Il Neoplatonismo e le sue origini

Il neo­platonismo nasce e si manifesta sulla base dell’orientamento religioso che prevale nella filosofia dell’età alessandrina e dell’evoluzione dello stoicismo romano dell’ultima stoa, che si caratterizzò in un sempre minore interesse verso i  problemi di natura logica e gnoseologica. Mentre a Roma lo stoicismo si evolveva nel modo su descritto, in Alessandria si sviluppavano filosofie di carattere marcatamente spirituale, mistico e religioso. Così la speculazione sui temi riguardanti, ad esempio, la teoria del “fuoco universale”, di cui una scintilla sarebbe presente in ciascun essere umano, si trasferì da una concezione fisica ad una essenzialmente metafisica e panteistica, per sfociare definitivamente in una visione ascetica e introspettiva. L’uomo, pertanto, poteva conquistare la sua vera libertà nel momento in cui fosse riuscito a liberarsi da ogni interesse di carattere materialistico ed esteriore e a rivolgersi verso la propria interiorità dove, solo, avrebbe ritrovato la divinità presente in lui. Uno dei principali tentativi fu quello di unificare e di fondere l’insieme delle antiche sapienze greche ed egizie. Si cercò di conciliare e di trovare una estrema sintesi tra il platonismo, il neopitagorismo, la magia babilonese, la religione ebraica, fino al misticismo indiano. Di questo possiamo trovare significative testimonianze nei libri degli Oracoli caldei attribuiti ad Ermete Trismegisto e comparsi tra il I e il III secolo dopo Cristo, nelle opere di Apuleio da Madaura (Madaura 125-170) e negli scritti del “platonico” Numenio da Apamea (Apamea II secolo d. C.) a cui si attribuisce la seguente asserzione: “Occorrerà che chi si è espresso con le testimonianze di Platone, risalga e si ricolleghi ai detti di Pitagora, faccia appello ai popoli che salirono in fama, allegandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono giudei, brahmani, magi ed egizi”. Una vasta sintesi, pertanto, che avrebbe influenzato tutto il corso del pensiero cristiano e, per tramite di questo, anche quello del pensiero moderno. Il Neoplatonismo, dunque, recupera l’antica tradizione arcaica ripercorrendo le orme dei grandi filosofi greci. Per il greco Eraclito, (Efeso 540-480 a C.) la prima condizione per giungere alla conoscenza è che l’uomo “indaghi se stesso”  che guardi dentro di sé e nel proprio infinito mondo interiore: “Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda la sua ragione”. La seconda condizione è la comunicazione fra gli uomini: ciò che accomuna gli uni agli altri e, nello stesso tempo, costituisce la più intima essenza dell’uomo, è il “logos”, il pensiero. Il logos rappresenta il filo comune che unisce gli uomini “desti”, aperti alla comunicazione tramite la ricerca; la stessa che determina l’indole dell’uomo (ethos) e, di conseguenza,  il proprio destino. Il cercare assume un doppio significato nel suo volgere verso la conoscenza, in quanto non ha  solamente valore contemplativo (noesis), ma diviene anche saggezza di vita e di comportamento (fronesis). Anassimandro (Mileto circa 610-547 a.C) si  pone  per  primo  il  problema  di  cercare una risposta sul modo in cui avvenga il processo di derivazione dall’origine e lo indica nella “separazione”. Essa si realizza nella nascita, la quale attuandosi implica la separazione dall’essere originario. E’ dunque una rottura dell’unità e della armonia, dalla quale si separano gli opposti che in essa si compongono: caldo e freddo, secco e umido, finito e infinito, ecc.. Questa separazione, o nascita, secondo Anassimandro è dovuta ad una colpa che consiste nell’atto stesso, inteso come rottura dall’unità e che solo con la pena del vivere potrà essere espiata, per concludersi infine con la morte ed il conseguente ritorno all’unità. Ma il ritorno al principio creatore è opposizione, lotta, discordia, bisogno di ricongiungere il dissonante all’armonico, il discorde al concorde, l’incompleto al completo, poiché solamente dalla riunificazione degli opposti scaturisce l’unità, mentre da essa scaturiscono gli opposti. Il neoplatonismo venne fondato da Ammonio Sacca (175-242 d.C.), ma il principale e maggiore esponente fu il suo allievo Plotino, nato in Egitto, a Licopoli nel 205 e morto a Minturno, in Campania, nel 270. Plotino ebbe anche modo, in occasione di una spedizione romana in Persia avvenuta intorno al 244, di conoscere le dottrine dei maestri sapienti indiani, rimanendone profondamente influenzato. Il rigore morale, la profondità e l’ansia religiosa di questo filosofo cosiddetto pagano, nulla hanno da invidiare al Cristianesimo che, anzi, ne riconobbe il valore della tensione ascetica avvalendosi della sua speculazione. Il pensiero di Plotino è stato tramandato tramite una raccolta di trattati, riordinati dal suo discepolo Porfirio in cinquantaquattro libri suddivisi in sei gruppi di nove saggi dal titolo Enneadi (da “ennéa”, che in  greco significa nove). Il significato di Enneade nell’antico Egitto subirà una metamorfosi fino a rappresentare una persona divina le cui membra conserveranno ognuna un’esistenza distinta, formando, al contempo, nove persone in una. Porfirio ordinò i trattati seguendo uno schema ascensionale che parte dalle realtà inferiori in senso ontologico (etica ed estetica), le realtà mondane e la vita terrena (fisica e cosmologia), passa per i livelli metafisici come la provvidenza, gli elementi demoniaci, l’anima e le facoltà psichiche (psicologia), il puro livello intellettivo (metafisica), la realtà divina suprema (logica e teoria della conoscenza) fino a giungere all’l’Uno, origine e meta finale di tutto l’essere. Il suo stile letterario, oltre a mostrare una grande sensibilità verso i miti e la religiosità degli antichi, talvolta è espresso per immagini, per allegorie o per simboli. Questo tipo di tecnica era finalizzata a favorire la comprensione dei contenuti letterari più difficoltosi. La lettura dell’opera, complicata e impegnativa nel contenuto ed ermetica nella esposizione, presuppone una notevole concentrazione e la conoscenza delle filosofie antiche e della mitologia. Al centro della dottrina neoplatonica traspare un progetto di ricostruzione dell’uomo, di natura prevalentemente spirituale e religiosa, che vuole stabilirne il ruolo e con esso il determinarsi del rapporto con il mondo e con il divino. Significa, peraltro, definire la propria collocazione al cospetto del cosmo, divenendo un rapporto  agente in una posizione intermedia tra il mondo materiale e la perfezione divina. In altri termini l’uomo, riprendendo l’antica tradizione greca ed ermetica, può stabilire la propria identità, ovvero la propria esistenza, ponendosi in rapporto tra ciò che è “fuori da sé” e ciò che è “dentro di sé”, divenendo egli stesso un rapporto agente nell’ambito di tali rapporti. Stabilire la propria collocazione rispetto al cosmo significa determinare anche il proprio ambito di libertà e di responsabilità nella ricerca e nella  conoscenza. In questo modo, nella filosofia di Plotino, ritorna centrale e dominante il concetto di coscienza, che già si era affacciato nella speculazione degli stoici, per indicarla come introspezione o auscultazione interiore. Egli adopera espressioni come: “ritorno a se stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé” e  contrappone questo tipico atteggiamento del saggio a chi invece, nella condotta della propria vita, si rivolge alle cose esterne e materiali. Nel ruolo di mediazione che attribuisce all’uomo, egli riprende il tema dell’unità che fu di Anassimandro e che considera essenziale al vivere, definendolo con il termine di Uno, concepito come infinito. In polemica con il Cristianesimo Plotino afferma che l’Uno, in quanto infinito, è ineffabile e di lui si può dire soltanto ciò che non è, ovvero a lui non si addice alcuna qualità o determinazione. Dio è al di là dell’essere, della sostanza e della mente, così da essere trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e contenendole tutte in sé. Questo tipo di concezione di fronte alla ineffabilità e assoluta trascendenza del divino è definito teologia negativa. In linea con tutta la tradizione greca, Plotino difende il politeismo come conseguenza necessaria della infinita potenza della divinità: «Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa». Ancora in polemica con il Cristianesimo e come conseguenza di queste tesi, Plotino affronta e risolve il problema della creazione e del processo di derivazione del molteplice dalla semplicità dell’Uno indicandolo come emanazione. Il mondo e tutto il molteplice sgorga da Dio attraverso un processo degradante che avviene per stadi, simile alla luce che si spande dal sole o al calore irradiato da un corpo caldo. Per cui da Dio, che rimane Uno e immutabile, discendono i molti da cui derivano i gradi successivi di realtà, ognuno emanato dal precedente. L’emanatismo ammette una gerarchia degli esseri in relazione alla lontananza da Dio, che si traduce in un progressivo degrado e perdita della perfezione. Ogni stadio del processo emanativo è detto ipostasi. L’Uno è la prima ipostasi, totalmente trascendente  e superiore anche all’”essere” di Parmenide (Elea 515-450 a. C.) in quanto il concetto di essere deriva dagli oggetti dialogici dell’esperienza umana. La seconda ipostasi è il nous (l’essere parmenideo) o intelletto puro. Il termine nous è il termine con cui Plotino indica piena “identità indivisa di soggetto e oggetto”, dove non sussiste alcun dualismo, in quanto è auto-contemplazione dell’Uno, un traboccare estatico: estasi significa “uscire fuori da sé”. Il significato greco di noesis è infatti auto-intuizione o autocoscienza. Dal nous, o intelletto, promana l’anima del mondo, che procede dall’autocontemplazione dell’intelletto, ma in questo caso è una unione tra essere e pensiero mediata dal nous, che rende possibile il ragionamento discorsivo-dialettico e che  da origine a sua volta  all’anima umana e animale e, infine, alla materia. Quest’ultima non viene considerata una vera e propria ipostasi, ma un semplice “non essere”, indicato come il luogo estremo della discesa e delle illusioni sensibili e concepito da Plotino come privazione di realtà e di bene. La materia è all’estremo inferiore della scala alla cui sommità c’è Dio. Essa è l’oscurità che comincia là dove termina la luce, quindi diviene non-essere e male. L’uomo partecipa del mondo sensibile nella corporeità e di quello intellegibile con l’anima. Lo scopo dell’esistenza umana è per Plotino quello di tendere a cogliere l’intuizione del nous, tramite la rinuncia al mondo materiale e corporeo e, grazie ad una pratica purificatrice colta col pensiero, al raggiungimento della unione estatica con Dio. Il ritorno a Dio è un processo di crescita spirituale dell’uomo, che ripercorrendo in senso inverso il cammino delle emanazioni, si eleva fino alla divinità. Le tappe per questo percorso ascetico sono: il rispetto dei dovei sociali e delle virtù civili, tramite le quali l’anima si rende indipendente dal corpo (morigeratezza, rinuncia); la contemplazione della bellezza, la pratica e il godimento dell’arte; l’amore; l’amore per la sapienza e la pratica della filosofia; il superamento finale di ogni dimensione razionale nel raggiungimento dell’estasi. Le parole che seguono, rendono evidente il ruolo di  tensione mediatica e di libertà che Plotino assegna  all’uomo  durante la sua esistenza: “Noi diciamo di patire quando il nostro corpo patisce. Il noi designa dunque due cose: o la bestia aggiunta all’anima o ciò che è sopra la bestia: la bestia è il corpo vivente. Ben diverso è l’uomo vero e puro da queste passioni bestiali, possessore delle virtù intellettuali che risiedono nell’anima stessa separata: difatti anche quaggiù essa può separarsi dal corpo, perché quando lo abbandona del tutto quella vita, che da essa irraggia, se ne va con l’anima e l’accompagna [...] L’uomo è un composto di anima e di corpo: egli può appiattirsi sulla dimensione del corpo o elevarsi a quella dell’anima. L’anima e il corpo diventano così due modi di essere: il primo ci rende liberi, il secondo ci accomuna alle bestie [...] Fuggiamo dunque verso la nostra cara patria, questo è il consiglio vero che vorremmo raccomandare [...] La nostra patria, da cui siamo venuti, è lassù, dove è il nostro Padre. Ma che viaggio è, che fuga è? Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all’altra; né devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare il tuo modo di vedere con un’altro, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano [...] Cercate di congiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo”. Fra tutte le creature  viventi, l’uomo  è l’unico  ad essere dotato della libertà di autodeterminarsi, capace di invertire la necessità della dispersione, volgendo lo sguardo alla contemplazione dell’intellegibile, mediante la risalita o conversione (epistrofé). La condizione affinché questo avvenga è il “sentire”, inteso come “intuire” l’esigenza del ritorno all’unità, che è prerogativa del sapiente, ovvero di colui che “conosce” la meta da raggiungere.

Sandro Secci

 

Riferimenti bibliografici:

Plotino Enneadi, Rusconi Milano 1992;

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, antichità e medioevo, Garzanti Milano 1970;

N. Abbagnano, Il pensiero greco e cristiano dai presocratici alla scuola di Chartres, Gruppo Ed. l’Espresso Roma 2005;

 

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