è usato come sinonimo di mago.

L’occultista, e quindi il mago, è visto come colui che alla fede antepone la conoscenza o la scienza.

Anche questa interpretazione del termine occultista è errata.

L’occultista è chi si occupa di quello che solitamente è nascosto e che pochi conoscono o desiderano conoscere, in altre parole, di ciò che si può quindi considerare esoterico.

Quest’antitesi fra occultista e mistico è solo un errore nato dall’incomprensione del vero senso di questi termini.

Il mago è in realtà un sacerdote che compie i misteri interiori della sua religione, si vedano, per esempio, i magi zoroastriani.

Il Mistico, l’Iniziato deve divenire un Mago che compie i misteri della religione interiore, anche chiamata dalla tradizione “Arte Regale”.

Nell’Antico Egitto il Faraone riuniva in se sia il potere temporale che quello spirituale egli era, infatti, un Re ma anche un ponte fra il popolo e gli Dei, una divinità sulla terra.

Nell’antica Roma il Pontefix Maximus (Pontefice Massimo) era il capo del collegio dei sacerdoti, detti appunto pontefici. Per lungo tempo i Pontefici Massimi ebbero una forte influenza sul diritto romano. Da Giulio Cesare a Graziano, che rinunciò alla carica nel 375 D.C., tutti gli imperatori furono anche Pontefici Massimi.

Questi due esempi ci mostrano come il vero iniziato debba divenire un Sacerdote-Re, proprio come lo era Melkisedek (Re di Salem e Sacerdote dell’Altissimo), capace di esercitare l’Arte Regale e la funzione Sacerdotale.

L’uomo comune si rivolge al Divino per la paura di quello che non conosce o per la soddisfazione dei propri bisogni o desideri.

L’iniziato si rivolge al Divino per comprendere come servirlo al meglio. L’iniziato non chiede nulla a Dio se non un aiuto per comprendere cosa Egli voglia da lui.

L’uomo comune spinto da un’emotività esaltata prega un dio che non è altro che l’immagine sentimentale che se n’è fatta.

L’iniziato prega un Dio che sta iniziando a conoscere, in una lucidità che nulla ha di emotivo, allo stesso tempo egli è pieno di riconoscenza per quanto da esso riceve.

L’iniziato deve divenire quindi un vero entusiasta, uno che dimora in Dio.

Il vero Mistico penetra con il suo pensiero la mente di Dio e con l’intuizione della propria anima, comprende e conosce così i suoi misteri.

Il Mistico non è un Teologo ma un Teosofo, non desidera speculare sulla lettera ma ricevere la saggezza.

Jacob Bohme con la sua Aurora Nascente ben ci mostra quale sia la profondità dell’anima di un vero Mistico e quanto questa possa ricevere da Dio, leggiamo qualche estratto dalla sua “Aurora Nascente”:

<<Non vi è nulla nella natura che non ha la qualità buona e la qualità cattiva…>>

<<Questo doppio impulso, buono e cattivo, il quale si manifesta in ogni cosa, deriva dalle stelle…>>

<<Perciò il Cristo distingue qui il padre suo celeste dal padre della natura, che è le stelle e gli elementi. Le stelle e gli elementi sono il nostro padre naturale da cui siamo formati, nell’impulso del quale  viviamo in questo mondo, e che ci alimenta e ci mantiene.>> (da “Aurora Nascente”, ed. FirenzeLibri s.r.l)

Enrico Cornelio Agrippa nel libro primo della sua opera “De Occulta Philosophia” elenca le virtù e la purezza che un mago deve possedere per compiere miracoli, egli infatti scrisse:

<<Diremo ora della cosa arcana e secreta, necessaria a chi voglia bene operare in quest’arte, cosa che è il principio, il complemento e la chiave di tutte le operazioni magiche, cioè la dignificazione stessa dell’operatore ad una tanto sublime virtù e potestà. Solo l’intelletto, che è in noi la più alta espressione, è capace di operare le cose miracolose e se esso è troppo dominato dalla carne, non sarà capace di operare sulle sostanze divine, cosa che spiega il perché tanti ricerchino le arie di quest’arte senza trovarle. Bisogna dunque che noi che aspiriamo a tanta alta dignità, troviamo anzitutto il modo per distaccarci dalle affezioni della carne dal senso mortale e dalle passioni della materia e in seguito cerchiamo per quale via e in qual modo ci eleveremo a quelle altezze dell’intelletto puro, senza le quali non potremo  mai felicemente pervenire alla conoscenza delle cose segrete e alla virtù delle operazioni miracolose>>

<<Perciò in tale stato di purezza e d’elevazione ci è dato conoscere le cose che sono al di sopra della natura e scrutare tutto ciò che è contenuto nel nostro mondo>> (da “La Filosofia Occulta o la Magia”, Vol I, Edizioni Mediterranee).

Anche il teosofo tedesco Gichtel, Johann Georg nel suo “Theosophica practica” ci mostra come la vera religione non sia la pratica di una cieca fede in esaltazione emotiva, ma la conoscenza dell’uomo e di Dio ottenuta grazie ad una vita in armonia con la sua Saggezza. Nel detto testo leggiamo:

<<Se vogliamo contemplare ed osservare l’uomo nella sua profonda generazione interiore, bisogna che usciamo, con il nostro animo, dalla vita ELEMENTARE e dalla sideralità terrestre e che ci volgiamo alla vita interiore e divina di Gesù Cristo.

Bisogna che invochiamo la grazia di questo caro medico affinché egli si degni di aprire i nostri occhi chiusi dal Diavolo fin dai tempi del Paradiso. Così potremo riscoprire il nostro occhio di luce per riconoscere e contemplare Dio in noi. Senza che questo accada tutto rimarrebbe un MISTERO sigillato ed inconcepibile al nostro occhio sidereo ragionevole.>> (da “Theosophia Practica”, Edizioni Mediterranee)

Il noto alchimista Basilio Valentino, nelle “Dodici chiavi della Filosofia” scrisse:

<<…ti dico, in verità, se ti sforzi di fare la nostra grande e antica Pietra, sii fedele al mio insegnamento e prima di tutto prega il Creatore di ogni creatura che ti accordi per questo scopo la sua grazia e la sua benedizione.>>

<<Non essere più malvagio, ma sii virtuoso perché il tuo cuore sia illuminato verso ogni bene>>. (dalle “Dodici Chiavi della Filosofia”, Edizioni Mediterranee)

Basilio Valentino in più occasioni sprona i suoi discepoli a trovare una comunione interiore con Dio, come premessa al vero lavoro alchemico.

Ne “Il cocchio trionfale dell’antimonio”, attribuito a Basilio Valentino si legge:

<<Perocché io come monaco giudico necessario quello che rimarrà sempre necessario, che quando io, e tu tizio [c. 7v] e sempronio, tolti noi via dagli occhi degli uomini, perduta la vita, lasciamo nel mondo una memoria onorifica ad onore di Dio, acciò la maestà divina si onori, e con una debita preparazione al cammino noi ci accingiamo: il mio stato in vero ricerca uno spirito diverso dal volgo. In questa mia considerazione notai cinque cose da osservarsi dall’indagatore dell’arte:

prima: l’invocazione del nome divino;

seconda: la contemplazione dell’essenza;

terza: una vera ed incorrotta preparazione;

quarta: un buon uso;

quinta: i comodi.

Quali cose tutte devono considerarsi dal vero chimico, imperocché senza queste necessariamente neppur si può dire perfetto chimico. Nume[re]ro pertanto questi cinque membri partitamente, ad uno alla volta.

La invocazione di Dio si deve fare con religione celeste di puro cuore, a coscienza sana, senza ambizione, ipocrisia ed altri abusi, quali sono il fasto, la superbia, l’arroganza, la iattanza mondana, la oppressione del prossimo, ed altri tirannidi vizi di questo genere; i quali egli deve radicalmente affatto dal suo cuore estirpare, acciocché quando il dono della grazia vuole ottenere per la sanita del corpo, tolta via la zizzania dal puro grano, un puro ed ottimamente preparato tempio ella ritrovi; imperocché certamente e piú che certo [che j Iddio non si burla, siccome gli scioli ed i sapienti del secolo pensano. Imperocché come Creatore mai vuol essere invocato e conosciuto se non con un vero timore, dovuta ubbedienza ed umilissima supplica, perché non avendo niente l’uomo, se non quello che il benignissimo Creatore gli concede, il quale gli diede il corpo, la vita, lo spirito operante e la nobilissima anima. Ci dono, senza nostro merito, il cibo, la bevanda, le vesti ed altre cose per le necessita corporali, delle quali cose l’uomo in verun modo ne puote esser privo.

E’ dunque giusto che avanti a tutto, con umili ed intime preghiere, ottenga quelle dal primo Padre, il quale creo il cielo, la terra, le cose visibili e l’invisibili, il firmamento, gli elementi, i vegetabili e tutte le cose; onde e vero, ed e certissimo, che niun empio è per acquistare la medicina vera. Pertanto prima, e se specialmente segui questa dottrina, poni ogni tua speranza e fiducia in Dio, supplichevole implora la sua benedizione, accio la tua ricerca incominci dal timore di Dio.>> (dal “Cocchio Trionfale dell’antimonio”, Edizioni Mediterranee)

Anche nella Libera Muratoria i lavori regolari sono sempre svolti Alla Gloria dell’Ente Supremo chiamato in diversi modi secondo il rito. Per esempio, Grande Architetto Dell’Universo, Supremo Architetto dei Mondi, Vero Vivente Iddio Altissimo etc…

Nella Confessio Fraternitatis della Rosacroce classica, a proposito della Sacra Bibbia leggiamo:

<<Benedetto sia chi la possiede. Ancora più benedetto sia colui che la legge diligentemente. Ma più benedetto di tutti sia colui che realmente la comprende, per la qual cosa egli è sommamente gradito a Dio e arriva accanto a lui.>>

<< E ammoniamo tutti quanti di leggere diligentemente e continuamente la Sacra Bibbia, perché colui che potrà penetrare tutti i piaceri che essa contiene, saprà che è stata preparata per lui una splendida via per entrare nella nostra Confraternita.>>

Il nome del Padre e Fratello che fondò l’Ordine è Christian Rosenkreutz che significa Cristiano Rosacroce.

Nella Fama Fraternitatis leggiamo, all’inizio del panegirico riportato alla fine del libro T: <<Granum pectori Iesu insitum, C. Ros. C…>> ovvero <<Cristiano Rosa Croce, seme nascosto nel cuore di Gesù…>>.

Nei versi d’oro di Pitagora possiamo leggere: <<Onora innanzitutto gli dei immortali…>>.

Louise Claude de Saint Martin ne “L’uomo di desiderio” scrive:

<<Uomo, uomo, dove trovare un destino che sorpassi il tuo, giacché sei chiamato a fraternizzare col tuo Dio ed a lavorare di comune accordo con lui!>>

<<E perché Dio è la meta dell’uomo nei cieli, che l’uomo è stato la meta di Dio sulla natura. Cos’è che ci insegna questa verità? Seguite con l’intelligenza, il corso delle sue operazioni.>>. (da “L’uomo di Desiderio”, ed. FirenzeLibri s.r.l)

Tutte queste citazioni hanno due scopi, da una parte volevano mostrare come gli iniziati abbiano sempre praticato i misteri più profondi della religione allo scopo di divenire uno in e con Dio, dall’altra stimolare il lettore ad approfondire gli scritti di questi autori che molto hanno detto sulla religiosità vissuta dagli iniziati.

La fede dell’iniziato non è cieca fiducia ma il risultato di un discernimento della coscienza, di un riconoscimento interiore, del Divino stesso.

L’uomo comune prega per avere per sé o per gli altri, l’iniziato per dare a Dio.

La preghiera del vero Mistico, dell’Iniziato, è un servizio reso al proprio Dio in sé e fuori di sé.

Questo tipo di preghiera è un atto estremamente magico che evoca le forze divine che desiderano salvare l’uomo.

Un Servizio religioso eseguito in armonia con le leggi divine permette alle suddette forze di operare scientificamente, in lui e nella comunità, al servizio del Cammino.

Questa è la vera Teurgia che gli iniziati hanno sempre praticato sul Cammino.

Appare chiaro che, a questo punto, la distinzione che alcune correnti fanno fra “Via Cardiaca” o “Via Teurgica” sia assolutamente artificiale, poiché la Via è una e non può essere percorsa senza evocarne le forze, tuttavia la vera evocazione di tali forze è un atto interiore e non è necessariamente legato a complesse cerimonie esteriori.

Abbiamo detto che il vero Iniziato si trova sul Cammino, ma di quale cammino si tratta?

Di quello di ritorno alla Casa del Padre, che ogni iniziato deve percorrere, essendo questo l’obiettivo finale di ogni iniziazione, lo scopo per il quale ogni religione è nata.

Il termine religione significa riconnettere, unire nuovamente.

Cose deve essere unito nuovamente? L’uomo con Dio.

L’Arca di Noè, del racconto diluviano che troviamo nel Genesi, è l’immagine di una Scuola dei Misteri che deve portare i suoi iniziati a tornare alla casa paterna.

Questo può accadere solo se l’iniziato si applica in un cammino di auto-rivolgimento interiore.

In ebraico la parola usata in Genesi per arca è Tebah e si scrive תבה  se la si capovolge e si pone al centro una yod י,che rappresenta la volontà divina messa in atto, diviene  הבית e significa “la casa”.

Questo suggerisce che grazie alla Scuola dei Misteri l’Iniziato deve porre al centro della sua vita la forza dinamica del divino, grazie alla quale applicare il necessario rivolgimento interiore che lo porterà a rientrare come il Figliol Prodigo nella Casa del Padre.

 

Pensieri sul Cavaliere Rosa Croce del Rito di Menphis Primitivo e Orientale

Da anni colleziono e studio rituali di diverse organizzazioni e fra questi non potevano mancare quelli massonici.

Fra i vari rituali che sono riuscito a reperire sui banchi dei più disparati negozi o bancarelle, oppure acquistare in rete, c’è il rituale del Grado 11° – 18° (Cavaliere Rosa-Croce) dell’Antico e Primitivo Rito Orientale di Menphis per l’Italia e le sue colonie. Questo rituale è del 1923.

 

Non faccio parte della Massoneria e nemmeno vi ho mai fatto parte prima, quindi le osservazioni che condividerò, con questo testo, sono solo mie riflessioni, sono il frutto di quanto è sorto, da dentro, alla mia coscienza mentre leggevo le righe del rituale.

 

Per dovere di cronaca devo però dire che da alcuni anni faccio parte di una Scuola Rosicruciana il cui insegnamento ha cambiato l amia vita e mi ha dato la possibilità di comprendere quanto dal profondo voleva comunicarsi alla mia coscienza.

 

Non conosco l’interpretazione che ne darebbe un Massone aderente al Rito Primitivo di Menphis e nemmeno se concorderebbe con la mia visione. Non so neanche se i lavori condotti nelle logge di tale rito concordino con la mia lettura del rituale in questione. Tuttavia, il piano di lavoro che intravedo fra le righe di questo complesso rituale, a parer mio, non è casuale. Chi scrisse questo rituale forse poteva essere conscio del piano che vi si può leggere o forse, semplicemente, fu così sensibile da coglierlo in modo astratto e immaginifico ma non sufficientemente preparato per decodificarlo. In entrambi i casi quel che conta e quanto le immagini di queste righe possono suggerire all’anima in cammino verso la Casa del Padre.

 

Subito ho voluto confrontarne il contenuto con l’analogo rituale del Rito Scozzese antico ed Accettato (presente nella raccolta di Salvatore Farina).

Ho immediatamente notato delle differenze. I due rituali, pur condividendo alla radice i medesimi principi di fondo, si specializzano in modo differente.  I loro contenuti non si pongono, fra di essi, in contrapposizione o in alternativa l’’uno all’altro. (anche se in taluni passaggi potrebbe sembrare), anzi vi si può notare una certa complementarietà.

 

Nel Rito Scozzese Antico e Accettato quando i neofiti bussano alla porta del tempio, di loro è detto che sono:

 

<<Maestro delle Cerimonie – Dei Cavalieri d’Oriente e d’Occidente, erranti nei boschi e per le montagne fin dall’epoca della distruzione del Tempio , sofferenti per la Parola e qui giunti per domandarvela.  Sono i Fratelli……..>>

Mentre nell’Antico e Primitivo Rito Orientale di Menphis del neofita che bussa è detto:

 

<<CAPITANO DELLA OUARDIA :

Sin dalla demolizione del Tempio del Signore egli continuò ad errare nelle tenebre, nei boschi, nelle montagne e per l’oscuro e desolato deserto dell’ignoranza e della superstizione, ed avendo perduto la Parola, chiede la vostra assistenza per ritrovarla.>>

 

Nel caso del rituale nel Rito Scozzese Antico e Accettato il neofita è afflitto a causa della Parola, che ovviamente non conosce.

 

Nel Rito di Menphis il neofita è conscio di vivere una vita di ignoranza e superstizione perché ha perduto la Parola. Mentre nel rituale del Rito Scozzese Antico e Accettato il Neofita si pone in modo passivo, infatti giunge al Tempio del capitolo per domandare la Parola, nel rituale di Menphis egli si pone in modo attivo, infatti, chiede l’assistenza del capitolo per cercarla.

 

Questa sembra una sottile differenza ma in realtà gioca un ruolo fondamentale. E solo quando il cercatore è conscio che questa vita poggia su valori d’ignoranza e superstizione che nasce in lui il desiderio della vera ricerca. Egli cerca un qualcosa che non conosce ma che presente di aver perduto. Si tratta di uno stato di Vita Originale, nel quale l’Uomo viveva prima della Caduta.

 

[…]

Di quale legge si parla?

 

Sia nel Rito Scozzese Antico e Accettato sia nel Rito di Menphis la Fede, la Speranza e la Carità sono proclamate come colonne della Nuova Legge.

 

Nel rituale del Rito di Menphis, in più è detto:

 

<<

La legge proclamata è questa: “Fate agli altri ciò che vor-reste fosse fatto a voi“. E poi sta scritto: “L’occhio non vide, l’orecchio non udì, né poté l’uomo concepire ciò che Dio ha preparato per coloro che l’amano.” Noi non disperiamo, noi pra-ticheremo la nuova legge della virtù, e, guidati dalla sua dot-trina, procureremo di recuperare la Parola Sacra.

 

[…]

 

Oratore cosa ci rimane ora da fare?

ORATORE :

Rispettare i decreti del grande Creatore che è il Padre uni-versale di tutti ed inchinarci davanti a Lui in umiltà e sincerità mentre con la perseveranza, l’abnegazione ed il lavoro diligente,, procureremo di riacquistare la Parola perduta.

SAGGISSIMO.‘.

Rispettabile Cavaliere Conduttore, guidate il Neofita per il Settentrione, per l’Oriente, per il Mezzogiorno e per l’Occidente, affinché egli possa ammirare le bellezze del nuovo Eden, donde scaturì la nuova legge, e specialmente quella dell’amore.

[…]

SAGGISSIMO:

Ed ora attenetevi a queste tre, virtù: alla Fede, alla Speranza, alla Carità, ma non dimenticate che la più grande è la Carità.

 

CONDUTTORE:

Non fate ad, altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi. Ciò significa giustizia. Fate all’umanità ciò che voi, vorreste vi fosse fatto. Ciò significa Carità (n.d.r: Leggasi Amore).

 

>>

Da queste parole vediamo che:

1.      Per ritrovare la Parola Perduta, lo stato di vita originale, è necessario lavorare con umiltà, in abnegazione, perseverando, nell’osservare le leggi del Creatore, ovvero, vivendo sulla base del Servizio a Dio in noi, in un orientamento in accordo con la Legge del  Cuore.

2.      La più importante Virtù, quella che può trasformare radicalmente la vita dell’iniziato è l’Amore. Non si tratta dell’amore sentimentale ne dell’umanitarismo, ma del lavoro al servizio dell’umanità che l’Iniziato compie. Egli non desidera liberarsi per lasciare, dietro di sé nel fango della natura tutti gli altri, egli, al contrario, desidera liberarsi e nel contempo, nella misura delle sue possibilità aiutare gli altri a trovare anch’essi la liberazione.

3.      La Nuova Legge proviene dal Nuovo Eden, il nuovo campo di Vita, nel qual l’Uomo rigenerato, Trasfigurato, può essere nuovamente ammesso.

 

I Sette Viaggi

Nel rituale del Rito Scozzese Antico ed Accettato, al candidato vengono fatti fare tre viaggi uno davanti a ciascuno dei tre cartelli “Fede” , “Speranza” e “Carità”.

I Viaggi nel Rito Primitivo di Menphis sono, invece, sette.

Gli elementi di questi sette viaggi sono:

1.       Viaggio:

a.       L’Arca Santa (quella di Noè) è perduta

b.      La Parola è perduta

c.       Salomone ricevette a Gabaon, quello che non poté conservare a Zion, compresa la Sapienza <<i suoi errori e la sua illegalità macchiando la gloria la velarono ai suoi occhi>>.

Entrambi i luoghi Gabaon e Zion sono vette (Gabaon è una collina e Zion un monte).   La collina è solitamente più bassa del monte. Entrambi sono usati come simbolo del Santuario della Testa, del Potere del Pensiero. Nel caso di Gabaon, l’iniziato si pone con umiltà nei confronti del divino e da questi riceve una prima comprensione dei misteri. Se l’Iniziato innalza il proprio intelletto ad un ruolo che non gli compete, se l’orgoglio prende il posto dell’umiltà, allora egli si macchia con gravi errori e illegalità che velano ai suoi occhi la gloria di Dio. Questo viaggio vuol attirare l’attenzione sulla miseria dello stato umano e sulla necessaria umiltà per ritrovare la strada verso la Casa del Padre.

2.       Viaggio:

a.       La Scienza ritornò in cielo

b.      La pietra cubica suda sangue ed acqua

c.       Badate di non farvi forviare da false luci, ma attendete che i vapori pestiferi che sorgono dai pantani della Terra e che lo splendore del sole indorano, siano dispersi.

Questo viaggio suggerisce all’iniziato di non lasciarsi abbagliare dall’illusione, di attendere che quanto ancora impuro in lui sia purificato dal cammino, prima di intraprendere passi successivi.

3.       Viaggio:

a.       Ritiratevi o neri fantasmi della superstizione, che opprimete la libertà dell’anima.

b.      Ritiratevi ostacoli dell’ignoranza e dell’illusione che vorreste ingannare l’intelligenza di chi cerca la verità.

Questo viaggio da una parte incita l’iniziato a liberarsi dalla superstizione e dalla religiosità naturale, piccolo borghese, e dall’altra suona come uno scongiuro con il quale allontanare da lui la nefasta azione di tali neri fantasmi, in altre parole, rassicura il candidato sul fatto che sarà protetto e aiutato da Dio nel suo distacco da tali influenze.

4.       Viaggio:

a.       Il Grande Adonai renderà vani gli sforzi dei fantasmi della superstizione per cattivare l’anima delle sue creature.

b.      La vera sapienza ritornerà sulla Terra.

Questo viaggio, ribadisce il sostegno di Dio all’iniziato ma nello stesso tempo lo informa che il frutto del suo impegno, in quest’opera, sarà il “ritorno della sapienza sulla Terra”, ovvero, egli sarà nuovamente in grado di ricevere il tocco di Dio nel suo Santuario della Testa, il suo Potere del Pensiero potrà nuovamente penetrare i misteri che Dio gli mostrerà.

5.       Viaggio:

a.       La caduta d’Eden o di Zion non potranno essere più rinnovate.

b.      Il Sommo bene ha riservato una splendente beatitudine intellettuale ai suoi fedeli.

Nella nostra vita quotidiana ogni giorno rinnoviamo lo stato di Caduta, in altre parole, continuiamo a permanervi. Il quinto Viaggio, ci dice che se l’iniziato è riuscito nell’opera e la Sapienza di Dio ha nuovamente illuminato il suo Pensiero, allora egli ha superato lo stato di Caduta e quindi non la rinnova più. Questo però non significa che non possa cadere nuovamente, quindi la vigilanza s’impone.

6.       Viaggio:

a.       Conosciamo la sapienza dell’Ente Supremo:

i.      Amate la Fratellanza

ii.      Temete Dio

iii.      Onorate il Maestro

La vera Sapienza non si acquisisce con lo studio di grossi volumi ma vivendo in armonia con il Logos. Chi pone al centro della propria vita il Dio che vive nel più profondo del microcosmo che egli abita, chi lavora per la Rigenerazione di tale microcosmo, ponendo il proprio ego in uno stato di auto-resa a tale Dio, onora il Maestro Interiore, lo rispetta e desidera offrire la stessa possibilità a tutti quelli che cercano un avia d’uscita alla sofferenza dello stato di caduta. Questo è il messaggio del sesto viaggio.

7.       Viaggio:

a.       La legge proclamata è “Fate agli altri ciò che vor-reste fosse fatto a voi

b.      L’uomo non può concepire ciò che Dio ha preparato per coloro che l’amano.

c.       Praticheremo la nuova legge della virtù, e guidati dalla sua dottrina, procureremo di recuperare la Parola Sacra.

Il Settimo viaggio incita ad una vita di atti concreti, improntati alla dottrina della Virtù di cui L’Iniziato dovrebbe intuire la filosofia per misericordia di Dio. Grazie a questo nuovo stile di vita egli può ritrovare la Parola Perduta, lo stato d’essere dell’uomo originale prima della caduta.

Mi auguro che quanto detto possa trovare una eco negli animi di coloro che seriamente cercano la risposta a quell’inquietante massa di domande che è la vita.

Emanuele Maffia

LA FORZA DEL NOME: LA PREGHIERA DI GESÚ NELLA SPIRITUALITÁ ORTODOSSA

LA FORZA DEL NOME: LA PREGHIERA DI GESÚ NELLA SPIRITUALITÁ ORTODOSSA

 Kallistos Ware

(Traduzione di Eduardo Ciampi)

 

Preghiera e Silenzio

“Quando pregate,” è stato detto saggiamente da uno scrittore Ortodosso, “voi stessi dovete essere silenziosi… Siete voi a dover far silenzio; per far sì che sia la preghiera a parlare.”[1] Ottenere silenzio: questa è di tutte le cose la più difficile e la più determinante nell’arte della preghiera. Il silenzio non è soltanto negativo – una pausa tra le parole, una temporanea interruzione del discorso – ma, compreso nel modo giusto, è assai positivo: un atteggiamento di pronta allerta, di vigilanza e soprattutto di ascolto. L’esicasta, l’uomo che ha ottenuto l’hesychia, tranquillità e silenzio interiore, è per eccellenza uno che ascolta. Ascolta la voce della preghiera proprio nel suo cuore, e comprende che questa voce non è la propria ma quella di Un Altro che parla per lui.

     La relazione tra preghiera e mantenimento del silenzio si farà più chiara se prenderemo in considerazione quattro brevi definizioni. La prima è del Dizionario Conciso Oxford, che descrive la preghiera come “… solenne richiesta a Dio…. formula utilizzata nel pregare.” La preghiera viene qui considerata come un qualcosa espresso in parole, e più specificamente quale atto di richiesta a Dio per ottenere un qualche beneficio. Siamo ancora a un livello di preghiera esterna più che interna. Pochi potrebbero rimanere soddisfatti da tale definizione.

     La nostra seconda definizione, da uno starets russo dello scorso secolo, è assai meno esteriore. Nella preghiera, dice il Vescovo Teofane il Recluso (1815-1894), “la cosa principale è stare dinnanzi a Dio con la mente nel cuore, e continuare a strare dinnanzi a Lui senza posa giorno e notte, sino alla fine della vita.”[2] La preghiera definita in tal modo, non è soltanto un chiedere qualcosa, anzi può sussistere senza l’impiego di alcuna parola. Non si tratta tanto di una attività momentanea quanto di uno stato continuo. Pregare significa stare dinnanzi a Dio, entrare in immediata e personale relazione con Lui; significa conoscere ad ogni livello del nostro essere, dall’istintivo all’intellettivo, dal sub- al super-conscio, che siamo in Dio e Lui è in noi. Affermare e approfondire le nostre relazioni personali con altri esseri umani, non significa necessariamente stare in continuazione a far richieste o usare parole; più riusciamo a conoscere e ad amare un altro, meno avremo bisogno d’esprimere verbalmente quel nostro rapporto reciproco. Lo stesso vale nella nostra relazione personale con Dio.

     In queste due prime definizioni, l’accento è posto principalmente su ciò che viene fatto dall’uomo piuttosto che da Dio. Tuttavia nella relazione personale della preghiera, è il partner divino e non quello umano a prendere l’iniziativa, e la sua azione è fondamentale. Ciò emergerà dalla nostra terza definizione, presa da San Gregorio del Sinai (+ 1346). In un elaborato passo, dove egli carica un epiteto sopra l’altro nello sforzo di descrivere la vera realtà della preghiera interiore, conclude improvvisamente con inattesa semplicità: “Perché parlare a lungo? La preghiera è Dio, è Lui che muove ogni cosa in tutti gli uomini.”[3] La Preghiera è Dio – non è qualcosa che inizio, ma qualcosa che condivido; fondamentalmente non è qualcosa che faccio, ma che Dio sta facendo in me: in San Paolo la frase, “non io, ma Cristo in me” (Gal. 2:20). Il sentiero della preghiera interiore è esattamente indicato nelle parole di San Giovanni Battista riguardo al Messia: “Egli deve crescere, e io invece diminuire” (Giovanni 3:30). E’ in tal senso che pregare significa stare in silenzio. “Sei proprio tu quello che deve stare in silenzio; lascia che sia la preghiera a parlare” – o più precisamente lascia parlare Dio. Vera preghiera interiore significa finire di parlare e ascoltare la voce senza parole di Dio che è nel nostro cuore; vuol dire cessare di fare le cose per nostro conto, ed entrare nell’azione di Dio. All’inizio della Liturgia Bizantina, quando i preparativi preliminari sono stati completati e tutto è pronto per l’inizio dell’Eucaristia vera e propria, il diacono si accosta al sacerdote e dice: “E’ giunta l’ora in cui il Signore agisce.”[4] Proprio questo è l’atteggiamento del fedele non soltanto alla Liturgia Eucaristica, ma in tutte le preghiere, pubbliche o private.

     La nostra quarta definizione, presa anche stavolta da San Gregorio del Sinai, indica più definitivamente il carattere di questa azione del Signore dentro di noi. “La preghiera”, egli dice, “è la manifestazione del Battesimo.”[5] L’azione del Signore non è naturalmente limitata soltanto ai battezzati; Dio è presente e opera all’interno di tutti gli uomini, in virtù del fatto che ciascuno è creato secondo la Sua immagine e somiglianza divina. Tuttavia quest’immagine è stata oscurata e resa opaca, ma non del tutto rimossa, dalla caduta dell’uomo nel peccato. La restaurazione al suo primitivo splendore e alla sua bellezza avviene attraverso il sacramento del Battesimo, in modo tale che Cristo e lo Spirito Santo vengano a dimorare in quel che i Padri chiamano “l’intima e segreta camera del nostro cuore.” Per gran parte della maggioranza, tuttavia, il Battesimo è qualcosa ricevuto nell’infanzia, di cui non si ha alcuna memoria cosciente. Sebbene il Cristo battesimale e il Paracleto interiore non cessino mai di lavorare in noi neanche per un momento, salvo che in rare occasioni, la maggior parte di noi rimane virtualmente inconsapevole di tale presenza e attività interiore. La vera preghiera, quindi, significa riscoperta e ‘manifestazione’ di tale grazia battesimale. Pregare significa passare dallo stato in cui la grazia è presente nei nostri cuori segretamente e inconsciamente, al punto di piena percezione interiore e piena consapevolezza, quando sperimentiamo e sentiamo l’attività dello Spirito in modo diretto e immediato.

     “Nel mio inizio è la mia fine”. Lo scopo della preghiera può essere riassunto nella frase, “Diventa quel che sei.” Diventa, coscientemente ed attivamente, quel che già sei potenzialmente e segretamente, in virtù della tua creazione a immagine divina e della rigenerazione nel Battesimo. Diventa quel che sei: più esattamente, torna in te stesso; scopri Colui che è già tuo; ascolta Colui che non cessa ma di parlare dentro di te; possiedi Colui che già da adesso possiede te, Tale è il messaggio di Dio ad ognuno che vuole pregare: “Non mi cercheresti se mi avessi già trovato.”

Ma come cominciare? Come possiamo imparare a fermare le parole e cominciare ad ascoltare? Invece di parlare semplicemente a Dio, come possiamo fare propria la preghiera in cui Dio ci parla? Come passeremo dalla preghiera espressa in parole alla preghiera del silenzio, dalla preghiera ‘attiva’ a quella ‘auto-agente’, dalla ‘mia’ preghiera alla preghiera di Cristo in me?

     Un modo per intraprendere questo viaggio interiore è attraverso l’Invocazione del Nome.

 

“Signore Gesù….”

Naturalmente, non è l’unico modo. Non può esistere alcuna autentica relazione tra persone senza reciproca libertà e spontaneità, e ciò è vero in particolar modo nella preghiera interiore. Non vi sono regole fisse e invariabili, imposte necessariamente su tutti coloro che cercano di pregare; allo stesso modo non esiste una tecnica meccanica, sia fisica che mentale, che sia in grado di costringere Dio a manifestare la Sua presenza. La sua grazia viene sempre conferita come dono gratuito, e non può essere ottenuta automaticamente da un metodo o da una tecnica. L’incontro tra Dio e l’uomo nel regno del cuore è quindi segnato da un’inesauribile varietà di modalità. Vi sono maestri spirituali nella Chiesa Ortodossa che dicono poco o niente riguardo alla Preghiera di Gesù. Tuttavia, anche se non gode di monopolio esclusivo nel campo della preghiera interiore, la Preghiera di Gesù, per innumerevoli cristiani d’oriente, è divenuta nei secoli il sentiero abituale, la strada regale. E non soltanto per cristiani d’oriente:[6] nell’incontro tra Ortodossi ed occidente avvenuto nei trascorsi sessant’anni, probabilmente nessun elemento della tradizione ortodossa ha destato maggior interesse come la Preghiera di Gesù, e nessun particolare libro s’è rivelato così attraente come i Racconti d’un Pellegrino russo. Questa enigmatica opera, virtualmente sconosciuta nella Russia pre-rivoluzionaria, ha avuto un successo formidabile nel mondo non ortodosso e dagli anni ’20 in poi è stato tradotto in moltissime lingue. I lettori di J. D. Salinger ricorderanno l’impatto che ebbe su Franny questo “libretto dalla rilegatura verde pisello.”

     E allora ci chiediamo, dov’è che sta la specifica attrattiva ed efficacia della Preghiera di Gesù? Forse in quattro cose prima di tutto: in primo luogo, nella sua semplicità e flessibilità; in secondo luogo, nella sua completezza; terzo, nel potere del Nome divino; e quarto, nella disciplina spirituale della persistente ripetizione. Ma ora vediamo di ordinare questi punti.

 

Semplicità e Flessibilità

L’invocazione del Nome è una preghiera di straordinaria facilità, accessibile ad ogni cristiano, tuttavia conduce allo stesso tempo ai più profondi misteri di contemplazione. Chiunque si proponga di recitare la Preghiera di Gesù per lunghi periodi di tempo, e ogni giorno, indubbiamente ha bisogno di uno starets, una affidabile guida spirituale. Tali guide sono estremamente rare al giorno d’oggi. Ma coloro che non hanno alcun contatto personale con uno starets potranno ancora praticare questa preghiera senza timore, finché lo fanno soltanto per periodi limitati – inizialmente, per non più di dieci o quindici minuti alla volta – e finché non fanno alcun tentativo di interferire coi ritmi naturali del corpo.

     Non è richiesta alcuna specifica conoscenza o particolare allenamento prima di cominciare la Preghiera di Gesù. All’apprendista novello è sufficiente decidere soltanto di iniziare. “Per camminare è necessario fare il primo passo; per nuotare bisogna gettarsi in acqua. Lo stesso vale per l’Invocazione del Nome. Iniziare a pronunciarlo con adorazione e amore. Avvinghiatevi ad esso. Ripetetelo. Non pensate di stare ad invocare il Nome; pensate soltanto a Gesù in Persona. Pronunciate il Suo Nome in modo lento, dolce, e sommesso.”[7]

     La forma esteriore della preghiera s’impara facilmente. Fondamentalmente consiste nelle parole “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me,” o “Signore Gesù”, o persino solamente “Gesù.” Alternativamente, la forma delle parole potrà essere espansa aggiungendo alla fine “misero peccatore”, accentuando così l’aspetto penitenziale. Talvolta viene inserita un’invocazione della Madre di Dio o dei santi. Unico elemento essenziale ed invariabile è l’inclusione del Nome divino ‘Gesù.’

     Una simile flessibilità c’è per quel che riguarda le circostanze esterne in cui la Preghiera viene recitata. Si possono distinguere due modalità d’uso della Preghiera: ‘libera’ e ‘formale’. Con l’uso ‘libero’ s’intende la recitazione della Preghiera mentre siamo impegnati nelle nostre abituali attività durante la giornata. Si potrebbe dire di quei vari momenti, che altrimenti più di una volta, andrebbero sprecati spiritualmente: quando siamo occupati con alcuni compiti familiari o semi-automatici, come vestirsi, lavarsi, rammendare calzini, dedicarsi al giardaggio; quando camminiamo o guidiamo, quando siamo in fila in attesa dell’autobus o imbottigliati nel traffico; in un momento di calma prima di qualche incontro particolarmente difficile o problematico; quando non riusciamo a dormire o al risveglio, prima di aver riacquisito piena coscienza. Parte del valore distintivo della Preghiera di Gesù sta proprio nel fatto che, a causa della sua radicale semplicità, può essere eseguita in condizioni di distrazione là dove sono impossibili forme di preghiera  più complesse. E’ soprattutto utile in momenti di tensione e di particolare ansia.

     Tale ‘libero’ uso della Preghiera di Gesù ci permette di riempire il vuoto tra il nostro esplicito ‘tempo di preghiera’ – sia durante la Messa che da soli nella nostra stanza – e le normali attività di vita quotidiana. “Pregate senza posa,” insiste San Paolo (1Tess. 5:17): tuttavia com’è possibile questo, dal momento che al contempo abbiamo molte altre cose da fare? Il Vescovo Teofane indica il vero metodo nella sua massima, “Le mani all’opera, la mente e il cuore con Dio.”[8] La Preghiera di Gesù, divenendo grazie alla frequente ripetizione quasi abituale e inconscia, ci aiuta a stare in presenza di Dio, ovunque ci troviamo. Quindi diventiamo come Fratello Lawrence, che era “era più unito a Dio durante le sue attività ordinarie che negli esercizi religiosi.” “E’ una grande delusione,” puntualizzò, “immaginare che l’ora della preghiera debba essere diversa da qualsiasi altra, dal momento che siamo ugualmente preposti ad essere uniti a Dio sia nel lavoro, durante l’orario di lavoro, come nella preghiera, durante l’orario di preghiera.”[9] La ‘libera’ recita della Preghiera di Gesù viene resa più affiancata e potenziata dall’uso ‘formale’, quando concentriamo tutta la nostra attenzione nel proferire la Preghiera, sino ad escludere ogni attività esterna. Qui, ancora una volta, non vi sono rigide regole, ma varietà e flessibilità. Non è essenziale alcuna particolare postura Nella pratica ortodossa la Preghiera viene assai spesso recitata seduti, ma può anche essere pronunciata in piedi o in ginocchio – e persino coricati, in casi di debolezza fisica o malattia. Viene comunemente recitata in completa oscurità o ad occhi chiusi, e non ad occhi aperti dinnanzi a un’icona illuminata da candele o da un lumino votivo. Lo starets Silouan del Monte Athos (1866-1938), quando recitava la Preghiera, aveva l’abitudine di riporre il suo orologio in un armadio per non sentirlo ticchettare, per poi calare il proprio pesante cappuccio monastico a coprire occhi e orecchie.[10]

      Tuttavia, l’oscurità può avere effetti soporiferi! Se tendiamo ad appisolarci quando recitiamo la Preghiera seduti o in ginocchio, allora dovremmo alzarci in piedi per po’. Potremmo addirittura fare una prostrazione ogni tanto, toccando il suolo con la fronte. La preghiera potrà anche essere recitata in piedi.

     Unitamente alla Preghiera, viene spesso impiegato un cordone di preghiera o un rosario, solitamente con cento nodi, non tanto per contare il numero delle volte che viene ripetuta, quanto piuttosto come aiuto alla concentrazione e alla realizzazione di un ritmo regolare. La misurazione quantitativa, sia con un cordone da preghiera che in altri modi, non viene incoraggiata. E’ vero che, nella prima parte dei Racconti d’un Pellegrino russo, viene data grande enfasi dallo starets sul numero preciso delle volte che la Preghiera va fatta quotidianamente. Probabilmente il punto qui non è la semplice quantità ma l’atteggiamento interiore del Pellegrino: lo starets desidera testimoniare la sua obbedienza e la sua prontezza ad applicare una regola definita senza deviazioni. Più preciso è il consiglio del Vescovo Teofane: “Non preoccupatevi del numero di volte che pronunciate la Preghiera. Lasciate che la vostra unica cura sia ch’essa fluisca dal vostro cuore con la forza di una fontana d’acqua gorgogliante. Levatevi completamente dalla testa qualsiasi pensiero di quantità.”

       La Preghiera talvolta viene recitata in gruppo, ma più comunemente in maniera individuale; nella recitazione non dovrebbe esservi nulla di forzato o di faticoso. Le parole non andrebbero formate con eccessiva enfasi o con violenza interiore, ma si dovrebbe lasciare che Preghiera stabilisca il proprio ritmo e l’accentuazione, così che col tempo riesca a ‘cantare’ dentro di noi in virtù della sua melodia intrinseca. Lo starets Parfenio di Kiev collegò il movimento fluente della Preghiera ad una energia fatta d’un lieve mormorio.[11]

     Da tutto ciò si può comprendere che l’invocazione del Nome è una preghiera per tutte le stagioni. Può essere usata da chiunque, ovunque e ognora. E’ adatta al ‘novizio’ come al più esperto; può essere offerta in compagnia d’altri o da soli; è ugualmente appropriata nel deserto come nella città, sia in ambiente tranquillo che in mezzo al peggior rumore e alla confusione. Non è mai fuori luogo.

 

Completezza

Teologicamente, come sostiene giustamente il Pellegrino russo, la Preghiera di Gesù “contiene tutta la verità del Vangelo”: è “una sintesi dei Vangeli.”[12] In una breve frase enuclea i due principali misteri della fede cristiana, l’Incarnazione e la Trinità. Parla in primo luogo, delle due nature di Cristo il Dio-uomo (Theanthropos): della Sua umanità, dal momento che viene invocato nel suo nome umano, “Gesù”, che Sua Madre Maria Gli diede dopo la Sua nascita a Betlemme; della Sua eterna Natura Divina, dal momento che viene anche apostrofato come “Signore” e “Figlio di Dio.” In secondo luogo, la Preghiera parla implicitamente, anche se non esplicitamente, delle tre Persone della Trinità. Pur se indirizzata alla seconda Persona, Gesù, è riferita al Padre, poiché Gesù viene chiamato “Figlio di Dio; inoltre lo Spirito Santo viene altresì presentato nella Preghiera, dal momento che “nessun uomo può dire ‘Signore Gesù,’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor. 12:3). Quindi la Preghiera di Gesù è sia Cristocentrica che Trinitaria.

     Anche a livello devozionale non è meno completa. Abbraccia i due principali ‘momenti’ della devozione cristiana: il ‘momento’ dell’adorazione, in cui si alza lo sguardo alla gloria Dio e si tende a Lui nell’amore, e il ‘momento’ di penitenza, il senso di inadeguatezza e di peccato. All’interno della Preghiera c’è un movimento circolare, una sequenza di ascesa e ritorno. Nella prima metà della Preghiera saliamo a Dio: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio…”; e poi nella seconda metà torniamo alla nostra compunzione: “…abbi pietà di me misero peccatore”.

     Questi due ‘momenti’ – la visione della gloria divina e la consapevolezza della peccato umano – vengono uniti e riconciliati in un terzo ‘momento’ quando pronunciamo la parola ‘pietà.’ “Pietà” serve a stabilire un ponte tra la giustizia di Dio e la creazione decaduta. Colui che dice Dio, “abbi pietà,”denuncia la propria impotenza, ma sta al contempo a testimoniare un grido di speranza. La Preghiera di Gesù non contiene soltanto un richiamo di pentimento, ma un’assicurazione di perdono e di salvezza. Il cuore della Preghiera – per l’esattezza il nome “Gesù” – ha propriamente in sé il senso di salvezza: “ E tu Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il Suo popolo dai peccati” (Matteo 1:21).

     Queste sono dunque alcune delle ricchezze, sia teologiche che devozionali, presenti nella Preghiera di Gesù; presenti, peraltro, non soltanto in astratto ma in forma vivificante e dinamica. Il valore speciale della Preghiera di Gesù sta nel fatto che rende vive queste verità, in modo tale da poter essere apprese non solo esternamente e teoreticamente ma con tutta la pienezza del nostro essere. Per capire il perché dell’efficacia della Preghiera di Gesù, dobbiamo prendere in considerazione due ulteriori aspetti, la forza del Nome e la disciplina della ripetizione.

 

La Forza del Nome

“Il Nome del Figlio di Dio è grande e illimitato, e racchiude l’intero universo.” Così viene affermato nel Pastore di Hermas,[13] ma non apprezzeremo il ruolo della Preghiera di Gesù se non sentiamo nel Nome divino un certo senso di intrinseca forza e virtù. Se la Preghiera di Gesù è più efficace che altre invocazioni, ciò è dovuto al fatto che contiene il Nome di Dio.

     Nel Vecchio Testamento, come in altre antiche culture, c’è un’identità virtuale tra l’anima di un uomo ed il suo nome. La sua personalità intera, con tutte le sue peculiarità e la sua energia, è presente nel suo nome. Conoscere il nome di una persona significa avere una chiara visione della sua natura, e quindi acquisire una stabile relazione con lui – persino, forse, un certo controllo su di lui. Ecco perché il misterioso messaggero che lotta con Giacobbe presso il ruscello Iabbok rifiuta di rivelare il suo nome (Genesi 32:29). Lo stesso atteggiamento viene riflesso nella replica dell’angelo di Manoach, “Perché mi chiedi il nome? Esso è misterioso” (Giudici 13:18). Un cambiamento di nome indica un decisivo cambiamento nella vita dell’uomo, come quando Abramo diventa Abraham (Genesi 17:5), o Giacobbe diventa Israel (Genesi 32: 28). Allo stesso modo, Saulo dopo la sua conversione diventa Paolo (Atti 13:9); inoltre ad un monaco, alla sua professione, viene dato un nuovo nome, di solito non a sua scelta, ad indicare il radicale rinnovamento intrapreso.

     Nella tradizione ebraica, fare una cosa a nome di un altro, o invocare e appellarsi al suo nome sono atti di notevole peso e forza. Invocare il nome di una persona significa fare sì che tale persona sia presente. Ogni cosa che è vera dei nomi umani è vera, a un grado incomparabilmente più elevato, al Nome divino. La forza e la gloria di Dio sono presenti e attivi nel Suo Nome. Il Nome di Dio è numen presens, Dio con noi, Emmanuel. Invocare con deliberata diligenza il Nome di Dio significa porsi dinnanzi alla Sua presenza, aprirsi alla Sua energia, offrirsi come strumento e sacrificio vivente nelle Sue mani. Il senso della maestà del Nome divino era così acuto nel tardo Giudaismo che, nella preghiera della sinagoga, il tetragrammaton non veniva pronunciato ad alta voce: il Nome dell’Altissimo era considerato troppo devastante per essere pronunciato apertamente. [14]

     Tale comprensione ebraica del nome passa dal Vecchio Testamento al Nuovo. I demoni vengono scacciati e gli uomini guariti grazie al Nome di Gesù, poiché il Nome è forza. Una volta che tale forza del Nome verrà debitamente apprezzata, molti brani noti acquisteranno maggior vigore e pienezza: la frase nella Preghiera del Padre nostro “Sia benedetto il Tuo Nome”; la promessa di Cristo all’Ultima Cena, “Se chiederete qualcosa al Padre nel mio Nome, Egli ve la darà” (Giovanni 16:23); il Suo finale comandamento agli Apostoli, “Andate dunque, e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel Nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo” (Matteo 28:19); l’annuncio di San Pietro che v’è salvezza soltanto nel “Nome di Gesù Cristo di Nazareth” (Atti 4: 10-12); le parole di San Paolo, “Al Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi” (Filippesi 2:10); il nuovo e segreto nome scritto sulla pietruzza bianca che ci sarà data nel Mondo che Verrà (Apocalisse 2:17).

     E’ questa biblica riverenza per il Nome di Gesù che forma le basi e le fondamenta della Preghiera di Gesù. Il Nome di Dio è essenzialmente collegato alla Sua Persona, e così l’Invocazione del Nome divino possiede un carattere genuinamente sacramentale, fungendo da segno efficace della Sua invisibile presenza ed azione. Per il credente cristiano di oggi, come nei tempi apostolici, il nome di Gesù è forza. Nelle parole dei due Anziani di Gaza, San Barsanufio e San Giovanni (6° secolo), “La rimembranza del Nome di Dio distrugge completamente tutto ciò ch’è male.” “Mettete in fuga i vostri nemici con Nome di Gesù,” insiste San Climaco, “poiché non v’è arma più potente in cielo e in terra… Fate che la rimembranza di Gesù sia unita ad ogni vostro respiro, e allora conoscerete il valore della quiete.”[15]

     Il Nome è forza, tuttavia una ripetizione puramente meccanica in se stessa non produrrà nulla. Come nelle operazioni sacramentali, all’uomo viene chiesto di cooperare con Dio attraverso la sua fede attiva e uno sforzo ascetico. Siamo chiamati ad invocare il Nome nel ricordo e nella vigilanza interiore, confinando le nostre menti all’interno delle parole della preghiera, consapevoli che ciò che stiamo indirizzando e colui che ci risponde si trova nel nostro cuore. San Gregorio del Sinai parla ripetutamente di “sforzo e fatica” affrontate da coloro che seguono la Via del Nome; è necessario uno “sforzo continuo.”

     Questa fiduciosa perseveranza prende forma, soprattutto, da una attenta e frequente ripetizione. Cristo disse ai Suoi discepoli di non usare “vane ripetizioni” (Matteo 6:7); ma la ripetizione della Preghiera di Gesù, quando eseguita con sincerità e concentrazione interiore, non è affatto “vana.” L’atto d’invocazione ripetuta del Nome ha un doppio effetto: rende la nostra preghiera più compatta e allo stesso tempo più interiore.

 

Unificazione

Non appena facciamo un serio tentativo di preghiera in spirito di verità, diveniamo immediatamente consapevoli della nostra disintegrazione interiore, della nostra mancanza di unità e interezza. Nonostante tutti gli sforzi di giungere innanzi a Dio, i pensieri continuano a muoversi senza posa e senza alcun motivo nella nostra testa, come un ronzio di mosche (Vescovo Teofanio) o come un capriccioso affaccendarsi di scimmie da ramo in ramo (Ramakrishna). Contemplare significa, prima di tutto, essere presenti là dove si è, essere qui e ora. Tuttavia, di solito non siamo in grado di costringere la nostra mente a non vagabondare a caso nel tempo e nello spazio. Richiamiamo a mente il passato, anticipiamo il futuro, programmiamo cosa fare dopo; la gente e i luoghi ci si presentano dinnanzi in interminabile successione. Ci manca la forza di concentrarci nel luogo dove dovremmo essere – qui, alla presenza di Dio; e non riusciamo a vivere pienamente nell’unico momento di tempo che esiste davvero – ora, l’immediato presente. Questa disintegrazione interiore è una delle conseguenze più tragiche della Caduta. Le persone che riescono a combinare qualcosa, è stato giustamente osservato, sono persone che fanno una cosa alla volta. Ma fare una cosa alla volta non significa necessariamente di riuscirci. Mentre è abbastanza facile nei lavori esterni, è assai più difficile nel lavoro di preghiera interiore.

     Cosa si deve fare? Come impareremo a vivere il presente, nell’eterno Ora? Come riusciremo ad afferrare il kairos, il momento decisivo, il momento giusto? E’ proprio qui che può essere utile la Preghiera di Gesù. L’invocazione ripetuta del Nome può portarci, con la grazia di Dio, dalla divisione all’unione, dalla dispersione e dalla molteplicità alla semplicità e all’unicità. “Per fermare il continuo sgomitare dei vostri pensieri,” dice il Vescovo Teofanio, “dovete legare la mente ad un unico pensiero, ovvero soltanto al pensiero dell’Uno.”[16]

     I Padri ascetici distinguono due modi di combattere i pensieri. Il primo metodo è per il ‘forte’ o il ‘perfetto.’ Questi sono in grado di contraddire i loro pensieri, cioè, affrontarli faccia a faccia e sconfiggerli in aperta battaglia. Ma per la maggior parte di noi tale metodo è troppo difficile e potrebbe, di contro, arrecarci grave danno. Un confronto diretto, il tentativo di sradicare ed espellere i pensieri con uno sforzo di volontà, spesso serve soltanto a dare maggior forza alla nostra immaginazione. Se soppresse con violenza, le nostre fantasie tendono a tornare con maggior vigore. Invece di combattere i nostri pensieri direttamente e cercare d’eliminarli con uno sforzo di volontà, è più saggio lasciar perdere e fissare altrove la nostra attenzione. Piuttosto che guardare verso il basso nella nostra turbolenta fantasia e provare ad opporsi ai nostri pensieri, faremmo meglio a guardare verso l’alto, in direzione del Signore Gesù, ed affidarci alle Sue mani invocando il Suo Nome; e la grazia che agisce attraverso il Suo Nome sconfiggerà i pensieri che non siamo in grado di eliminare con la nostra forza. La nostra strategia spirituale dovrebbe essere positiva e non negativa: invece di cercare di svuotare la nostra mente di ciò che è male, dovremmo riempirla del pensiero di ciò che è bene. “Non contraddite i pensieri suggeriti dai vostri nemici,” consigliano Barsanufio e Giovanni, “poiché ciò è proprio quello che vogliono e non cesseranno mai di disturbarvi. Ma rivolgetevi al Signore per chiedere aiuto contro di loro, denunciando dinnanzi a Lui la vostra inadeguatezza; dal momento che Egli è in grado di eliminarli riducendoli a nulla.”[17]

     La Preghiera di Gesù, quindi, è una modo per spostare la prospettiva e guardare altrove. Inevitabilmente, pensieri e immagini ci si presentano durante la preghiera. Non possiamo fermare il loro flusso con un semplice esercizio della nostra volontà. Serve davvero a poco dirci, “Fermati pensiero!”; dovremmo allo stesso modo dire, “Fermati respirazione!” La mente razionale non può restare nell’ozio,” dice San Marco il Monaco; i pensieri tendono a riempirla d’un interminabile chiacchiericcio, come un coro d’uccelli all’alba. Ma mentre non siamo in grado di fare scomparire improvvisamente questo chiacchiericcio, quel che possiamo fare è di distaccarci da esso ‘legando’ la nostra mente  sempre attiva “ad un pensiero, ovvero soltanto al pensiero dell’Uno” – il Nome di Gesù. Nelle parole di San Diadoco (5° secolo), “Quando abbiamo bloccato tutti e le vie d’accesso alla mente attraverso il ricordo di Dio, allora ci viene richiesto ad ogni costo qualche compito ch soddisfi la sua necessità di attività. E allora offriamogli come unica attività l’invocazione Signore Gesù…”[18]

     “Attraverso la rimembranza di Gesù Cristo,” afferma Filoteo del Sinai (9/10° secolo), “raccogliete la vostra mente disintegrata che è sparsa ovunque.”[19] Quindi, invece di cercare di fermare la sequenza dei pensieri con le nostre proprie forze, ci affidiamo alla forza che agisce attraverso il Nome.

     Secondo Evagrio di Ponto (+ 399), “La preghiera è un deporre i pensieri.”[20] Deporre i pensieri: non un conflitto selvaggio, non una furiosa repressione, ma un delicato ma persistente atto di distacco. Attraverso la ripetizione del Nome, siamo aiutati a ‘deporre,’ a ‘lasciar andare,’ le nostre banali e perniciose fantasie, e sostituirle con il pensiero di Gesù. Tuttavia, sebbene la fantasia e il ragionamento discorsivo non debbano essere violentemente soppressi quando si recita la Preghiera di Gesù, essi non vanno certo incoraggiati attivamente. La Preghiera di Gesù non è una forma di meditazione su specifici avvenimenti della vita di Cristo, o su alcuni detti o parabole dei Vangeli; ancor meno è un modo di ragionare e dibattere interiormente alcune verità teologiche come il significato di homoousios, ovvero la Definizione di Calcedonia.

     Nel momento in cui invochiamo il Nome, non dovremmo formare deliberatamente nella nostra mente alcuna immagine visuale del Salvatore. Questo è uno dei motivi per cui recitiamo la Preghiera nell’oscurità, piuttosto che con gli occhi aperti dinnanzi a un’icona. “Libera la tua mente dai colori, dalle immagini e dalle forme,” raccomanda San Gregorio del Sinai; nella preghiera fai attenzione alla fantasia (Phantasia) – altrimenti potrai finire per diventare un fantasista più che un esicasta.![21]

 

Interiorità

L’invocazione ripetuta del Nome, rendendo la nostra preghiera più compatta, la fa allo stesso tempo più interiore, più parte di noi stessi – non un qualcosa che facciamo in momenti particolari, ma qualcosa che siamo in ogni momento; non un atto occasionale ma uno stato continuo. Tale modalità di preghiera diventa davvero una preghiera dell’uomo intero, in cui le parole e il significato della preghiera sono totalmente identificati con colui che prega. Tutto ciò viene ben espresso da Paul Evdokimov, recentemente scomparso (1901-70): “Nelle catacombe l’immagine che ricorre più frequentemente è la figura di una donna in preghiera, l’Orans. Essa rappresenta l’unica vera attitudine dell’anima umana. Non è sufficiente possedere la preghiera: dobbiamo diventare preghiera – preghiera incarnata. Non è sufficiente avere momenti di preghiera; l’intera nostra vita, ogni atto e gesto, persino un sorriso, devono diventare un inno di adorazione, un’offerta, una preghiera. Non dobbiamo offrire quel che abbiamo, ma quel che siamo.”[22] Questo è quel che soprattutto è necessario al mondo: non persone che recitano preghiere con maggiore o minore regolarità, ma persone che sono preghiere.

     Il tipo di preghiera che sta qui descrivendo Evdokimov, potrebbe essere esattamente definita come ‘preghiera del cuore.’ Nella Chiesa Ortodossa, come in molte altre tradizioni, la preghiera viene comunemente distinta in tre categorie, che devono essere intese come livelli d’interpretazione piuttosto che stadi successivi: la preghiera delle labbra (preghiera orale); la preghiera della mente (preghiera mentale); la preghiera del cuore (o della mente nel cuore). L’invocazione del Nome ha inizio come ogni altra preghiera come preghiera orale, in cui le parole sono pronunciate dalla lingua attraverso un deliberato sforzo della volontà. Allo stesso tempo, ancora una volta grazie ad una decisione volontaria, concentriamo la mente sul significato di quel che dice la lingua. Nel corso del tempo e con l’aiuto di Dio la nostra preghiera si farà più interiore. La partecipazione della mente diventerà più intensa e spontanea, mente i suoni pronunciati dalla lingua si faranno meno importanti; forse per un periodo di tempo cesseranno del tutto, e il Nome verrà invocato in silenzio, senza alcun movimento delle labbra, soltanto nella mente. Quando arriviamo a ciò, siamo passati per grazia di Dio dal primo livello al secondo. Non che l’invocazione vocale cessi del tutto, dal momento che ci saranno occasioni in cui persino colui ch’è più ‘avanti’ nella preghiera interiore desidererà chiamare il Signore Gesù ad alta voce. (E chi, potrà poi dichiarare di essere ‘avanti’? Siamo tutti ‘principianti’ nelle cose dello Spirito.)

     Tuttavia il viaggio interiore non è comunque completo. Un uomo è molto di più che la propria mente cosciente; oltre alle facoltà cerebrali e razionali vi sono le emozioni e gli affetti, la sensibilità estetica, assieme ai profondi strati istintuali della propria personalità. Tutto ciò ha la sua funzione nell’esecuzione della preghiera, poiché è l’uomo intero ad essere chiamato a partecipare all’atto totale di adorazione. Come una goccia d’inchiostro che cade sulla carta assorbente, l’atto della preghiera dovrebbe espandersi uniformemente oltre il centro cosciente e razionale del cervello, sino ad abbracciare ogni parte di noi stessi.

     In termini più tecnici, ciò significa che siamo chiamati ad avanzare dal secondo livello al terzo: dalla ‘preghiera della mente’ alla ‘preghiera del cuore.’ In questo contesto il ‘Cuore’ dev’essere inteso in senso semitico e biblico e non nell’accezione moderna, il che significa non solo le emozioni e gli affetti ma la totalità della persona umana. Il cuore è l’organo primario dell’essere dell’uomo, “proprio il più profondo e il più vero sé, che si ottiene soltanto col sacrificio, attraverso la morte.”[23] Secondo Boris Vysheslavtsev, è “il centro non solo della consapevolezza ma anche dell’inconscio, non solo dell’anima ma dello spirito, non solo dello spirito ma del corpo, non solo del comprensibile ma anche dell’incomprensibile; in una parola, è il centro assoluto.”[24] Interpretato in tal modo, il cuore è assai più di un organo materiale all’interno del corpo; il cuore fisico è un evidente simbolo delle illimitate potenzialità spirituali della creatura umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio.

     Per realizzare il viaggio interiore ed ottenere la vera preghiera, è necessario entrare dentro questo ‘centro assoluto,’ cioè, scendere dalla mente al cuore. Per essere più precisi, siamo chiamati a discendere non dalla mente ma con la mente. Lo scopo non è soltanto la ‘preghiera del cuore’ ma la ‘preghiera della mente nel  cuore,’ dal momento che le nostre forme di comprensione cosciente, inclusa la ragione, siano un dono di Dio e debbano essere usate a Suo servizio, non rifiutate. Questa “unione della mente col cuore” significa la reintegrazione dell’uomo decaduto e della natura frammentata, la sua restaurazione all’originale unità. La preghiera del cuore è un ritorno al Paradiso, un’inversione della Caduta, un recupero dello status ante peccatum. Ciò significa che siamo di fronte a una realtà escatologica, una garanzia e un’anticipazione dell’Era a Venire – qualcosa che, nella presente epoca, non viene mai pienamente e interamente realizzata.

     Coloro che, per quanto in maniera imperfetta, hanno realizzato in una certa misura la ‘preghiera del cuore,’ hanno cominciato a compiere quel passaggio di cui palavamo prima – il passaggio dalla preghiera ‘attiva’ a quella ‘che agisce da sé,’ dalla preghiera che pronuncio alla preghiera che ‘parla da sé’ o piuttosto, che Cristo pronuncia dentro di me. Il Cuore ha infatti un doppio significato nella vita spirituale; è sia centro dell’essere dell’uomo che punto d’incontro tra uomo e Dio. E’ sia luogo di auto-conoscenza, dove l’uomo vede se stesso così come realmente è, che luogo di auto-trascendenza, dove l’uomo comprende la sua natura quale tempio della Santa Trinità, dove l’immagine viene faccia a faccia con l’Archetipo. Nella ‘camera interna’ del proprio cuore egli trova le fondamenta del suo essere e quindi attraversa la misteriosa frontiera tra creato e Increato. “Nel cuore vi sono profondità insondabili,” affermano le Omelie di Macario. “.. Iddio è là con gli angeli, luce e vita si trovano là, il regno e gli apostoli, le città celesti e i tesori della grazia: sono tutte lì.”[25]

     La preghiera del cuore sta dunque a designare il punto in cui ‘la mia’ azione, ‘la mia’ preghiera, finiscono esplicitamente ad identificarsi alla continua azione di Un altro in me. Non è più la preghiera a Gesù, ma la preghiera di Gesù Stesso. Il passaggio da preghiera ‘sotto sforzo’ ad ‘auto-agente’ viene nettamente indicato ne La Via di un Pellegrino russo: “Una mattina all’alba, poteri dire che fu la Preghiera ha destarmi.”[26]

     Finora il Pellegrino si era impegnato a ‘dire la Preghiera’; ora si accorge che la Preghiera ‘procede da sola,’ persino quando dorme, poiché è diventata tutt’uno con la preghiera di Dio dentro di lui.

     I lettori de La Via di un Pellegrino russo potranno averel’impressione che questo passaggio dalla preghiera orale alla preghiera del cuore si possa ottenere facilmente, quasi in maniera meccanica ed automatica. E’ bene che sia enfatizzato che tale esperienza, per quanto non unica,[27] è comunque eccezionale. Più spesso la preghiera del cuore si realizza, se mai avviene, solo dopo una vita di duro impegno ascetico. E’ dono gratuito di Dio, elargito quando e come Egli vuole, e non l’inevitabile effetto di qualche tecnica. San Isacco il Siriano (7° secolo) sottolinea l’estrema rarità del dono quando dice che “appena uno su diecimila” può considerarsi degno del dono della pura preghiera, e aggiunge: “Per quel che riguarda il mistero che sta al di là della pura preghiera, è difficile da trovare in un singolo uomo su una generazione che si sia accostato a tale conoscenza della grazia di Dio.”[28] Uno su diecimila, un singolo uomo su una generazione: per quanto raffreddati da tale ammonimento, non dovremmo comunque scoraggiarci. Il cammino verso il regno interiore resta aperto dinnanzi a tutti, e tutti senza distinzione potranno trovare la propria via su di esso. Nella presente epoca, sono pochi a sperimentare con una certa pienezza i misteri più profondi del cuore, tuttavia sono davvero molti a ricevere in modo più modesto e intermittente veri e propri lampi di ciò che viene espresso dalla preghiera spirituale.

 

La fine del viaggio

Lo scopo della Preghiera di Gesù, come di tutte le preghiere cristiane, è che il nostro pregare venga ad essere progressivamente identificato con la preghiera offerta da Gesù, Sacerdote Supremo ch’è dentro di noi, che la nostra vita diventi tutt’uno con la Sua vita, che il nostro respiro s’assimili al Respiro Divino che sostiene l’universo. L’obiettivo finale potrà essere adeguatamente descritto dal termine Patristico theosis, ‘deificazione’ ovvero ‘divinizzazione.’ Nelle parole dell’Arciprete Serjei Bulgakov, “Il Nome di Gesù, presente nel cuore umano, conferisce ad esso il potere della deificazione.” “Il Logos si fece uomo,” dice San Attanasio, “per poterci rendere divini.” Colui che è Dio per natura prese la nostra umanità, così che noi uomini potessimo condividere la grazia insita alla Sua divinità, diventando “partecipi della natura divina” (2 Pietro 1:4). La preghiera di Gesù, rivolta al Logos incarnato, è un mezzo per la realizzazione dentro di noi di questo mistero della theosis, col quale l’uomo perviene alla vera somiglianza di Dio.

     La Preghiera di Gesù, unendoci a Cristo, ci aiuta a condividere in reciproca coabitazione ovvero in perichoresis, le tre Persone della Santa Trinità. Più la Preghiera diventa parte di noi stessi, più entriamo nel moto dell’amore che passa incessantemente da Padre, Figlio e Spirito Santo. Nella tradizione esicasta, il mistero della theosis ha molto spesso assunto la forma esteriore di una visione di luce. Questa luce che i santi vedono in preghiera non è una luce simbolica dell’intelletto, né di tipo sensibile, fisica e creata. Non è altro che la Luce divina non creata della Natura Divina, che splendeva da Cristo alla Sua Trasfigurazione sul Monte Tabor e che l’Ultimo Giorno illuminerà il mondo intero alla Sua seconda venuta. Ecco un passo caratteristico della Luce Divina tratto da San Gregorio Palamas. Egli descrive la visione dell’Apostolo quando fu preso ed innalzato al terzo cielo (2 Cor. 12:2-4): “Paolo vide una luce incommensurabile, sia sotto che sopra o lateralmente; non vedeva alcun limite nella luce che gli apparve brillare attorno a sé, ma era come un sole infinitamente più luminoso e più vasto dell’universo; e nel mezzo del sole stava lui, trasformato in una sorta di occhio.”[29] Tale è la visione di gloria a cui possiamo accedere attraverso l’invocazione del Nome.

     La Preghiera di Gesù fa sì che lo splendore della Trasfigurazione penetri in ogni angolo della nostra vita. La ripetizione costante ha due effetti sull’autore anonimo de La Via di un Pellegrino russo. In primo luogo, trasforma il suo rapporto con la creazione materiale attorno a lui, rendendo trasparente ogni cosa, considerata come sacramento della presenza di Dio. Si legge: “Quando pregavo col cuore, ogni cosa attorno a me sembrava deliziosa e meravigliosa. Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria , la luce sembravano dirmi che esistevano per il bene dell’uomo, che testimoniavano l’amore di Dio per l’uomo, che ogni cosa era una prova dell’amore di Dio per l’uomo, che ogni cosa pregava Dio e intonava a Lui una lode. Fu così che venni a comprendere ciò che la Filocaliadefinisce ‘la conoscenza della parola di ogni creatura.’… Avvertii un amore bruciante per Gesù Cristo e per le creature di Dio.”[30] Nelle parole di Padre Bulgakov, “Splendendo attraverso la terra, la luce del Nome di Gesù illumina tutto l’universo.”[31]

     In secondo luogo, la Preghiera trasfigurò non solo il rapporto del pellegrino con la creazione materiale, ma anche con gli altri uomini. “Mi rimisi in viaggio per i miei pellegrinaggi. Ma ora non procedevo più come prima, pieno di preoccupazione. Era l’invocazione del Nome di Gesù a rallegrare la mia via. Erano tutti gentili con me, come se tutti mi amassero… Se qualcuno mi facesse del male devo soltanto pensare, ‘Com’è dolce la Preghiera di Gesù!’ e ferita e rabbia se ne andrebbero via, dimenticate in un baleno.”[32] “Nella misura in cui lo hai fatto ad uno dei miei fratelli minori, lo hai fatto a Me” (Matteo 25:40): la Preghiera di Gesù ci aiuta a vedere Cristo in tutti gli uomini, e tutti gli uomini in Cristo. La Preghiera di Gesù, perciò, non è una fuga o una negazione del mondo, di contro è intensamente affermativa. Non implica un rifiuto della creazione di Dio, ma la riaffermazione del valore ultimo di ogni cosa e ognuno in Dio.

     “La preghiera è azione; pregare significa essere incisivamente efficaci.”[33] Tra tutte le preghiere ciò è particolarmente vero della Preghiera di Gesù. Anche se ne viene fatta menzione nell’officio della professione monastica quale preghiera di monaci e suore,[34] è egualmente una preghiera adatta ai laici, alle coppie sposate, ai dottori e agli psichiatri, ai lavoratori sociali e ai conduttori di autobus. L’invocazione del Nome, ben praticata, coinvolge ciascuno più profondamente nei propri specifici compiti, rendendolo più efficiente nelle azioni, senza tagliarlo fuori dagli altri ma collegandolo ad essi, rendendolo sensibile alle loro paure e alle ansie in un modo che prima non si era mai verificato. La Preghiera di Gesù rende ciascuno un ‘uomo per gli altri,’ uno strumento vivente della pace di Dio, un centro dinamico di riconciliazione.

 



[1] Tito Collinander, The Way of the Ascetics (Londra, 1960), pag. 79.

[2] Citato da Igumen Chariton di Valamo, The Art of Prayer: An Orthodox Anthology (Londra, 1966), pag. 63.

[3] Capitoli, 113 (PG 150, 1280A). Si veda Kallistos Ware, ‘The Jesus Prayer in St. Gregory of Sinai,’ Eastern Churches Review (1972), pag. 8.

[4] Una citazione dal Salmo 118 [119]: 126. In alcune versioni inglesi della Liturgia ciò viene tradotto con “E’ tempo di fare [sacrificio] per il Signore”, ma la resa alternativa che abbiamo usato è più ricca di significato e viene preferita da molti commentatori ortodossi. L’originale greco usa la parola kairos: “E’ il kairos per il Signore d’agire.” Kairos ha qui lo speciale significato del momento decisivo , il momento opportuno: colui che prega coglie il kairos. E’ un punto questo su cui dovremo tornare.

[5] Capitoli, 113 (PG 150, 1277D).

[6] E’ esistita naturalmente una fervente devozione per il Sacro Nome di Gesù  nell’occidente medievale, e non solo in Inghilterra. Se ciò pone alcuni punti di differenza rispetto alla tradizione bizantina della Preghiera di Gesù, non mancano palesi parallelismi.

[7] ‘Un monaco della Chiesa d’Oriente’ [Lev Gilet], On the Invocation of the Name of Jesus (The Fellowship of St. Alban and St. Sergius, Londra, 1950), pagg. 5-6 (ristampato da SLG Press, 1970, pagg. 2-3).

[8] The Art of Prayer, pag. 92.

[9] Fratello Lawrence della Resurrezione (1611-91), Carmelitano Scalzo, The Practice of the Presence of God, ediz. D. Attwater (Paraclete Books, Londra, 1962), pagg. 13, 16.

[10] Archimandrite Sofronio, The Undistorted Image: Atarez Silouan (Londra, 1958), pagg. 40-41.

[11] The Art of Prayer, pag. 10.

[12] Racconti d’un Pellegrino Russo (Rusconi – 1977).

[13] Similitudini, ix, 14.

[14] Per la venerazione del Nome tra i cabalisti ebraici medievali, si veda Gershom Scholem, Major trends in Jewish Mysticism (3a edizione, Londra, 1955), pagg. 132-3; e si metta a confronto la trattazione di questo tema al pregevole romanzo di Charles Williams, All Hallows’ Eve (Londra, 1945).

[15] La Scala, 21 e 27 (PG 88, 945C e 1112C).

[16] The Art of Prayer, Pag.97.

[17] Questions and Answers, edizioni Sotirios Schoinas, 91.

[18] A Hundred Texts on Knowledge and Discernment, 59 (ediz. E. des Places, Sources chretiennes, 5bis [Parigi]), pag. 119.

[19] Capitoli, 27 (Filocalia, vol ii [Atene, 1958], pag. 283).

[20] On Prayer, 70 (PG 79, 1181C).

[21] How the hesichast should preserve in prayer, 7 (PG 150, 1340D).

[22] Sacremente de l’amour. Le mystère conjugal a la lumiere de la tradition ortodoxe (Parigi, 1962), pag. 83.

[23] Richard Kehoe, OP, “The Scriptures as Word of God,” The Eastern Churches Quarterly viii (1947), edizione supplementare su “Tradizione e Scrittura,” pag. 78.

[24] Citato in John B. Dunlop, Staretz Amvrosy: Model for Dostoevsky’s Starets Zossima (Belmont, Mass., 1972), pag. 22.

[25] Hom. xv, 32 e xliii, 7 (ediz. Dorries/Klostermann/Kroeger [Berlino, 1964], pagg. 146, 289).

[26] La Via di un Pellegrino russo, pag. 14.

[27] Lo starets Silouan del Monte Atos ha praticato esclusivamente la Preghiera di Gesù per tre settimane prima che scendesse nel cuore e diventasse senza posa. Il suo biografo, Archimandrite Sofrony, giustamnente evidenzia che si trattò di un “dono sublime e raro”; soltanto in seguito Padre Silouan riuscì ad apprezzare quanto fosse insolito (The Undistorted Image, pag. 24).

[28] Mystic Treatises by Isaac of Nineveh (Amsterdam, 1923), pag. 113.

[29] Triads in Defense of Holy Hesychasts, I, iii, 21 (ediz. Meyendorff, col. I, pag. 157).

[30] La Via di un Pellegrino russo

[31] The Orthodox Church, pag. 171.

[32] La Via di un Pellegrino russo

[33] Tito Collander, The Way of the Ascetics, pag. 71.

[34] All’investitura di un monaco, sia nella pratica russa che greca, è abitudine offrirgli una corda per preghiera. Nell’uso russo l’abate pronuncia le seguenti parole mentre gliela porge: “Prendi, fratello, la spada dello Spirito, che è Parola di Dio, per la preghiera continua a Gesù; poiché devi sempre avere il Nome del Signore Gesù nella mente, nel cuore, e sulle labbra, dicendo sempre: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me misero peccatore.” Si veda N. F. Robinson, SSJE, Monasticism in the Orthodox Churches (Londra/Milwaukee, 1916), pagg. 159-60. Si noti la solita distinzione tra i tre livelli della preghiera: labbra, mente, cuore.

LO SPIRITO DELL’UOMO PREMODERNO

Capitolo I

Lo spirito dell’uomo premoderno

Definire lo stereotipo dell’uomo vissuto in una determinata epoca, civiltà o popolo è, generalmente, compito dello storico. Ma quando si voglia tracciarne i caratteri e le affinità da un punto di vista ideologico, filosofico e umanistico, perfino religioso, rinchiudendolo in un recinto culturale delimitato, questo diventa assai più arduo e più complesso; crediamo perfino ingiusto e limitativo. Tali e tante sono le diversità e le particolarità tra individui, che in nessuna epoca si è potuta riscontrare una totale omogeneità dei singoli caratteri umani e ideologici. E’ vero, peraltro, che se si generalizza il concetto e si parla di spirito ideologico predominante, o di indirizzo e direzione verso cui tende tale spirito, in grado cioè di influenzare e determinare il pensiero e la morale dei più, allora si riescono a trovare analogie e assonanze, non solo tra singoli individui, ma anche tra civiltà e popoli delle diverse epoche. Ma è altrettanto vero che il valore aggiunto di queste ideologie predominanti è rappresentato dall’uomo singolo e da lui solamente, attraverso la sua visione universale delle cose umane, la sua creatività, la sua capacità di distinguersi dal luogo comune e dal pensiero di massa. Questi uomini eccezionali sono coloro che hanno consentito, in ogni epoca, di mantenere vivo e critico il dibattito culturale, facendo in modo che l’ideologia predominante non assumesse caratteri dogmatici e assolutistici. Questi uomini sono stati dichiarati molto spesso eretici dai loro contemporanei, martiri e santi dalle generazioni future. Essi hanno contribuito allo sviluppo critico del pensiero dell’uomo, della sua libertà e della sua dignità, permettendogli di avere una visione d’insieme più articolata e completa, non definitiva, del suo percorso verso il futuro. L’auspicio è che in ogni tempo nascano nuovi eretici, vivano e operino all’interno e nell’interesse della società e dello stato, in grado di apportare quell’elemento di criticità, ma anche di novità e di scandalo, quando necessario. In grado, cioè, di risvegliare le coscienze intorpidite, affinché possa nascere, in un prossimo futuro, l’”Uomo nuovo”, ovvero colui che sappia conservare il suo dono più prezioso e, nella sua metamorfosi, da artigiano sappia divenire artista. Definire l’uomo premoderno, dunque, significa collocarlo all’interno di una ideologia graduata e temporale, generalizzandone il contesto e cercando di estrapolarne gli aspetti e i caratteri più significativi, allo scopo di poter avere un confronto tra antico e moderno.  

Qual’è il senso della vita o della vita organica in generale? Rispondere a questa domanda implica una religione. L’uomo che considera la propria vita e quella delle creature consimili prive di senso non è semplicemente sventurato, ma quasi inidoneo alla vita” (A. Einstein, da Il mondo come io lo vedo)

L’era così detta moderna ha inizio, a grandi linee, nel Rinascimento, prosegue con l’Illuminismo e termina all’inizio del XX° secolo, per lasciare spazio a quella che Lyotard chiama “postmodernità”. L’era moderna è dominata culturalmente da una visione scientifica relativista, dualistica e radicale, che prima pretende di fissare i propri sommi principi razionalmente, secondo una concezione kantiana, per poi tentare di scomporli deduttivamente, separando e frammentando irrimediabilmente, nell’utilizzo di questo metodo, il mondo razionale dal soprannaturale. La separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica,  operata dall’Illuminismo, ha, inoltre, consapevolmente o meno, rinunciato a quel fine comune spirituale che gli antichi attribuivano alla conoscenza. Nell’antichità la riflessione sistematica e metodologica mira alla ricerca della Verità ed è condotta riconoscendo che vi sono leggi che rientrano nelle facoltà umane, limitate e circoscritte, ma che oltre a queste leggi ve ne sono altre che non rientrano in quelle facoltà. Tale riflessione, in ogni epoca, fino all’avvento della cosi detta era moderna, mira a superare tali limiti, sviluppando un proprio metodo di ricerca che definiamo naturale, mitologico, religioso e filosofico. La scienza e la storia, intese come discipline a sé stanti, così come le intenderà l’uomo moderno, ne fanno parte integrante e non separata. Nell’era che precede la civiltà classica, l’uomo è capace di cogliere, attraverso una interpretazione simbolica della natura, il significato trascendente delle manifestazioni fenomeniche. I fenomeni fisici sono, per la sua coscienza ingenua e pura, il manifestarsi del Trascendente, dove il concetto del sacro viene inteso come ciò che proviene dall’Origine (ierofania) e non ciò che vi fa ritorno, ovvero che ha subito una manipolazione profana. Egli, attraverso una lettura simbolica della natura, è capace di abbracciare e di comprendere in sé il significato universale della propria esperienza esistenziale, che va oltre l’illusione della realtà apparente. Perciò è persuaso che indagando la natura può conoscere se stesso e il proprio destino. Per questo si identifica e vuole sentirsi un tutt’uno con la natura e con l’infinito, vivendo il suo tempo in forma ciclica, dove nascita e morte, succedendosi in maniera perpetua, rappresentano il ripetersi dei fenomeni naturali e il loro avvicendarsi, così come accade al giorno con la notte. L’incontro tra la vita e la morte, tra la morte e la vita, tra il giorno e la notte e tra la notte e il giorno, viene considerato il “punto d’origine” del cerchio vitale e temporale: ad ogni morte corrisponde una nuova nascita e un passaggio di livello successivo, di elevazione o di regressione.  Quell’uomo possiede la concezione del “Centro” come Origine del tutto, da cui le cose si separano  e si contrappongono, generando il bisogno e la necessità del “ritorno” all’Origine unitaria.  La cultura umanistica e quella scientifica, come su menzionato, negli antichi non conosce distinzione, ma forma un “unicum” spirituale. Anche il fine a cui tende, ovvero la ricerca della Verità o del Principio, è il medesimo, di natura spirituale. Da un punto di vista metodologico, due possono essere le vie da seguire per il raggiungimento del fine: il primo attraverso una “prassi”, che presuppone l’azione, ovvero la ricerca, lo studio e la riflessione verso la sapienza e la conoscenza dell’etica, allo scopo di stabilire il miglior agire umano; il secondo presuppone il conseguimento dell’episteme come fine, in cui si determina lo scopo dell’attività intellettuale. Esiste un filo comune che unisce e collega, tra di loro e con quelle più moderne, le antiche civiltà e il loro pensiero; ma oggi, forse per la prima volta, nella nostra epoca cosiddetta postmoderna, questo rischia seriamente di spezzarsi. Quel filo comune, su menzionato, che Eraclito chiama “Logos” riguarda essenzialmente il tramandarsi della tradizione spirituale ed è quella particolare sensibilità metafisica, mistica e religiosa che, ancora oggi, percorre e attraversa il pensiero dell’umanità nella sua millenaria storia. Per convenzione storica, tendiamo a separare determinati periodi di civiltà, come, ad esempio, avviene negando la derivazione della filosofia greca dalle dottrine ebraiche, egiziane, babilonesi e indiane, con la pretesa di tracciarne una netta linea di demarcazione, da giustificarsi col fatto che tra  queste civiltà non vi sia soluzione di continuità. Questo è vero solo in parte, cioè solo quando ci si riferisce al metodo di ricerca e di realizzazione della propria cultura, del pensiero e della dottrina filosofica, in una parola della propria ideologia. E’ vero, infatti, che la tradizione orientale è essenzialmente dominata dall’interesse religioso, il cui patrimonio di conoscenza appartiene ad una casta sacerdotale ristretta, la quale la custodisce e la conserva, preoccupandosi di tramandarla nella sua purezza. Dunque il fondamento della sapienza orientale è la tradizione, mentre nella filosofia greca è essenzialmente la ricerca. Il metodo è differente, ma l’oggetto della sapienza orientale e della ricerca greca è il medesimo: il Principio. Un esempio per tutti valga la teoria interiorizzante della dottrina mistica vedica nelle Upanishad, che intende penetrare i misteri dell’esistenza e che asserisce l’identità fra l’Atman, l’anima o spirito singolo e il Brahman, l’anima o spirito universale, attraverso la circolarità delle reincarnazioni (metempsicosi). Da essa si evince una evidente assonanza con la visione filosofica della scuola pitagorica, nonché platonica, neoplatonica e  con  un certo tipo di concezione panteistica marcatamente spirituale. Il fine della ricerca greca è, dunque, la sapienza; si tratta però di un tipo di sapienza accessibile solo a chi “sente” il desiderio e la necessità di pervenirvi nella persuasione più intima e completa. Il vero sapiente è colui che “sa di non sapere”; colui, cioè, che perviene alla consapevolezza della propria esistenza in un mondo illusorio e privo di certezze, ma che aspira a conoscere la Verità. Pertanto, possiamo riassumere questa visione ideologica nel detto socratico: “Io so di non sapere, ma un giorno saprò”. Non si può definire, peraltro, il vero sapiente se non si stabilisca, in primo luogo, quale sia la sostanziale distinzione tra verità ed illusione. Il mito della caverna di Platone, in questo senso, è ben esaustivo: la via della conoscenza consiste nell’abbandonare il mondo sensibile per quello intelligibile, attraverso l’ascesi conoscitiva, che conduce alla contemplazione del Bene in se stesso. Il dovere del sapiente è quello di trasmettere la sapienza; tuttavia, pur avendo trovato la via della conoscenza ed essendo sostenuto dalla forza interiore della Verità, il sapiente ha il dovere di rifuggire dalla tentazione di allontanarsi dal mondo sensibile e di ritornarvi a vivere. Da questa premessa deriva una visione metafisica di tale orizzonte, inteso come fine-perpetuo, ma non come meta-traguardo finale. Tale è l’Idea platonica che, in quanto perfetta, viene intesa come l’orizzonte di un percorso esistenziale “autentico”, di crescita morale, etica e spirituale, in perenne tensione verso quella perfezione-conoscenza. Essa è autodeterminazione e rappresenta “la giusta via”, l’Origine e l’orizzonte dell’uomo premoderno: egli predilige, in luogo della casualità, la ricerca del senso e della direzione della propria esistenza. Cercare il senso dell’esistenza, infatti,  significa ammettere a priori l’esistenza di un Essere Supremo, a differenza della casualità che tende ad escluderlo. Il meta-traguardo finale deve ricondurre l’uomo al cospetto del Trascendente, attraverso la conoscenza del sacro, che però non necessariamente deve avvenire in questa esistenza o dopo la morte. Questa vita, infatti, può essere intesa in senso neoplatonico, come una tappa intermedia, dove far prevalere la necessità di rivalutare i valori permanenti qualitativi in luogo di quelli contingenti, quantitativi e labili. In questa struttura ideologica si riflette la stessa struttura sociale di quei tempi, prima classica e poi medievale. Se nell’età classica della Grecia prevale lo spirito genuino della ricerca, dunque della libertà e della creatività individuale, nel medioevo prevale, analogamente all’era pre-classica, la visione di un mondo costituito gerarchicamente e sorretto da un’unica forza che dall’alto ne dirige e ne determina tutti gli aspetti. Tale concezione si ispira, sostanzialmente, ad una visione sincretica della dottrina filosofica stoica e neoplatonica, alla quale vengono ridotte ed adattate le dottrine aristoteliche e platoniche. La concezione del mondo è quella di un ordine perfetto e necessario, al quale l’uomo deve conformarsi, tramite il ruolo e il posto a lui assegnati. Pertanto la libertà e il libero arbitrio possono essere esercitati utilmente solo in vista di questa conformità. E’ veramente libero solo colui che attraverso il pensiero e la ricerca interiore sappia riconoscere e percorrere la giusta via: il Bene e Dio sono il Principio, il Mezzo e il Fine. Il medioevo, dunque, così come la cultura greca lo era stata per le tradizioni antecedenti, si configura come la continuazione delle culture che lo avevano preceduto, attraverso uno sviluppo dialogico e interpretativo del classicismo, che trova nel Cristianesimo il suo principale interlocutore. Temi e concetti classici, come l’idea del Bene, vengono posti al centro di questo fervido dibattito, non con l’intento di formulare nuove dottrine, ma di interpretarli nel giusto senso. Il principale problema, che il nascente Cristianesimo si trova a dover affrontare, è quello posto dalla visione platonica dell’idea-conoscenza e quello aristotelico del divenire nella ricerca dell’idea-conoscenza, ovvero di intendere la Verità come già data o di trovarla attraverso la ricerca individuale. Tale dicotomia, sappiamo, si è concettualmente ramificata, ponendo al centro del dibattito questioni e problemi come quelli del rapporto tra fede e ragione, tra essenza ed esistenza, tra conoscenza e scienza, tra dogma e ricerca e, dunque, tra essere e divenire. Ma, sopratutto, esso è il problema dell’ambito di libertà, del libero arbitrio, che l’uomo può avere nella ricerca della Verità, considerando, in primo luogo, i suoi limiti razionali. Nel medioevo la relazione autentica tra libertà e Verità assoluta, unita al desiderio per la conoscenza (l’eros platonico), è il presupposto necessario che conduce alla fede. Questa impostazione, che pone la fede come base per la conoscenza e come obiettivo della ricerca e non, viceversa, come sua premessa, determina che la ricerca senza il suo fine non avrebbe ne direttiva ne guida. Perciò, come sosteneva lo stesso Sant’Agostino, la fede diviene la condizione della ricerca, ma allo stesso tempo la ricerca è la condizione della fede, nel momento in cui ci si rivolge ad essa nel desiderio di chiarirne i problemi che suscita e di approfondirne incessantemente il suo significato più intimo.  Problemi, questi, che l’Umanesimo sente particolarmente nel tentativo di ricostruzione del  suo “uomo nuovo”, il cui fondamento è rappresentato dalla dignità e dalla libertà, attraverso una grande sintesi di tutto il pensiero antecedente. Marsilio Ficino occupò gran parte della propria breve esistenza nella traduzione di testi classici proprio  nel  tentativo  di  dimostrare, attraverso un arcaico percorso che va da Zarathustra fino a  Ermete Trismegisto, a Pitagora e  Platone,  per confluire  infine nella  religione  ebraico cristiana e nel misticismo neoplatonico, che non vi è, in linea di massima, disaccordo fra Platonismo e Cristianesimo, fra magia e religione. Al contrario, in queste tradizioni così apparentemente diverse tra loro, vi è un comune nucleo di verità, che egli riassume nella formula “homo copula mundi”, rappresentato dalla dignità cosmica dell’uomo. L’uomo è il centro (copula), un’entità intermedia nel creato a metà strada tra l’animale e l’angelo. Per questo si trova perennemente di fronte alla sua responsabilità di scegliere, alla sua libertà di autodeterminarsi, tendendo verso la perfezione angelica o verso il degrado animalesco. Ciò nonostante l’uomo è costretto entro i propri limiti razionali, dai quali deriva l’impossibilità di conoscere Dio e i suoi attributi in forma razionale. Dalla finitezza della ragione umana, circa l’inconoscibilità di Dio e dei suoi attributi, deriva la necessità di una teologia negativa,  che si rifà alla tradizione areopagitica, al misticismo tedesco, al neoplatonismo e alla  teoria di  emanazione,  o processione, di Proclo. Dal misticismo tedesco, dalla tradizione areopagitica e dal Neoplatonismo deriva l’impossibilità di conoscere gli attributi divini, che non sia per via simbolica; da Proclo deriva la teoria della creazione come rapporto fra complicatio ed explicatio: le cose sono contenute in Dio e si pongono in essere svolgendosi e procedendo da Lui. Ma se la ragione umana è finita e ugualmente si pone in essere l’esistenza di Dio come certa, pur determinandola in forma negativa e di infinità, ciò rappresenta per la ragione stessa una sfida. Lungi dal ritenersi sconfitta, essa ripone nella ricerca l’obbiettivo di spostare sempre in avanti il limite di conoscenza a cui poter accedere. La teologia negativa si muove, pertanto, in una duplice direzione: da un lato la consapevolezza della finitezza e l’abbandono totale del credente in Dio; dall’altro lo stimolo continuo alla ricerca e alla tensione verso Dio nella conoscenza e nell’esplorazione della natura, nella quale Egli si manifesta e nella quale si può esaltare la libertà e la dignità dell’uomo. Data l’inconoscibilità di Dio, vi è la necessità’ di una religione universale, che si ponga al di sopra di tutte le altre, abbracciandole e contenendole tutte in sé nei principi di fratellanza, uguaglianza e tolleranza. Da tale prospettiva viene ispirato l’evento centrale di Pico della Mirandola, attraverso l’iniziativa del fallito congresso che avrebbe dovuto riunire, in un intento conciliatorio, i rappresentanti delle tre religioni rivelate. A tal proposito nel 1486 egli scrive novecento tesi ispirate alla filosofia, alla cabala e alla teologia, tratte dalle fonti più diverse, come Aristotele, Ermete Trismegisto, Tommaso d’Acquino, Platone, Avverroè. Il congresso viene proibito per il sospetto di eresia su alcune tesi, ma Pico si difende prima con una “Apologia” nel 1487 e poi con le “Conclusioni” che sviluppano le tesi incriminate. Viene imprigionato per eresia mentre tenta di fuggire in Francia e solo l’intervento di Lorenzo il Magnifico gli permette di ottenere il perdono di papa Alessandro VI e di riottenere la libertà. Oggi, più che mai, sentiamo il bisogno di riscoprire e di riflettere quell’antica passione umana, incoraggiando l’uomo a valorizzare le proprie facoltà intellettive e impedendo che venga dispersa e annullata la propria dignità in un dischiuso mondo del luogo comune e dell’opulenza mercantile, basata su fattori quantitativi. Bisogna riscoprire il mondo-della-vita-autentica, trasformando la scienza, che oggi si prefigura come un fine, in un mezzo. Apprendere la scienza significa sviluppare la capacità di utilizzo dei propri mezzi intellettuali, di arricchimento interiore e della propria capacità razionale; significa trasformare l’uomo, da modello conformato ad artefice attivo della propria esistenza da un punto di vista qualitativo e spirituale. Oggi più che mai, all’uomo che non voglia privarsi della sua dignità, occorre riscoprire e far rivivere taluni concetti di valore umano e universale. “Ecco perché i tiranni hanno paura. Possono ridurre all’ubbidienza milioni di uomini, ma non quell’uno che in sé ha ridotto in schiavitù la morte. Egli ristabilisce la dignità dell’uomo…” (Ernst Jünger da Tre Ciottoli).