INTRODUZIONE da – Immagine umana, immagine divina -

Introduzione da – Immagine umana, immagine divina.
di Philip Sherrard (Denise Harvey Publishing, 1991)

Su una cosa almeno non è più necessario tornare a discutere, ovvero sul fatto che ci troviamo alla soglia di una crisi di dimensioni davvero preoccupanti. Questa crisi tendiamo a chiamarla ‘ecologica’, e tale termine è adatto nella misura in cui i suoi effetti sono evidenti soprattutto nella sfera ecologica. Infatti qui il messaggio è più che evidente: l’intero nostro modo di vivere è suicida, sia a livello umano che ambientale, e se non avviene un cambiamento radicalmente non v’è modo d’evitare la catastrofe cosmica. Senza tale cambiamento l’intera avventura della civiltà giungerà al suo termine nel corso dell’esistenza di molti di coloro che vivono oggi.
Sfortunatamente sembra che non abbiamo ancora capito l’urgenza della necessità di tale cambiamento, e nonostante tutto, continuiamo a persistere sulla stessa strada di devastazione, in una sorta di cieco incubo messo in scena con la stessa inesorabilità d’una tragedia greca, programmando di estendere ulteriormente il nostro dominio di artificiosità sterilizzata e di metodologie specializzate, facendosi largo nelle giungle dell’informatica e dell’elettronica, elaborando sistemi finanziari sempre più estesi e sofisticati, manipolando il naturale processo riproduttivo delle piante, degli animali, degli esseri umani, saturando i terreni e le colture con potenti additivi chimici e con una varietà di veleni che nessuna comunità mentalmente equilibrata si sarebbe mai sognata di portare fuori da un laboratorio, spogliando il mondo di quel ch’è rimasto delle foreste ad una velocità incredibile, e comportandosi generalmente in una maniera tale che, persino se l’avessimo deliberatamente programmata, non avrebbe potuto essere più adatta al nostro auto-annichilimento e a quello del mondo che ci circonda. È come se fossimo nel bel mezzo di una mostruosa psicosi collettiva, come se di fatto un enorme desiderio di morte aleggiasse sul cosiddetto mondo civilizzato. Nella sfera ecologica il messaggio è, come già detto, fin troppo chiaro, per quanto possiamo continuare a ignorarlo. Tuttavia, nonostante gli effetti della nostra crisi contemporanea siano più che evidenti in tale sfera, la stessa crisi non è in primo luogo una crisi ecologica. È innanzi tutto una crisi che riguarda il modo in cui pensiamo. Stiamo trattando il nostro pianeta in una maniera inumana, dissacrante, dal momento che vediamo le cose in modo inumano e dimentico del divino. E vediamo così le cose, poiché fondamentalmente quello è il modo in cui conosciamo noi stessi.
Questa è la prima cosa che dobbiamo assolutamente chiarire se vogliamo almeno cominciare a trovare una via per uscire dagli inferni dell’auto-mutilazione a cui ci siamo condannati. Il modo in cui vediamo il mondo dipende soprattutto da come vediamo noi stessi. Il nostro modello dell’universo – il nostro quadro del mondo, ovvero l’immagine del mondo – è basato sul modello che abbiamo di noi, sull’immagine che ci costruiamo di noi stessi. Quando guardiamo il mondo, quel che vediamo è un riflesso della nostra mente, della nostra modalità di coscienza. La nostra percezione di un albero, di una montagna, di un volto, d’un animale o di un uccello è un riflesso della nostra idea su noi stessi. Quel che sperimentiamo in queste cose non è tanto la realtà o la loro natura in sé, quanto semplicemente ciò che i nostri limiti, spirituali, psicologici e fisici, ci permettono di sperimentarne. La nostra capacità di percepire e sperimentare è stereotipa a seconda di come l’abbiamo forgiata a nostra personale immagine e somiglianza.
Ciò significa che prima di poter effettivamente trattare il problema ecologico, dobbiamo cambiare la nostra immagine del mondo, e ciò a sua volta significa che dobbiamo cambiare l’immagine di noi stessi. A meno che non cambi la valutazione che abbiamo di noi stessi, ovvero di ciò che costituisce la vera natura del nostro essere, non cambierà neanche il modo in cui trattiamo il mondo intorno a noi. E a meno che ciò non accada, la teoria e la pratica della tutela ambientale, per quanto possa essere ben intenzionata e necessaria, non giungerà al cuore del problema. Nel migliore dei casi rappresenteranno uno sforzo nell’affrontare cose che in fin dei conti non sono che sintomi, e non cause.
Non voglio in alcun modo sottovalutare tali sforzi, che sono spesso encomiabili, solitari ed incredibili, contro tutte le avversità. Una delle terribili tentazioni da affrontare è quella di pensare che il problema sia così grande che nulla di ciò che facciamo su scala individuale possa sortire alcun effetto, e che quindi dovremmo lasciarlo alle autorità, ai governi, agli esperti.
Questo atteggiamento è fatale. Ogni singolo gesto compiuto, per quanto insignificante possa sembrare, conta, e può comportare incalcolabili conseguenze. Il pensiero, se non viene accompagnato da una pratica corrispondente diviene subito sterile. Comunque allo stesso tempo la pratica che deriva da un pensiero scorretto diventa facilmente controproducente, poiché tale pratica ha soprattutto a che fare coi sintomi. Le cause sono radicate nel modo in cui pensiamo, ed è proprio per questa ragione che la nostra crisi, prima di tutto, ha a che fare con l’immagine di noi stessi e con la visione che abbiamo del mondo.
È questo il punto cruciale della nostra situazione. L’inferno tecnologico e industriale che abbiamo prodotto attorno a noi, e con cui stiamo oggi devastando il mondo, non è qualcosa che si è verificato accidentalmente. Al contrario, è la diretta conseguenza del fatto che abbiamo permesso a noi stessi di essere dominati da un certo paradigma di pensiero – che comprende una particolare immagine umana e una particolare immagine del mondo – ad un grado tale da determinare ora virtualmente tutti i nostri atteggiamenti mentali e tutte le nostre azioni, pubbliche e private.
È un paradigma del pensiero che ci induce a guardare a noi come poco più che animali bipedi il cui destino e necessità possono essere meglio soddisfatti grazie a un’attività di auto-coinvolgimento sociale, politico ed economico. E per trovare una corrispondenza a tale immagine di sé abbiamo inventato una visione del mondo in cui la natura è vista come un bene economico impersonale, una fonte senz’anima di cibo, di materie prime, di benessere, di potere e così via, che pensiamo di avere il diritto di sperimentare, sfruttare, rimodellare e generalmente di abusarne attraverso qualsiasi tecnica scientifica e meccanica che siamo in grado di approntare e produrre, per soddisfare ed allargare tale interesse. Avendo nelle nostre menti dissacrato noi stessi, abbiamo anche dissacrato la natura nelle nostre menti; l’abbiamo rimossa dalla sovranità del divino e ce ne siamo considerati signori, ed è proprio questo il nostro asservimento: sottomessi alla nostra volontà. In breve, sotto l’egida di questa immagine e di questa visione del mondo siamo riusciti a ridurci nella più depravata e depravante di tutte le creature della terra.
Questa immagine di sé e questa visione del mondo hanno le loro origini in un vuoto di memoria, in una dimenticanza di chi siamo, e nella nostra caduta a un livello d’ignoranza e di stupidità che minaccia la sopravvivenza della nostra razza. Per una logica implacabile inerente a tale origine, siamo costretti a procedere lungo una strada segnata ad ogni passo dalla nostra caduta, in un’ignoranza ancora più profonda della nostra natura e di conseguenza in un’ignoranza altrettanto profonda della natura di ogni altra cosa.
Finché rimaniamo su questa strada, siamo destinati a procedere alla cieca e ad un ritmo ancora più serrato di totale perdita di identità, totale perdita di controllo ed infine totale autodistruzione. E nulla può fermare il processo tranne che una completa virata, un cambiamento radicale del modo in cui osserviamo noi stessi e quindi del modo in cui osserviamo il mondo intorno a noi. Senza questo cambiamento, continueremo semplicemente ad aggiungere combustibile alla nostra pira funebre.
Siamo in grado di compiere tale inversione, tale radicale raddrizzamento? Nessuno può impedirci di farlo tranne noi stessi, questa credo sia la risposta. Nessuno può impedirci di cambiare l’immagine di sé e di conseguenza la nostra visione del mondo tranne noi stessi.
La questione – l’unica vera questione – è quella di sapere quale immagine di sé e quale visione del mondo dobbiamo porre a sostituzione degli stereotipi falliti, le finzioni inanimate che hanno preso il sopravvento su di noi.
Qui è necessaria una particolare azione di recupero. Ho detto che l’immagine di sé e la visione del mondo che ora ci dominano hanno le loro origini in una perdita di memoria, nella dimenticanza d’identità. Cosa voglio intendere con ciò?
Nelle grandi culture creative del mondo, gli esseri umani non si considerano animali bipedi, che discendono dalle scimmie, le cui necessità e soddisfazioni possono essere ottenute perseguendo un proprio interesse sociale, politico ed economico nel mondo materiale, come se la loro vita fosse confinata a una dimensione materiale di spazio-tempo. Al contrario, essi pensano di se stessi in primo luogo ed eminentemente come discendenti degli dei, o di Dio, ed eredi dell’eternità, con un destino che va assai al di là della politica della società e dell’economia, o di qualsiasi altra cosa che possa essere soddisfatta nei termini del mondo materiale o appagando i propri desideri passeggeri e le proprie necessità fisiche. Essi pensano di sé come ad esseri sacri, persino semi-divini, non per proprio diritto, ma perché creati ad immagine divina, l’immagine di Dio, di una forma trascendente e sovrumana di consapevolezza. Provengono da una fonte divina, e il mondo divino è il loro diritto di nascita, la loro vera dimora.
Allo stesso modo, essi non considerano ciò che noi chiamiamo il mondo esterno, il mondo della natura, come una semplice e casuale associazione di atomi o altro, o come qualcosa d’impersonale, privo d’anima, non vivente, che si sentono in diritto di manipolare, comandare, sfruttare e generalmente saccheggiare e devastare per gratificare le loro ingordigie e smanie di potere. Essi considerano anche la natura come creazione divina, piena di saggezza nascosta e, pari a loro stessi, piena di una personale e sensibile anima vivente o di una vita psichica come la loro. Essi riconoscono e comprendono anche nella natura una realtà sacra, una presenza divina invisibile, resa manifesta. Essi sentono che ogni parte della terra – del cosmo intero – è sacra. Nella loro memoria ed esperienza, ogni foglia, ogni granello di sabbia o di terra, ogni uccello, animale e stella, l’aria ed ogni insetto è santo, è istinto dotato di vita. La linfa che scorre nell’albero è sacra proprio come il loro sangue – è parte del loro sangue. Foreste, montagne, laghi, campi, mari, le grandi pianure e persino i deserti non sono ‘risorse’ da sfruttare; sono una modalità di vita. Essi possono far sì commercio dei doni che offrono – in pietre preziose e spezie, in grano e bestiame. Possono nell’ignoranza essere eccessivi nelle loro richieste, nel far brucare i campi ai loro greggi o nell’abbattere troppi alberi. Ma non commerciano deliberatamente nella natura in sé, o a discapito della natura. Non ne inaridiscono, e non avrebbero potuto mai farlo (e non per mancanza di conoscenze tecniche), le viscere testando di bombe nucleari, deturpandone il cielo con lo scarico fumoso e nauseante di aeroplani e navicelle spaziali, non ne avvelenano i fiumi, i laghi, i mari, le fonti d’acqua sotterranee sciogliendovi sostanze chimiche, ed attraverso uno stillicidio velenoso, non la violano nei tanti altri modi che pratichiamo oggi.
E quando dico ‘non avrebbero potuto’, non voglio intendere ciò in senso sentimentale. Si tratta di un divieto radicato nelle profondità più recondite della loro comprensione delle cose. Se la natura è creazione di Dio, ovvero manifestazione di Suprema Saggezza ed Armonia, allora ne segue che è espressione d’un ordine e d’una disposizione divini, ma anche che quest’ordine e questa disposizione rappresentano il meglio che sia possibile, date le condizioni all’interno delle quali la natura viene creata o resa manifesta. Di conseguenza, immaginare che possiamo migliorarla – o rimuovere le imperfezioni che vi si vogliono trovare, interferendo con essa, rimodellandola, trasformandola e così via, in modi che comportano lo sconvolgimento e la perversione dell’ordine e della disposizione divini, come anche i processi organici che sono loro parte integrante – è pura follia e sfrontatezza: è come immaginare di poter intervenire a migliorare la saggezza dell’Assoluta Saggezza. Inevitabilmente, quindi, qualsiasi tentativo da parte nostra di interferire in tal modo su di essa o di rielaborarla potrà soltanto degenerare, creare dei cancri, corrompere e viziare le condizioni in cui dobbiamo vivere la nostra vita sulla terra. Negli ultimi secoli è quindi chiaramente emersa tale verità, e non dovremmo aver più bisogno di ulteriori prove riguardo alla giustezza della comprensione su cui è radicata.
Tuttavia, nonostante ciò, tale comprensione, e il senso della sacralità sia dell’uomo che della natura, come anche il timore reverenziale che essi ispirano, vengono oggi spesso caratterizzati come primitivi, ovvero basati sulla superstizione, e considerati parte dell’epoca pre-scientifica e come qualcosa promosso soltanto da coloro che non sono riusciti, per una qualche ragione, a ‘progredire’ nella direzione del XX° secolo (ovvero il XXI° secolo, dal momento che ci siamo quasi). E quando viene messo in evidenza che le teorie dell’evoluzione biologica, sia in forma darwiniana che post-darwiniana, sono state fraintese, e che gli esseri umani, lungi dall’esser discesi dalle scimmie, sviluppano soltanto tendenze e caratteristiche simili alla scimmia quando pervertono la loro natura umana e diventano subumani, o disumani, non c’è da meravigliarsi se ciò cade nel ridicolo. Insistere sul fatto che non possiamo ottenere alcuna autentica conoscenza del mondo fisico a meno che prima non si sia ottenuta una conoscenza delle realtà spirituali o metafisiche, significa attirarsi accuse d’oscurantismo, se non d’idiozia: tendiamo a prendere per certo non solo che sia perfettamente possibile ottenere una conoscenza del mondo fisico senza alcun riferimento a una qualsiasi idea di Dio, o d’un Creatore, o di qualsiasi soggiacente realtà metafisica che vada al di là dello spazio e del tempo, ma anche che non possiamo decisamente permettere che una tale idea determini sia i metodi che impieghiamo nella nostra ricerca di conoscenza che la sostanza di ciò che consideriamo conoscenza. Possiamo e dobbiamo esaminare la natura visibile (natura naturata) come se fosse indipendente dall’invisibile natura metafisica (natura naturans) da cui deriva e in cui è radicata. Possiamo e dobbiamo spiegare i fenomeni naturali come se fossero indipendenti dal regno del soprannaturale. Possiamo e dobbiamo spiegarli semplicemente nei termini delle leggi della fisica e della chimica, senza alcun riferimento alla natura naturans o al regno del soprannaturale. Tale è il livello a cui l’intelligenza umana è degradata nella sua ricerca degli scopi che caratterizzano il nostro mondo moderno.
E ciò a discapito del fatto che – per limitarci soltanto alla tradizione europea – non v’è più grande filosofo da Platone a Berdjev, né alcun grande poeta, da Omero a Yeats, che non abbia esplicitamente o implicitamente affermato quel tipo di cosmologia che noi oggi tendiamo tanto a ridicolizzare, a ripudiare, ad ignorare. Uno dei grandi irrisolti enigmi psicologici del mondo moderno occidentale è la questione di cosa o chi ci abbia persuaso ad accettare come virtualmente assiomatica una visione di sé e una visione del mondo che ci richiede, senza mezzi termini, di rifiutare la saggezza e la visione dei nostri maggiori filosofi e poeti per imprigionare il nostro pensiero e il nostro essere nella camera di tortura materialista, meccanicista e dogmatica, costruita da una mente scientifica quantitativa d’infima categoria.
Riguardo a ciò, v’è un particolare errore di cui dobbiamo liberarci, ovvero che le teorie scientifiche contemporanee, e le descrizioni che le accompagnano, siano in un certo qual modo neutre, ovvero libere da certi valori, e che non presuppongano la sottomissione della mente umana a un sistema di supposizioni o dogmi, proprio in quella modalità che si dice sia richiesta a chi vuole aderire a una fede religiosa. Tale idea è, di contro, ancora promossa e persino ritenuta vera da molti degli stessi scienziati. Su di essa si basa l’affermazione che le descrizioni scientifiche delle cose siano oggettive. Non è che questi scienziati neghino che ci siano, o possano esservi, valori. Il fatto è che nel loro ruolo di scienziati, affermano di operare indipendentemente da ogni giudizio di valore, e di essere impegnati in ciò che amano chiamare ‘ricerca scientifica’, puramente disinteressata.
Si tratta di uno degli errori più insidiosi di cui ancora tendiamo a rimanere vittime. Persino persone che affermano di combattere per una nuova filosofia di valori ecologici, come Henryk Skolimowski, continuano a esserne succubi come se fosse fuori discussione. In realtà, lungi dall’essere fuori discussione, ciò rappresenta una vera e propria bugia. Ogni pensiero, ogni osservazione, ogni giudizio, ogni descrizione, sia dello scienziato moderno che di qualsiasi altro individuo, è imbevuto a priori di giudizi precostituiti di valori, supposizioni e dogmi quantomeno così rigidi, se non più (dal momento che sono spesso abbracciati in maniera inconscia), di quelli di un qualsiasi sistema religioso. La vera natura del pensiero umano è tale che non può operare indipendentemente da giudizi di valori, supposizioni e dogmi. Persino l’asserzione che ciò sia possibile, costituisce un giudizio di valore e implica un’intera filosofia, sia che ne siamo consapevoli o no.
Oltre a quest’errore, e strettamente alleato ad esso, ce n’è un altro da cui continuiamo ad essere vittime. Non si tratta della nozione – a cui già abbiamo fatto riferimento – che la scienza moderna sia libera da valori, o che sia l’unica scienza possibile, ma che sia valida in relazione a quell’aspetto limitato delle cose che si presta allo studio – ovvero, il loro aspetto materiale e fenomenico, ed esteso nel tempo e nello spazio. Questa nozione non è intesa a negare che ci sia, o che ci possa essere, un altro aspetto delle cose – ciò che è spirituale ed eterno, e privo d’estensione spazio-temporale – che possa essere anche di per sé studiato e che possa costituire la sfera della conoscenza spirituale o di una scienza spirituale. Essa semplicemente implica l’affermazione che ci sono due livelli di realtà; che ciascun livello possa essere studiato separatamente, e senza alcun riferimento all’altro; e che la conoscenza ottenuta come risultato di aver studiato un livello sia valida nei suoi termini proprio come la conoscenza ottenuta attraverso lo studio dell’altro livello.
Questo modo di affrontare le cose è una falsità poiché il primario elemento determinante della conoscenza (o quel che riteniamo essere la conoscenza), ciò che otteniamo dalle cose non è il particolare livello di realtà a cui tale conoscenza si ritiene sia pertinente. Il suo principale elemento determinante è il livello, ovvero la modalità, di consapevolezza di cui tale conoscenza è espressione. Ciò vuol dire che non si tratta tanto d’una differenza di livelli di realtà da percepire e sperimentare, uno interiore e spirituale e l’altro esteriore e materiale, ciascuno con una scienza indipendente che corrisponde ad essa. Si tratta piuttosto di differenti livelli o modalità di consapevolezza nell’uomo, attraverso cui egli percepisce e sperimenta; così che quel che percepisce e sperimenta dipenderà prima di tutto dal livello o modalità di consapevolezza attiva in lui, e non dal livello di realtà che gli capita di studiare.
Non vi sono due scienze, una che si occupa dell’aspetto materiale ed esteriore delle cose estese nel tempo e nello spazio, e l’altra della dimensione spirituale ed eterna, priva di estensione spazio-temporale. Esiste solo una scienza. Tuttavia ci sono due modalità dominanti di consapevolezza nell’uomo: la consapevolezza dell’ego, che è la sua modalità più bassa di consapevolezza, che corrisponde di fatto a ciò ch’è più inumano e satanico in lui; e la sua consapevolezza angelica o spirituale, che è la sua modalità più elevata di consapevolezza. Naturalmente, ci sono infinite sfumature tra queste due modalità, a seconda che la consapevolezza graviti più o meno da una parte o dall’altra.
La consapevolezza superiore o spirituale percepisce e sperimenta le cose come sono in se stesse, interne ed esterne, spirituali e materiali, metafisiche e fisiche interpenetrandole e formando una singola realtà indivisa e indivisibile. La consapevolezza profana, ovvero dell’ego, non può percepire e sperimentare le cose così come sono. Può percepire e sperimentare soltanto quel che le viene permesso dalla sua opacità e ciò non è la realtà delle cose, ma si tratta di cose avulse dalla loro realtà. Non può esservi una scienza delle cose – dei fenomeni – che ignora la realtà dei fenomeni, in virtù della quale essi sono quel che sono. Non può esservi una scienza valida soltanto nell’aspetto fisico delle cose, per la semplice ragione che la nozione che le cose posseggano un aspetto fisico esteriore staccato dalla loro dimensione spirituale interiore è una nozione illusoria.
Se potessimo percepire e sperimentare con piena chiarezza la nostra consapevolezza superiore e spirituale, saremmo in grado di vedere e capire che di per sé nessuna cosa visibile – nulla che appartiene al mondo dei fenomeni – ha una propria esistenza o un proprio essere. Vedremmo e comprenderemmo che separati da questa dimensione e identità interiore e spirituale non possediamo alcuna realtà di sorta, sia fisica, materiale o sostanziale, e che tale nozione è semplicemente un’illusione o una distorsione inerente al punto di vista della consapevolezza dell’ego. Non è possibile separare in alcun modo la fisica dalla metafisica, e se a tutt’oggi pensiamo che ciò sia possibile, non facciamo che dare prova dell’inanità del nostro pensiero.
Quindi, visto che a tutt’oggi la scienza moderna presuppone la nozione che possiamo ottenere conoscenza dei fenomeni senza alcun riferimento a una precedente conoscenza della loro dimensione interiore e spirituale, e separatamente da essa, allora vuol dire che è basata totalmente sulla consapevolezza dell’ego, ovvero – il che porta alle medesime conclusioni – è ancora al servizio di un dualismo che oppone mente e materia, soggetto e oggetto, conoscitore e conosciuto – un dualismo che rappresenta una totale distorsione della realtà. Ciò significa che tale scienza risulta corrotta da caratteristiche inumane e sataniche in quell’uomo la cui consapevolezza le farà da veicolo. Ecco perché la sua applicazione, nella tecnologia o in altre forme, è suscettibile di essere carica di conseguenze che sono ugualmente inumane e sataniche, sia riguardo al nostro proprio essere che riguardo al mondo fisico naturale.
Ecco dunque perché anche ogni estensione dell’impero e dell’influenza della nostra mentalità contemporanea secolare e scientifica è andata e continua ad andare a braccetto con una nostra corrispondente ed accentuata erosione del senso del sacro. In realtà, non abbiamo alcun rispetto, non parliamo neanche di riverenza, per il mondo della natura poiché fondamentalmente non abbiamo alcun rispetto, né tanto meno riverenza, per noi stessi. E questo perché, dal momento che abbiamo perso il senso della nostra realtà personale, abbiamo perso il senso di qualsiasi altra realtà. E dal momento che paralizziamo e mutiliamo noi stessi, ecco che paralizziamo e mutiliamo qualsiasi altra cosa. La nostra crisi contemporanea non è che la rappresentazione amplificata della nostra personale depravazione.
Quindi l’unica risposta a questa crisi è l’interrompere la nostra depravazione. È recuperare un senso della nostra vera identità e dignità, l’immagine di noi stessi come esseri sacri, come esseri immortali. Una falsa visione di sé alimenta una falsa visione del mondo, e assieme alimentano la nostra nemesi, e la nemesi del mondo. Una volta ritornati in possesso di un senso della santità personale, recupereremo anche il senso di santità del mondo che ci circonda, e agiremo dunque sul mondo attorno a noi con quel timore reverenziale e quell’umiltà che dovremmo avere ogni volta che mettiamo piede in un santuario, in un tempio d’amore e di bellezza dove si prega e si fa adorazione. Soltanto in questo modo riusciremo ad essere consci che il nostro destino e il destino della natura sono una cosa sola. Soltanto in questo modo potremo restaurare un’armonia cosmica. Se non percorreremo questa strada, allora le cose prenderanno un’altra piega, dal momento che non v’è altra via d’uscita. Fallire qui significa fallire irrevocabilmente: non può esservi alcuna via di fuga al nostro genocidio inumano. Senza un senso del sacro (del fatto che ogni cosa che vive è santa) e senza umiltà nei confronti del tutto – verso l’uomo, la natura e verso ciò che sta al di là sia dell’uomo che della natura, loro fonte e origine trascendente – procederemo semplicemente, dritti, dritti, verso un’autodistruzione di cui siamo noi i responsabili.
Tutto ciò significa che se dobbiamo affrontare la nostra crisi contemporanea fino ad andare alle sue radici, il nostro compito è duplice. Dobbiamo prima di tutto far chiarezza nella nostra mente – identificare coerentemente e senza ombra di dubbio – il paradigma di pensiero che soggiace e determina l’attuale immagine di noi stessi e la nostra visione del mondo. Se prima non facciamo ciò potremmo facilmente diventare vittime di una sorta di doppio pensiero, che attacca i sintomi mentre rimane soggetto alle cause che producono i sintomi. E per noi è d’importanza fondamentale, dal momento che abbiamo tendenzialmente dimenticato quelle che sono le presunzioni e le supposizioni che caratterizzano questo paradigma: esse sono profondamente innestate nei baluardi dei nostri processi ordinari del pensiero, e noi siamo inconsapevoli di quanto in realtà stiano alla base di tali processi e di come li determinino.
In secondo luogo, dobbiamo cercare di recuperare, o di riscoprire, la visione dell’uomo e della natura – o piuttosto, la visione teoantropocosmica – che ci permetterà di percepire e quindi di sperimentare sia noi stessi che il mondo in cui viviamo come realtà sacre, ovvero quel che sono; poiché se non recuperiamo il senso della loro sacralità, che è basata su di una coerente comprensione del perché esse siano sacre, i nostri tentativi di riaffermare in loro questa qualità potrà essere inficiata da ciò che alla fine risulta essere poco più che un pregiudizio sentimentale.
La nostra ricerca, quindi, è al contempo antropologica – rivolta alla questione dell’identità dell’uomo – e cosmologica – che vuole rispondere alla domanda sulla natura dell’universo. È in ultima istanza un tentativo di riaffermare le immagini sacre sia dell’uomo che della natura: di affermare un’immagine umana e del mondo che sia sacra.
(Traduzione di Eduardo Ciampi)

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