L’unità organica della conoscenza secondo la Tradizione

L’unità organica della conoscenza secondo la Tradizione

In questo articolo vogliamo affrontare il tema dell’Unità metafisica della conoscenza (concetto a noi particolarmente caro) da un punto di vista organico così come lo intende la Tradizione.  Il tema dell’Unità metafisica, peraltro, è stato il filo conduttore di tutti i nostri precedenti articoli, benché talvolta lo abbiamo solamente  accennato brevemente o superficialmente. A nostro avviso un riferimento che risulti adeguato a questo tipo di speculazione è da farsi alla dottrina induista del Veda, in quanto è necessario cercare di mantenere un orientamento, citando ancora Evola, “dall’alto verso l’alto”. E’ fondamentale una visione metafisica “pura” di tale concetto, priva di qualsiasi forma di dualismo e di contrapposizione tra spirito  e materia (per usare due termini moderni, che in questo caso non si rivelano particolarmente adeguati) e che solo il riferimento a quella Tradizione ci può garantire. In essa, infatti, non si considera il dualismo in antitesi tra spirito e materia, come si potrebbe erroneamente pensare, si tratta, bensì, di un antagonismo illusorio, esclusivamente metafisico, che si identifica e deriva da un unico Principio e Origine. Questo apparente dualismo è costituito da Purusa e Prakrti, Principio dell’assoluto non-manifestato e manifestato. In questa entità metafisica Purusa costituisce l’essenza, mentre Prakrti è l’esistenza o,  per usare un termine aristotelico, la sostanza. Pertanto si tratta, non di due realtà separate e distinte fra loro, ma di due “caratteri” del Principio unico a cui appartengono, ontologicamente indirizzato su un piano di manifestazione essenziale, sostanziale ed esistenziale. A questa visione unitaria si potrebbe obiettare argomentando che vi siano state differenti ramificazioni metafisiche e cosmologiche della dottrina vedica, succedutesi e sviluppatesi nei secoli, ma questa non riteniamo sia la sede adatta a dimostrare come queste dottrine non contengano, a rigore, contraddizioni e differenze tali da poter parlare di eterodossia o di ortodossia né, tanto meno, di sincretismi o contrapposizioni. Su questo tema invitiamo a fare riferimento al saggio di René Guenon: L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta. Infatti, Guenon ci spiega che:

“La dottrina del Veda, vale a dire la Scienza Sacra tradizionale per eccellenza, poiché tale è il senso proprio di questa parola, è il principio e il fondamento comune di tutti i rami, più o meno secondari e derivati, che sono quelle concezioni diverse di cui alcuni hanno fatto, a torto, altrettanti sistemi rivali e contrapposti (la radice “vid” da cui derivano Veda e vidya, in latino “videre”, significa nello stesso tempo “vedere” e “sapere”. La vista è presa come simbolo della conoscenza di cui è il principale strumento nell’ambito sensibile. Questo simbolismo è trasposto fin nell’ordine intellettuale puro, dove la conoscenza è paragonata a una “visione interiore” come indica l’uso di termini come “intuizione” ad esempio).  In realtà, queste concezioni, fintanto che sono in accordo con il loro principio, non possono evidentemente contraddirsi fra loro, e al contrario non fanno che completarsi e chiarirsi a vicenda.” 

Questa Unità identitaria, essenziale e sostanziale, in Mandukya Upanisad, III, 7, viene spiegata nel modo seguente:

“Come l’aria racchiusa nella brocca non è una trasformazione, né una parte dell’aria esterna ad essa, così il sé individuale non è né una trasformazione né una parte del Sé universale.”

Dietro la molteplicità apparente vi è una realtà intenzionale: l’Unità sta nel Fine, che equivale e corrisponde al Principio, ovvero rappresenta il punto coincidente di Origine e Orizzonte allo stesso tempo. Il rapporto tra Unità e molteplicità è il medesimo che intercorre tra qualità e quantità e tra essenza ed esistenza e possiamo spiegarlo richiamandoci all’Uno di Plotino e al processo di emanazione degradante delle ipostasi. Già nel Veda si parla dell’Uno, che nelle Upanisad è rappresentato come Origine divina, Fonte e Fine di tutti gli esseri. Nell’inno 90 del libro X° del Rgveda viene affrontato e risolto il rapporto tra l’Unità e il molteplice: Purusa è allo stesso tempo trascendente ed immanente, ma nel senso che l’immanente  non può esistere separatamente e indipendentemente dal trascendente, bensì è con esso in rapporto di coessenzialità; e dunque Prakrti può essere considerata la parte immanente di Purusa. Viene esclusa qualsiasi forma di eterodossia o sincretismo; anzi, al contrario queste cominciano laddove vi è contraddizione e frammentazione. In fondo non è altro che l’ambizione individualista dell’uomo moderno a tendere verso la frammentazione e ad allontanarsi dal Principio, sospingendo all’estremo relativismo ogni forma di conoscenza, che in questo modo viene ridotta a “scienza” e a “sistema”. Risulta evidente che la conoscenza metafisica, la quale considera illusoria la realtà (nel significato che le attribuiamo noi occidentali) e tutto ciò che appartiene all’ambito individuale, è svincolata da ogni contesto relativo e da tutte le contingenze particolari, anche religiose o filosofiche, quando queste abbiano la pretesa di costituire un “sistema”. Infatti la metafisica è essenzialmente “conoscenza dell’Universale” e pertanto non può lasciarsi racchiudere in alcun tipo di sistema in quanto, proprio perché chiuso, è sempre relativo e dunque illusorio. D’altronde,  perfino Leibniz aveva dimostrato come la concezione meccanicistica cartesiana non  potesse avere altre pretese se non quella di “rappresentare” soltanto le apparenze esteriori delle cose, per questo illusorie e senza alcun valore esplicativo. Abbiamo più volte definito il carattere predominante della scienza moderna come oggettivo e quantitativo, ma se il riferimento alla Tradizione è sempre e incondizionatamente il Principio, qui allora non può che trattarsi di qualità pura. Questo significa che la moderna concezione dell’esistenza tende ad allontanarsi, gradualmente ma inesorabilmente, da quel Principio di Unità che abbiamo definito “qualità pura”, la cui direzione degrada sempre più verso un’esistenza quantitativa e sempre meno qualitativa. La nostra epoca è governata principalmente da una continua rincorsa verso una crescita economica e, quindi, materialistica e quantitativa. Si assiste, quale conseguenza di questa follia, tutta umana e prevalentemente occidentale, ad una mercificazione disinvolta e spregiudicata, dalla quale neppure gli esseri umani sono dispensati, di tutto ciò che può avere una collocazione di “mercato”, ovvero che possa essere acquistato o venduto in cambio di un corrispettivo. Il valore di ogni uomo viene misurato in base a ciò che possiede in termini di ricchezza materiale e alla sua capacità di accrescere tale ricchezza. La conseguenza di questo ha portato ad una semplificazione e ad un appiattimento uniformante del pensiero e alla suddivisione nel mondo in due sole categorie semplici di persone, catalogabili come “offerenti” e “consumatori”. In un simile contesto sociale il valore ha dovuto cedere il suo primato sul prezzo e, di conseguenza, il concetto di quantità ha preso il sopravvento su quello di qualità. L’apparire e il possesso materiale sono divenuti l’ossessione perpetua, in luogo dell’essere se stessi o del divenire se stessi. Sono venuti meno quei bisogni legati, e solidamente strutturati, a più nobili ad elevati concetti, appartenenti a quei valori perdenti o perduti. Le società moderne, le società materialistiche, proiettano il proprio io nella semplicità dell’esistenza, negandone la complessità mediante un rifiuto, o rinuncia: credere che a nulla possa valere succedere la problematicità alla semplicità. Così facendo mettono in atto il dissolvimento del bisogno della possibilità, ovvero limitano il proprio orizzonte visivo e indirizzano l’esistenza in una direzione obbligata e circoscritta, sempre più verso l’oscurità di un individualismo quantitativo. Affinché non vi siano equivoci con la moderna interpretazione del termine “valore”, anche qui prevalentemente quantitativa, si rende necessario fornire un chiarimento sull’interpretazione che vogliamo adottare, di cui è preminente il significato ontologico e tradizionale. Con Platone il fondamento del concetto di valore sta nell’equiparazione di Buono=Bello=Vero. Questa concezione è stata assunta anche dal Cristianesimo, poiché Dio, oltre che onnisciente e onnipotente, è l’essenza della bontà, della bellezza e della Verità. Il concetto di bene, nel suo processo di manifestazione, assume un significato pragmatico e si identifica con quello di “azione buona”, opponendosi a quello di male. Anche a questo proposito, il secondo termine ha assunto nella storia del pensiero occidentale sia un significato morale che ontologico. Nel pensiero orientale il male è anche gnoseologico, perché corrisponde alla “ignoranza del Divino e del Vero”. Dunque il valore diviene un fine e non può subire alcuna limitazione quantitativa né, tanto meno, mercificatoria. Nella società antica, a differenza di quella moderna (se ancora questa può chiamarsi legittimamente società) governava una unità sostanziale, che si manifestava nella ritualità dei gesti quotidiani (mangiare, dormire, andare a pesca e a caccia, offrire sacrifici alla divinità, etc.). Questi gesti, nel richiamarsi continuamente al Trascendente, si fondavano sull’identità unitaria e immediata del singolo con l’assoluto. In questo senso l’Unità diveniva organica, in quanto nessun atto o azione erano esclusi dall’essere compresi essenzialmente e sostanzialmente nella Qualità Divina Trascendente. Identità che viene spazzata via dall’avvento dirompente del moderno meccanicismo quantitativo e dal razionalismo, che degenera nell’ambito dell’individualismo più becero. La volontà soggettiva non era che un momento dello Spirito Universale, dove il singolo era realmente ed effettivamente parte integrante dell’assoluto e dello Spirito Universale e con esso si identificava. Nessun particolarismo turbava il senso etico e la società era caratterizzata da una simbiosi compenetrante tra individui e comunità e dunque tra corpo sociale e assoluto. In quel contesto nessuno dei componenti assumeva carattere individualistico o un ruolo diverso da quello che gli competeva; ognuno si sentiva ed era realmente un “momento cosmico”, allo stesso tempo essenza e forma, che nella tradizione indù viene designato come nāma e rūpa. Il principio formale compenetrava il principio materiale e ne costituiva l’essenza. In questa simbiosi si costituiva la vera Unità organica metafisica del particolare nell’universale. Questo percorso temporale, che va dalla Tradizione all’era moderna, secondo una visione post-tradizionale assume un carattere storico, in quanto si è voluto stabilire un “punto di rottura” tra due tipi di concezione cosmica. Ma mentre per i moderni il punto di rottura in questione costituisce una “separazione” netta e inconciliabile tra due fasi storiche differenti, per noi il termine “rottura” costituisce un punto di collegamento tra due fasi cicliche del nostro Manvantara. Esso è “un ponte e un passaggio” e “discesa verso l’oscurità”; il che ci riconduce al concetto delle fasi cicliche appartenenti all’ambito tradizionale. Nella dottrina indù, ma non solo,  si fa riferimento al movimento unitario dei cicli cosmici (in antitesi col tempo storico lineare) di evoluzione e involuzione dell’universo. Uno dei cicli è il Kalpa, che equivale a un giorno di vita di Brahama e comprende sette  Manvantara, durante i quali avvengono i processi di emanazione del manifestato: il pralaya, che equivale alla distruzione parziale  e alla rigenerazione del cosmo e il mahapralaya, che equivale alla sua distruzione totale, in coincidenza con la fine della vita di Brahama.  Secondo questa concezione nella nostra epoca viviamo gli ultimi anni del settimo Manvantara, che corrisponde al massimo grado di decadenza e oscurità di un Kalpa, in cui gli esseri umani improntano la propria esistenza concependola quantitativamente e perdendo di vista, a causa del loro continuo allontanarsi dal Principio, la propria Origine e il proprio Orizzonte. Il punto più basso e più oscuro a cui la nostra epoca deve sottostare  corrisponde ad una esistenza basata sulla quantità pura, estranea a qualsiasi concezione qualitativa. Da questo punto di vista la nostra percezione della realtà equivale ad un’ombra riflessa  o a un’immagine invertita in cui, come nel mito della caverna di Platone, gli uomini incatenati scambiano la falsa realtà delle ombre riflesse sul muro con la Verità alle loro spalle, nascosta ai loro occhi. Analogamente nella Tradizione mitologica greca si sono teorizzati i cicli di decadenza come Età: Età dell’oro, Età dell’argento, Età del Bronzo ed Età del Ferro, che equivale alla nostra attuale epoca. La connessione identitaria tra Origine e Orizzonte, che si compie alla fine di ogni ciclo, annulla e dissolve l’apparente contrapposizione  tra Origine (nascita) e Ritorno (morte, ovvero Orizzonte). L’incontro tra i due poli metafisici rappresenta il Reale punto coincidente del “cerchio vitale e magico”. Il simbolo del cerchio, infatti, rappresenta la sintesi unitaria in quanto non ha né inizio, né fine. Esso simboleggia l’infinito, l’universo e il ciclo vitale che si ripete. L’energia cosmica che lo anima è composta da cinque forme, anch’esse simboliche: Terra, Aria, Fuoco, Acqua e Spirito. La capacità di sintesi consiste nella consapevolezza della realtà illusoria che ci circonda e nella quale siamo immersi; consiste, inoltre, nella conseguente completa assimilazione della molteplicità degli elementi essenziali e sostanziali nell’Unità organica e qualitativa dell’esistenza, che il cerchio rappresenta. Tale Unità si completa nel percorso di Ritorno all’Origine, alla base del quale vi è l’intuizione misteriosofica, capace di correlare l’Idea con la Forma e con l’Essenza. Questo tipo di intuizione è, a sua volta, il punto di “rottura” e di “risalita” di un cammino iniziatico che necessità di capacità di sintesi unitaria, spirituale e interiorizzata, oltre ad una forte sensibilità etica capace di trascendere la materialità e i suoi bisogni. In chiusura di questo articolo desideriamo mettere in risalto le seguenti considerazioni di René Guénon:

“Bisogna concludere che fino a quando il punto più basso non verrà raggiunto dall’umanità queste cose non potranno essere comprese dalla maggior parte della gente, ma soltanto dall’esiguo numero di coloro che saranno destinati, in una misura o un altra, a preparare i germi del ciclo futuro. Per tutto quanto andiamo esponendo è sempre a questi  ultimi che abbiamo inteso rivolgerci, senza preoccuparci dell’inevitabile incomprensione degli altri. E’ vero che questi altri, ancora per un certo tempo, sono e devono essere la stragrande maggioranza, ma è appunto nel regno della quantità che l’opinione della maggioranza può pretendere di esser presa in considerazione. Se dunque qualcuno troverà certe considerazioni un po oscure, è soltanto perché queste sono forse troppo lontane dalle sue abitudini mentali, troppo estranee a tutto ciò che gli è stato inculcato dall’educazione ricevuta e dall’ambiente in cui vive. In tal caso non possiamo farci niente in quanto vi sono cose per le quali il solo modo possibile di espressione è quello simbolico e per conseguenza non saranno comprensibili a coloro per cui il simbolismo è lettera morta. Peraltro vogliamo ricordare che tale modo di espressione è l’indispensabile veicolo di qualsiasi insegnamento di ordine iniziatico. Ma anche a lasciar da parte il mondo profano la cui incomprensione è evidente, basta soffermarsi sulle vestigia di iniziazioni che ancora sussistono in Occidente per rendersi conto di come certa gente priva di qualificazione intellettuale, tratti i simboli proposti alla sua meditazione, e per essere assolutamente sicuri che essi, qualsiasi titolo rivestano, o qualsiasi grado iniziatico abbiano virtualmente ottenuto, non riusciranno mai a penetrare il vero significato, anche solo di un minimo frammento della geometria misteriosa dei “Grandi Architetti d’Oriente e di Occidente”.

Sandro Secci

 

 

Riferimenti bibliografici:

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, antichità e medioevo, Garzanti, Milano 1970;

Mircea Eliade,Il Mito dell’eterno ritorno, Edizioni Borla, Roma 2010;

N. Abbagnano, Il pensiero greco e cristiano dai presocratici alla scuola di Chartres, Gruppo Ed. l’Espresso, Roma 2005;

Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992;

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi edizioni, Milano 2009;

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta,  Adelphi edizioni, Milano, 2011;

 

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