I SETTE PECCATI CAPITALI ALLA LUCE DEL SIMBOLISMO DEL NUMERO

Nella serie dei numeri a cifra unica ve ne sono due che si distinguono dagli altri dal momento che hanno un significato essenzialmente Divino, stiamo parlando dell’uno e del sette; tra di loro, come tra l’alfa e l’omega, si dipana l’intera rappresentazione dell’esistenza. Uno è il Creatore; due sta a significare lo Spirito,[1] tre il Cielo,[2] quattro la terra e cinque l’uomo, la cui collocazione è quella di quintessenza al centro dei quattro elementi, dei quattro punti cardinali dell’orientamento, e delle quattro stagioni dell’anno, che caratterizzano la condizione terrestre. Tuttavia l’uomo non può realizzare la sua funzione di mediatore tra Cielo e terra senza la dimensione trascendente di profondità ed altezza, l’asse verticale che passa attraverso il centro di tutti i gradi di esistenza e che  altro non è che l’Albero della Vita. Tale dimensione sovrumana è implicita nel punto centrale della quintessenza ma non diventa esplicita sino a quando non viene trasceso il numero cinque. E’ attraverso il sei che il centro diviene l’asse, che il seme diviene albero, ed il sei è il numero dell’uomo primordiale nello stato in cui fu creato il sesto giorno. Quale mediatore universale,[3] egli abbraccia, con le sue sei direzioni, l’intera esistenza, peraltro al di là del sei v’è ciò da cui proviene e a cui ritorna l’esistenza. E Dio benedì il settimo giorno, e lo santificò: poiché in esso Lui s’era riposato di tutto il suo lavoro (Genesi II: 3).

Sette sta quindi a significare il riposo nel Centro Divino. Da questo punto di vista è simbolo della Assoluta Finalità e della Perfezione, presente in questo mondo come Sigillo Divino posto sulle cose terrene, come nel numero dei giorni della settimana, i pianeti, i sacramenti della chiesa, e molti altri settenari, la cui menzione ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento. Tuttavia, nonostante queste considerazioni – o piuttosto proprio grazie a queste – c’è, come vedremo, una ragione profonda nel fatto che i peccati capitali debbano essere nel numero di sette.

Alla ricerca della chiave di tale paradosso, la prima cosa da riportare a mente è la fondamentale continuità che esiste tra l’uomo Edenico e l’uomo decaduto. Al tempo della Caduta non ci fu nuova creazione; virtualmente l’uomo è ancora un essere centrale. Se non lo fosse, la sua anima non proverebbe alcuna nostalgia, e la primordiale perfezione umana, invece d’esser una norma ed un ideale, risulterebbe irraggiungibile, considerata come un qualcosa d’estraneo. Tuttavia egli in realtà non è mai stato soppiantato, di qui la dottrina del peccato originale, che in se stessa è un’affermazione della continuità di cui stiamo parlando. Inoltre, la dottrina del peccato implica anche una dottrina d’espiazione: nella misura in cui parliamo di torpore e perversione dell’anima, e non di irrimediabile perdizione,  ebbene ci può essere risveglio e reintegrazione.

Tale reversibile continuità tra norma primaria e fatto presente significa che per quanto certe forze dell’anima possano essere ora inclini alla colpa, originariamente erano innocenti. Dobbiamo anche tener presente in tale connessione, l’assioma corruptio optimi pessima, il migliore quando è corrotto diviene il peggiore; e se ci si chiedesse ‘Cosa s’intende per peggiore?’ potremmo rispondere, in relazione all’anima umana, che si tratta de ‘ I sette peccati capitali’.

Comunque, questi peccati possono essere presi come punti di riferimento[4] per ciò che riguarda tutto quel che c’è di più maligno; e le tre parole sette peccati capitali in un certo senso si adattano alla corruptio ottimi pessima, dal momento che il numero sette svela la misteriosa presenza d’un optimum nel contesto di pessima corruptio del peccato capitale. Sta qui anche la soluzione al paradosso della corrispondenza dei peccati capitali coi pianeti, incluse le stelle.

Analizzandoli nel loro tradizionale ordine, la superbia (superbia) è in relazione al Sole, l’avarizia (avaritia) a Saturno, la lussuria (luxuria) a Venere, l’invidia (invidia) a Mercurio, la gola (gula) a Giove, l’ira (ira) a Marte, e l’accidia (accidia) alla Luna. Sarebbe tuttavia erroneo, e persino sacrilego, fraintendere tale modalità d’espressione ed affermare che i peccati sono in realtà rappresentati da questi corpi celesti, i nomi dei quali, in base a grado e luminosità  contrassegnano niente di meno che le Sfere Celesti.

Tutto quel che si può dire è che i pianeti sono simboli delle ‘parti migliori’ dell’anima; e quando queste optima sono corrotte, rimangono ancora in relazione coi pianeti, dal momento che ancora continuano a portare il sigillo del sette. In altre parole, quelle forze o tendenze di natura psichica che sono diventate veicoli di peccato capitale erano state enumerate prima della Caduta, quando nell’anima avevano un posto analogo a quello dei pianeti nel firmamento.

Il sette può quindi essere considerato come un marchio usato da un pastore, che sta ad indicare, quando una pecora è smarrita, il gregge a cui appartiene di diritto ed a cui può essere riportata indietro. Nel considerare come sia possibile per la pecora sviarsi in tal modo, cominciamo con un fatto che riguarda uno dei peccati che è generalmente conosciuto, ma raramente ben soppesato, e che non è privo di connessioni con altri peccati. Una caratteristica comune a tutte le religioni è l’approccio all’ira intesa come profana rottura di equilibrio, accanto al concetto della santa ira – esemplificata nel Cristianesimo da Cristo che caccia i mercanti dal Tempio – in relazione a cui lo stesso peccato[5] appare quale parodia. In modo analogo, sebbene il termine santa avarizia non è usato, non si potrebbe forse affermare che un avaro sia una caricatura di un asceta ed in rari casi perfino un potenziale asceta? La tradizionale rappresentazione dell’avaro come un affamato, vestito di stracci, e che porta una borsa d’oro, avrebbe un significato completamente diverso se l’oro lo si intendesse in modo simbolico e non letterale.

Sono state riportate testimonianze riguardo ad alcuni avari capaci di sopportare quelle che sarebbero definite, nel caso d’un santo, come ‘eroiche rinunce’. Ma visto che gli atti s’accompagnano alle intenzioni,[6] le due ‘indigenze’ sono così lontane tra di loro, come l’inferno e il paradiso. Tuttavia – dal momento che per Dio ogni cosa è possibile -  se un grande Maestro spirituale dovesse prendere un avaro e fare di lui un Santo, l’avarizia, sebbene necessariamente rigettata non dovrebbe essere sottoposta ad un rifiuto assoluto;[7] tuttavia il termine ‘fare di lui’ è usato qui ponderatamente, poiché la tendenza in questione avrebbe bisogno d’essere completamente riorientata. Ragionando su binari paralleli, non si potrebbe, per esempio, dire qualcosa d’analogo sul peccato della lussuria? La passione, se allontanata dal mondo, può imprimere fretta all’anima  nella giusta direzione.

In connessione con un altro peccato capitale, possiamo ricordare le parole del Decalogo: Io il Signore Dio tuo, sono un Dio geloso. Non che ‘geloso’, così com’è usato qui, sia sinonimo di ‘invidioso’, ma si può dire che i due termini abbiano una comune radice, ovvero il rifiuto d’accettare che un altro abbia, o riceva, qualcosa che si è convinti debba spettare soltanto a se stessi.

Potremmo dire che ogni studioso di metafisica condivide la gelosia Divina dal momento che è geloso di Dio, rifiutando che al relativo si lasci ricevere ciò che è appannaggio dell’Assoluto. E’ in tale ragionamento, inutile dirlo, e non nella sua peccaminosa parodia, che viene tirato in ballo Mercurio. Esotericamente la gelosia può essere trasportata ancora una volta dalla modalità oggettiva a quella soggettiva come rifiuto del permettere che l’ego empirico usurpi i diritti del vero Sé.

un livello meno accentuato possiamo anche ricordare che la parola invidia è spesso usata in un senso del tutto privo di biasimo, come nella frase: ‘Invidio quella tua natura calma’. Per fare un altro esempio, una tradizione islamica ci racconta d’un uomo che, essendosi svegliato tardi, arrivò alla moschea con l’intento di fare la preghiera mattutina, ma solo per incontrare sulla soglia gli uomini che uscivano. ‘Avete già fatto la preghiera?’ chiese al primo di questi; ed alla risposta affermativa, lanciò un tale lamento di rammarico che l’uomo da lui interrogato disse, ‘Prendi tu la mia preghiera, e lascia a me quel tuo lamento!’. Tale invidia spirituale ha il suo archetipo paradisiaco nella mutua meraviglia delle anime beate che ammirano ciascuna la perfezione dell’altra.[8]

Per quel che riguarda il peggiore peccato di tutti, è significativo che nell’Islam uno dei novantanove nomi Divini sia ‘il Superbo’. Il Corano usa esattamente la stessa parola per glorificare Dio come per condannare Faraone; e se Dio è Superbo, allora la superbia deve anche essere un aspetto della perfezione umana, fatta a Sua immagine. Ci troviamo di fronte ad una virtù ed a un vizio che portano lo stesso nome pur trovandosi ai poli opposti della possibilità umana; e la verità corruptio optimi pessima si erge come un ponte attraverso il golfo che sembra separarli. Rimane da vedere come sia possibile che tale ponte possa essere attraversato, sia con la corruzione che, per altro verso, col cammino di redenzione.

Per quel che riguarda la corruzione, potremmo trovare la risposta nel simbolismo di un altro  numero tradizionalmente associato ai peccati capitali, ovvero il numero otto[9], dal momento che se il sette denota semplicemente il migliore, l’otto nella sua accezione positiva[10] denota l’esatto grado in cui questo particolare migliore, il migliore dei corruttibili, è inserito nella gerarchia universale. Nel suo articolo sul simbolismo dell’ottagono, René Guénon fa presente che nell’architettura sacra ogni struttura ottagonale serve da supporto ad una cupola, accentuando così la transizione dalle fondamenta quadrate alla sommità circolare, cioè, dal numero terrestre quattro a quello celeste nove.[11] In altre parole, l’otto denota la regione intermedia tra terra e Cielo, ovvero a livello microcosmico, tra corpo e Spirito; peraltro l’ottagono che sorregge la cupola è qui particolarmente rilevante quale simbolo della ‘parte migliore’ della sostanza psichica, quella parte che serve da veicolo per la luce spirituale, simbolizzata dalla cupola stessa. Questo ottagono ha in realtà un triplice simbolismo, dal momento che non solo è un supporto della cupola ma esprime anche, essendo immediatamente adiacente ad essa, la vicinanza al Cielo degli elementi psichici in questione, ed essendo quasi circolare nella forma, non esprime altro che la loro natura spirituale. Inoltre, otto è il numero dei venti, che hanno significato d’ispirazioni, ovvero di ricettività dei suddetti elementi. Ma appartenendo all’anima, e non allo Spirito, queste relative altezze sono per definizione corruttibili; e non soltanto il diavolo vi ha accesso ma è soprattutto qui che interviene,[12] dal momento che non può arrecare gran danno all’anima umana a meno che non riesca prima a pervertire uno o più dei suoi più elevati elementi, che altrimenti, continuando a svolgere la loro funzione intuitiva, rimarranno come vigili sentinelle, sempre pronte a suonare l’allarme. La tentazione originale di Satana non fu certo rivolta alle facoltà inferiori, bensì a quelle che costituiscono le tendenze dell’uomo verso l’altro mondo: le sue speranze d’immortalità, le sue aspirazioni per ciò che va al di là del transitorio. Ciò emerge chiaramente dal racconto Coranico della caduta: Allora Satana sussurrò dentro di lui[13] e disse: “O Adamo, vuoi che ti mostri l’albero dell’immortalità ed un regno che non tramonta mai?” (XX:120)

 

Citiamo anche il seguente commento relativo:

 

‘Tutta la sua capacità d’inganno attraverso i secoli[14] è sintetizzata nel suddetto verso; egli senza tregua promette di mostrare all’uomo l’Albero dell’Immortalità, riducendo gradualmente, con tale mezzo, le facoltà superiori e più centrali dell’anima a favore di quelle esteriori, in modo da lasciarle imprigionate proprio lì dove c’è attaccamento a quegli oggetti contraffatti, da lui forgiati e messi ben in vista. È proprio la presenza di quelle facoltà pervertite – sia nello scontento, per il fatto che non riescono mai a trovare vera soddisfazione, sia in fine per un certo stato di atrofia per cui non sono mai messe propriamente in uso – che causa tutto quel disordine e quella ostruzione nell’anima dell’uomo decaduto.’[15]

Scendendo nei particolari, si potrebbe dire che il peccato di gola è causato dalla erronea presenza – nella parte esterna o inferiore dell’anima, quella parte che sta vicina ai sensi – di un elemento psichico pervertito, il cui giusto posto sta sulla soglia del Paradiso e la cui funzione regolare è di rappresentare, per l’individuo in questione, ciò che potrebbe essere definito il senso dell’Infinito. Fedele alla sua natura, cerca ancora infinita soddisfazione, ma è condannato a fare ciò nel più limitato degli ambiti. Potremmo dire che una simile erronea presenza stia alla radice del già citato peccato di lussuria.

D’altra parte, i peccati statici o contrattivi dell’ozio e dell’avarizia possono essere ascritti ad un senso pervertito d’Eternità. L’uno è l’afflato di realizzare la pace eterna in un ambito provvidenzialmente concepito per essere in movimento e nella vicissitudine. L’altro è il tentativo di mantenere eternamente ciò che è, per propria natura, effimero; è anche la cecità di attribuire al ‘tesoro terreno’ quell’assoluto valore che appartiene solo al tesoro Celeste.

Eternità ed Infinità sono dimensioni dell’Assoluto, e potremmo dire che il senso travisato dell’Assoluto – in modo diretto, o anche attraverso una di queste dimensioni – sia alla radice di ogni peccato capitale. E’ il ‘riverbero’ dell’assoluto, che per quanto in modo remoto, può da solo provocare la mostruosità delle più o meno malsane esagerazioni in questione.

Il peccato d’ira presuppone come nell’avarizia, altrettanta mancanza di senso della proporzione, sebbene su di una modalità complessivamente diversa; potrebbe anche essere descritto come effetto ‘assoluto’ d’una causa relativa.

Tuttavia l’avarizia è la deificazione d’un oggetto materiale, mentre l’ira, come anche i peccati d’invidia e d’orgoglio, implica una certa deificazione dell’ego, la presunzione di possedere diritti che appartengono soltanto all’Assoluto, ovvero al Supremo Sé. Comunque, alla sommità dell’anima del Santo ci sono necessariamente elementi di sublime ‘tuono e lampo’, proprio come ci sono necessariamente elementi che si può dire appartengano alla gelosia divina, dal momento che ‘lesinano’, con cauto discernimento, l’attribuzione di qualsiasi valore assoluto ad ogni cosa, tranne che al Sé. In modo simile, avendo realizzato la risposta alla domanda ‘Chi sono?’,[16] il Santo non può non partecipare all’Orgoglio Divino, che si rifletterà nella parte più esterna dell’anima, non come peccato d’orgoglio, ma come virtù di dignità e talvolta persino di maestà.

La parte intuitiva della sostanza psichica, la parte attraverso cui si può dire che l’anima colga il senso dell’Assoluto, dell’Infinito e dell’Eterno, può essere pienamente operativa soltanto se tutti i suoi elementi si trovino al posto giusto. L’anima del Santo è in perfetto ordine ed armonia; le anime decadute si trovano in uno stato di disordine che varia in modo incalcolabile da individuo a individuo. Ovviamente s’intende che parte della sostanza più elevata debba rimanere relativamente in uno stato non decaduto. Altrimenti non ci sarebbe alcun anelito per l’aldilà, e all’individuo in questione non riuscirebbe mai d’essere iniziato al cammino spirituale. Ma per quel che riguarda quegli elementi più elevati che sono disgregati e decaduti, finché non smetteranno di vivere al di sotto di loro stessi, cioè fin quando non abbandoneranno quei posti che hanno impropriamente occupato alla periferia dell’anima, ebbene lì continueranno a causare perversione o ostruzione a seconda che siano virulenti o intorpidenti.

In connessione col diffuso torpore degli elementi psichici, è particolarmente paradossale il fatto che la nozione di sincerità – o piuttosto la semplice parola, poiché raramente esprime qualcosa di più – debba apparire davvero grande nel compiacimento del ventesimo secolo, poiché la sincerità, che implica una vigilanza integrale, è proprio quel che manca all’uomo moderno. Le ormai trite parole ‘la sincerità è tutto quel che conta’ esprimono, se ben soppesate, una profonda verità; tuttavia, quasi ci si dimentica che la sincerità non può essere stabilita senza sapere riguardo a cosa si è sinceri. In altre parole, la qualità della reazione soggettiva è inestricabilmente dipendente dalla qualità dell’oggetto. Per fare qualche esempio pertinente, parlare di un ‘sincero umanista’ o di un ‘sincero comunista’ non è che una contraddizione in termini se poi la parola ‘sincero’ manca  totalmente di senso d’impiego. L’entusiasmo, lo sappiamo tutti, non è a garanzia che il soggetto sia sincero. Questo secolo, specialmente la sua seconda metà, è stato testimone delle più grandi orge d’instancabile entusiasmo, ed essendo l’oggetto, mai come prima, di così infimo valore, l’entusiasta è ridotto ad una piccola frazione d’anima, una frazione che – in modo provvisorio, così ci si auspica – s’è dichiarata indipendente dalla ragione, dalla memoria, e da altre facoltà. Tali casi non sono poi così pericolosi di per sé, ma sono in modo allarmante sintomatici d’una diffusa disgregazione psichica.

Per tornare ai meno iperbolici ma più cronici, e quindi più pericolosi entusiasmi dell’umanista e del comunista, dobbiamo soltanto considerare ciò che è l’uomo, per accorgerci che né l’umanesimo né il comunismo hanno alcunché da offrire a quelle che sono le più alte aspirazioni dell’anima umana.

Se un tale entusiasmo è tuttavia in grado di fare presa sull’intera vita d’un certo individuo, ebbene può farlo soltanto senza l’assenso dei suoi elementi più elevati; e la presenza negativa di questi elementi nella sua anima, siano essi intorpiditi o atrofizzati, sta a sottolineare una virtuale divisione interiore che impedisce qualsiasi forma di sincerità. Si potrebbe obiettare che in alcuni casi tali elementi siano pervertiti senza essere intorpiditi e che l’anima pur essendo piuttosto caotica, sia  nonostante ciò ‘tutta lì’, e quindi sia sincera; e non c’è dubbio, al riguardo dei due entusiasmi in questione, ch’essi siano capacissimi d’ottenere la loro formidabile spinta solo sviando, ad un grado elevato, i tesori latenti dell’anima di un fervore spirituale inoperoso e inutilizzato. Ma tali indebite sottrazioni non possono mai essere totali; la perversione è sempre frammentaria.

Nel suo significato più elevato, il fervore non è altro che la sete per l’Assoluto, per l’Infinito, per l’Eterno, e non ci possono essere misure comuni tra i veicoli psichici di tale fervore quando sono al loro posto, collocati alla sommità di un’anima normale, mentre soltanto una loro porzione s’è pervertita e s’è pericolosamente impantanata come parte d’un entusiasmo per qualche oggetto finito ed effimero.

Solo l’ortodossia religiosa nella sua interezza – ovvero fornita delle sue piene facoltà compresa la terza dimensione del misticismo – è abbastanza grande da conquistare l’intera sostanza psichica dell’uomo e coordinarla in una sincerità degna di questo nome. La Verità è Indivisibile Totalità e richiede all’uomo di diventare nient’altro che un tutt’uno indivisibile; inoltre è un criterio dell’ortodossia quello di rivendicare il diritto d’ogni elemento del nostro essere.

Tuttavia ci si chiede: come riesce il misticismo a determinare il contrario della corruptio optimi pessima, quel contrario che è espresso dalla pietra scartata dai costruttori ch’è divenuta testata d’angolo (Marco XII:10),[17] come anche da in Cielo ci sarà maggior gioia per un peccatore che si pente che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di pentirsi (Luca XV:7)?[18]

La prima fase dell’alchimia spirituale del pentimento è ‘la discesa agli Inferi’ così chiamata poiché in primo luogo è necessario penetrare nelle profondità dell’anima per recuperare coscienza di quel ‘peggio’ che attraverso il pentimento deve tornare ad essere il ‘meglio’. Ma deve essere compresa con chiarezza che tale discesa è del tutto diversa da qualsiasi esplorazione psicoanalitica del subconscio. La psicoanalisi moderna rientra nella casistica del cieco che guida un altro cieco; ed anche se la guida fosse meno cieca di colui che viene guidato, non si tratta d’altro che d’un anima che lavora su un’altra anima, senza l’aiuto d’alcuna forza trascendente. Ma in un cammino spirituale degno di tale nome, la guida è lo stesso Spirito, personificato nel Maestro, ed operativo nei riti che permettono l’avanzata del ‘viaggiatore’. Tuttavia la parola ‘discesa’ non deve trarci in inganno. Nell’epica dantesca, senza meno per motivi formali, Inferno e Purgatorio sono separati. Tuttavia, sebbene egli non riesca a rappresentare se stesso nella discesa verso l’abisso infernale in contemporanea all’ascesa della Montagna del Purgatorio, il processo di presa di coscienza della colpa e quello di purificazione sono in realtà, per molti versi simultanei; né potrebbe essere altrimenti.

Ciò che l’anima non è in grado di fare per se stessa o per un’altra anima, può essere realizzato dallo Spirito, la cui presenza, veicolata dai riti, richiede come ricettività la presenza dell’anima nella sua interezza. Gli elementi psichici pervertiti non possono fare a meno di manifestarsi, ma lo fanno malgrado loro, ed alcuni si presentano sotto forma d’ira, ancora avviluppati da forze infernali.

Da questo punto di vista è più giusto dire che l’Inferno salga più che il mistico discenda; ed il risultato di quella ascesa è una battaglia[19] di cui l’anima rappresenta il campo di battaglia. Ciò corrisponde a quella che nel Sufismo è chiamata la Grande Guerra Santa.[20] Quegli elementi che sono divenuti le possibilità più basse dell’anima devono essere liberati dalle forze dell’oscurità e costretti a rinunciare a quelle relatività che li tengono legati in modo eccessivo. È inutile dire, la guerra contro l’anima,[21] cioè contro i suoi mali interiori, non si vince facilmente. Ma se la parte fondamentale dell’anima è costante, e continua ad utilizzare quelle invincibili armi che lo Spirito le ha fornito, il nemico si arrenderà.

Una volta svuotati dei loro indegni contenuti e sgravati delle illusioni che li avevano resi ottusi ed inutilizzabili, gli elementi riscattati devono poi essere ben considerati nella loro vera natura. Si può dire che questa fase d’amore e di rimembranza segua quella della paura e della rinuncia, poiché il timore nei confronti del Signore è l’inizio della saggezza; ma anche qui c’è una sorta di simultaneità, nel fatto che l’amore è un fattore essenziale nell’alchimia della purificazione. Amore significa consapevolezza dei legami con l’Assoluto, ed è soprattutto tale consapevolezza che ha il potere di sciogliere i legami con la relatività. Si può dire che lo Spirito si rivolga agli elementi dell’anima decaduta esattamente con quello stesso messaggio che originariamente li aveva sedotti; ma questa volta il messaggio è vero, ed un messaggio vero è infinitamente più potente di uno falso: O Adamo, vuoi che ti mostri l’Albero dell’Immortalità ed un Regno che non tramonta mai? Agli elementi in questione, quelli che non furono concepiti che per il trascendente, ora viene soltanto chiesto di conformarsi alla propria natura, in modo che siano in grado di dimostrare quanto questa promessa di trascendenza, prima o poi, diventi irresistibile, di qui l’esaltazione da parte dei maestri spirituali di tutti i tempi e di tutte le religioni delle virtù della risolutezza, della perseveranza, della pazienza e della fiducia.

 



[1] Lo Spirito, nella dottrina dell’Islam, è la vetta e la sintesi di tutta la creazione, che s’apre all’Increato e quindi che possiede implicitamente, se non esplicitamente, l’Aspetto Increato che altro non è che la Terza Persona della Trinità Cristiana. Secondo quanto ci dice lo Sceicco al-‘Alawi, nel suo trattato sul simbolismo delle lettere dell’alfabeto, la lettera ba’, che ha valore numerico di due, è un simbolo dello Spirito. Si veda Un santo Sufi del XX° secolo (Mediterranee – 1994), capitolo 7.

[2] Ciò riguarda non solo il tre in se stesso, ma anche la sua potenza, ovvero tre per tre.

[3] In arabo la lettera waw ed in ebraico la lettera vav hanno entrambe il valore numerico di sei, e ciascuna ha valenza, nel proprio rispettivo linguaggio, di mediatrice linguistica, propriamente la congiunzione ‘e’.

[4] Questa riserva è forse necessaria poiché il settenario in questione sembra essere arbitrariamente incompleto, a meno che noi consideriamo gli specifici peccati per includerne implicitamente altri non esplicitamente menzionati ma che sono comunque strettamente affini. Prima di tutto, è bene ricordare che alcuni dei peggiori eccessi dell’uomo scaturiscono dalla partecipazione di due o più dei sette peccati. Per esempio, atti di terrificante crudeltà possono risultare dalla combinazione di peccato d’orgoglio, d’invidia, e d’ira, e ancora di più se questa triade narcisistica trovasse solide basi in un’avarizia così indurita da non lasciare spazio al benché minimo barlume di generosità.

[5] Inutile dire, ci sono molti gradi d’ira che stanno tra i due estremi; per esser più precisi, sebbene l’ira sia raramente santa, spesso è giusta e quindi spesso non è peccaminosa. Il peccato implica un eccesso di violenza sproporzionata alla causa, una più o meno completa perdita di controllo, e perciò di centralità, una momentanea sospensione di qualsiasi coscienza superiore; di contro la santa ira è come se fosse un flusso di coscienza superiore, una marea che dal centro straripa verso l’esterno.

[6] I detti del Profeta dell’Islam

[7] Ciò riporta alla mente la promessa Coranica a coloro che si pentono con sincerità: Dio cambierà i loro mali in beni, e Dio è Colui che tutto perdona, il Misericordioso (xxv: 70).

[8] Si veda sopra a pag. 55.

 

[9] La dottrina dei peccata capitalia può esser fatta risalire sin dai tempi di Serapione, vescovo di Thmuis presso il delta del Nilo a metà del IV° secolo. Avendo stabilito otto peccati capitali, ne conteggiò soltanto sette, e quando gli fu chiesto dell’ottavo, rispose che era la condizione elementare dell’anima sotto l’influsso del peccato, condizione simbolizzata dalla prigionia degli Israeliti in Egitto. Ora tale prigionia era uno stato intermedio tra due libertà, l’otto è infatti simbolo dell’intermedio o del transitorio, il che può essere negativo, come in questo particolare caso, ma può anche essere positivo, come peraltro neutrale.

[10] Per quel che riguarda ciò che da un certo punto di vista potrebbe essere considerato come aspetto negativo, l’otto ha un effetto ‘mortale’ sul ‘cinque’ (l’uomo), dal momento che il numero ottenuto dalla loro moltiplicazione è il quaranta, che in molte diverse tradizioni rappresenta il numero della morte. Inoltre, in astrologia, delle dodici case che costituiscono l’intero cerchio celeste, è l’ottava che sta a significare la morte; ed in tale connessione possiamo ricordare che l’ottavo segno dello zodiaco è lo Scorpione, il cui geroglifico, la lettera M con un segno terminale uncinato, è doppiamente simbolico della morte, per il motivo del pungiglione della coda e poiché la stessa lettera sta per mors. Ma la morte non è necessariamente negativa, e  se la consideriamo come transizione da uno stato all’altro, il simbolismo ‘mortale’ dell’otto può essere incluso nel complessivo significato del numero, quale simbolo dell’intermedio, che è ciò che stiamo qui considerando. Si veda anche, in relazione a ciò, pag. 74, nota 1.

[11]  Simboli fondamentali della scienza sacra (Adelphi – 1987), capitolo 44.

[12] Come, ad esempio, quando riesce a sviare Mosè e Giosuè ch’erano quasi sul punto di raggiungere le Acque della Vita.

[13] Il Corano qui rappresenta Satana che tenta Adamo, non attraverso Eva, ma in modo diretto, ed in altri passaggi si rivolge a loro quando stanno assieme.

[14] È privo d’ogni fondamento reale sostenere che nessuna singola anima possa essere ritenuta responsabile di ciò che è avvenuto ‘attraverso i secoli’ e che la sua responsabilità inizi solo con la sua nascita su questo mondo. Secondo le religioni più antiche, che possono ancora permettersi di insegnare, con obiettivo realismo, certe verità secondarie che le religioni più recenti hanno ben ritenuto di velare – senza dubbio per far sì che i propri fedeli meno qualificati non siano distratti dall’essenziale – il nostro mondo non è altro che uno d’una infinita sequenza di mondi, una periferica catena di morti e rinascite denominata dall’Induismo e dal Buddismo come samsara. Tutte le fedi sono d’accordo che la religione è l’unico mezzo per fuggire dalla periferia al centro; ma la dottrina del samsara afferma espressamente che quando un individuo entra in un mondo, la particolare eredità e l’ambiente in cui nasce in quel mondo, sono la risposta esatta a tutti i meriti conseguiti nel suo precedente stato, ovvero al suo karma. Si può dire che le religioni più recenti implichino ciò affermando che Dio è Giusto e che i bambini non nascono innocenti, di qui la dottrina del peccato originale. In altre parole, anche se Ebraismo, Cristianesimo, ed Islam non riconoscano esplicitamente precedenti stati di esistenza, la realtà li obbliga quantomeno a considerare ogni essere come se fosse venuto al mondo con un carico di colpe già addebitate. Si veda, in riferimento al samsara, Martin Lings, L’undicesima ora (Settimo Sigillo – 2003).

[15] Abu Bakr Siraj ad-Din, The Book of Certainty, capitolo 6 (Cambridge, 1991). Si veda anche ibidem, il capitolo 5 su tale punto.

 

[16] Il riferimento è alla questione metodologica che è alla base dell’insegnamento di Sri Ramana Maharshi.

[17] Si veda anche Matteo XXI:42 e Luca XX:17. Non viene propriamente espresso da queste parole nel loro senso più elevato, così come sono citate da Cristo e commentate da San Paolo, ma in un senso più relativo, riguardo ciò ch’è insito alla parabola del figliuol prodigo. Il loro originale contesto nei Salmi (CXIII:22) è direttamente, sebbene non in modo esclusivo, suggestivo di tale ulteriore interpretazione relativa:

Il Signore m’ha castigato duramente: ma non mi ha abbandonato alla morte

Aprimi i cancelli della rettitudine: io v’entrerò, e pregherò il Signore…

Ti pregherò: poiché Tu mi hai ascoltato, e sei venuto in mio soccorso.

La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta testata d’angolo.

[18] Questa ‘giustizia’ è esattamente analoga alla simmetria della maggioranza delle pietre. D’altro verso, la mancanza di simmetria per cui la chiave di volta fu rifiutata, considerandola deforme rispetto agli standard abituali, una volta che questa pietra ha assunto la sua giusta collocazione alla sommità del suo arco, appare come estensione di celestiale sopraformalità, peraltro nel simbolismo massonico, come vedremo, l’arco è uno dei simboli fondamentali del Cielo.

 

[19] Molto di quel che sta in questo paragrafo, ho avuto già modo di pubblicare altrove, con riferimento a Shakespeare. Non ci sono dubbi che in età matura egli fu profondamente conscio di quel che si sta considerando qui, ovvero dello sviluppo dell’anima verso l’umana perfezione, che presuppone la redenzione e l’integrazione di tutte quelle parti della sostanza psichica che si trovano fuori posto. In più d’una delle sue tarde opere teatrali ci viene mostrato l’improvviso destarsi degli elementi intorpiditi in un anima fin a quel momento inconsapevole della loro esistenza. Due dei personaggi in questione sono Angelo in Misura per misura e Leonte nel Racconto d’inverno. Si veda Il segreto di Shakespeare (Athanor – 1985).

[20] Si veda Muhammad: his life from the earliest sources (Inner Traditions – 1983).

[21] Definizione del Profeta della Grande Guerra Santa

 

Martin Lings tradotto da Eduardo Ciampi

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