Archivio di giugno 2012

Il Neoplatonismo e le sue origini

Il neo­platonismo nasce e si manifesta sulla base dell’orientamento religioso che prevale nella filosofia dell’età alessandrina e dell’evoluzione dello stoicismo romano dell’ultima stoa, che si caratterizzò in un sempre minore interesse verso i  problemi di natura logica e gnoseologica. Mentre a Roma lo stoicismo si evolveva nel modo su descritto, in Alessandria si sviluppavano filosofie di carattere marcatamente spirituale, mistico e religioso. Così la speculazione sui temi riguardanti, ad esempio, la teoria del “fuoco universale”, di cui una scintilla sarebbe presente in ciascun essere umano, si trasferì da una concezione fisica ad una essenzialmente metafisica e panteistica, per sfociare definitivamente in una visione ascetica e introspettiva. L’uomo, pertanto, poteva conquistare la sua vera libertà nel momento in cui fosse riuscito a liberarsi da ogni interesse di carattere materialistico ed esteriore e a rivolgersi verso la propria interiorità dove, solo, avrebbe ritrovato la divinità presente in lui. Uno dei principali tentativi fu quello di unificare e di fondere l’insieme delle antiche sapienze greche ed egizie. Si cercò di conciliare e di trovare una estrema sintesi tra il platonismo, il neopitagorismo, la magia babilonese, la religione ebraica, fino al misticismo indiano. Di questo possiamo trovare significative testimonianze nei libri degli Oracoli caldei attribuiti ad Ermete Trismegisto e comparsi tra il I e il III secolo dopo Cristo, nelle opere di Apuleio da Madaura (Madaura 125-170) e negli scritti del “platonico” Numenio da Apamea (Apamea II secolo d. C.) a cui si attribuisce la seguente asserzione: “Occorrerà che chi si è espresso con le testimonianze di Platone, risalga e si ricolleghi ai detti di Pitagora, faccia appello ai popoli che salirono in fama, allegandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono giudei, brahmani, magi ed egizi”. Una vasta sintesi, pertanto, che avrebbe influenzato tutto il corso del pensiero cristiano e, per tramite di questo, anche quello del pensiero moderno. Il Neoplatonismo, dunque, recupera l’antica tradizione arcaica ripercorrendo le orme dei grandi filosofi greci. Per il greco Eraclito, (Efeso 540-480 a C.) la prima condizione per giungere alla conoscenza è che l’uomo “indaghi se stesso”  che guardi dentro di sé e nel proprio infinito mondo interiore: “Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda la sua ragione”. La seconda condizione è la comunicazione fra gli uomini: ciò che accomuna gli uni agli altri e, nello stesso tempo, costituisce la più intima essenza dell’uomo, è il “logos”, il pensiero. Il logos rappresenta il filo comune che unisce gli uomini “desti”, aperti alla comunicazione tramite la ricerca; la stessa che determina l’indole dell’uomo (ethos) e, di conseguenza,  il proprio destino. Il cercare assume un doppio significato nel suo volgere verso la conoscenza, in quanto non ha  solamente valore contemplativo (noesis), ma diviene anche saggezza di vita e di comportamento (fronesis). Anassimandro (Mileto circa 610-547 a.C) si  pone  per  primo  il  problema  di  cercare una risposta sul modo in cui avvenga il processo di derivazione dall’origine e lo indica nella “separazione”. Essa si realizza nella nascita, la quale attuandosi implica la separazione dall’essere originario. E’ dunque una rottura dell’unità e della armonia, dalla quale si separano gli opposti che in essa si compongono: caldo e freddo, secco e umido, finito e infinito, ecc.. Questa separazione, o nascita, secondo Anassimandro è dovuta ad una colpa che consiste nell’atto stesso, inteso come rottura dall’unità e che solo con la pena del vivere potrà essere espiata, per concludersi infine con la morte ed il conseguente ritorno all’unità. Ma il ritorno al principio creatore è opposizione, lotta, discordia, bisogno di ricongiungere il dissonante all’armonico, il discorde al concorde, l’incompleto al completo, poiché solamente dalla riunificazione degli opposti scaturisce l’unità, mentre da essa scaturiscono gli opposti. Il neoplatonismo venne fondato da Ammonio Sacca (175-242 d.C.), ma il principale e maggiore esponente fu il suo allievo Plotino, nato in Egitto, a Licopoli nel 205 e morto a Minturno, in Campania, nel 270. Plotino ebbe anche modo, in occasione di una spedizione romana in Persia avvenuta intorno al 244, di conoscere le dottrine dei maestri sapienti indiani, rimanendone profondamente influenzato. Il rigore morale, la profondità e l’ansia religiosa di questo filosofo cosiddetto pagano, nulla hanno da invidiare al Cristianesimo che, anzi, ne riconobbe il valore della tensione ascetica avvalendosi della sua speculazione. Il pensiero di Plotino è stato tramandato tramite una raccolta di trattati, riordinati dal suo discepolo Porfirio in cinquantaquattro libri suddivisi in sei gruppi di nove saggi dal titolo Enneadi (da “ennéa”, che in  greco significa nove). Il significato di Enneade nell’antico Egitto subirà una metamorfosi fino a rappresentare una persona divina le cui membra conserveranno ognuna un’esistenza distinta, formando, al contempo, nove persone in una. Porfirio ordinò i trattati seguendo uno schema ascensionale che parte dalle realtà inferiori in senso ontologico (etica ed estetica), le realtà mondane e la vita terrena (fisica e cosmologia), passa per i livelli metafisici come la provvidenza, gli elementi demoniaci, l’anima e le facoltà psichiche (psicologia), il puro livello intellettivo (metafisica), la realtà divina suprema (logica e teoria della conoscenza) fino a giungere all’l’Uno, origine e meta finale di tutto l’essere. Il suo stile letterario, oltre a mostrare una grande sensibilità verso i miti e la religiosità degli antichi, talvolta è espresso per immagini, per allegorie o per simboli. Questo tipo di tecnica era finalizzata a favorire la comprensione dei contenuti letterari più difficoltosi. La lettura dell’opera, complicata e impegnativa nel contenuto ed ermetica nella esposizione, presuppone una notevole concentrazione e la conoscenza delle filosofie antiche e della mitologia. Al centro della dottrina neoplatonica traspare un progetto di ricostruzione dell’uomo, di natura prevalentemente spirituale e religiosa, che vuole stabilirne il ruolo e con esso il determinarsi del rapporto con il mondo e con il divino. Significa, peraltro, definire la propria collocazione al cospetto del cosmo, divenendo un rapporto  agente in una posizione intermedia tra il mondo materiale e la perfezione divina. In altri termini l’uomo, riprendendo l’antica tradizione greca ed ermetica, può stabilire la propria identità, ovvero la propria esistenza, ponendosi in rapporto tra ciò che è “fuori da sé” e ciò che è “dentro di sé”, divenendo egli stesso un rapporto agente nell’ambito di tali rapporti. Stabilire la propria collocazione rispetto al cosmo significa determinare anche il proprio ambito di libertà e di responsabilità nella ricerca e nella  conoscenza. In questo modo, nella filosofia di Plotino, ritorna centrale e dominante il concetto di coscienza, che già si era affacciato nella speculazione degli stoici, per indicarla come introspezione o auscultazione interiore. Egli adopera espressioni come: “ritorno a se stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé” e  contrappone questo tipico atteggiamento del saggio a chi invece, nella condotta della propria vita, si rivolge alle cose esterne e materiali. Nel ruolo di mediazione che attribuisce all’uomo, egli riprende il tema dell’unità che fu di Anassimandro e che considera essenziale al vivere, definendolo con il termine di Uno, concepito come infinito. In polemica con il Cristianesimo Plotino afferma che l’Uno, in quanto infinito, è ineffabile e di lui si può dire soltanto ciò che non è, ovvero a lui non si addice alcuna qualità o determinazione. Dio è al di là dell’essere, della sostanza e della mente, così da essere trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e contenendole tutte in sé. Questo tipo di concezione di fronte alla ineffabilità e assoluta trascendenza del divino è definito teologia negativa. In linea con tutta la tradizione greca, Plotino difende il politeismo come conseguenza necessaria della infinita potenza della divinità: «Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa». Ancora in polemica con il Cristianesimo e come conseguenza di queste tesi, Plotino affronta e risolve il problema della creazione e del processo di derivazione del molteplice dalla semplicità dell’Uno indicandolo come emanazione. Il mondo e tutto il molteplice sgorga da Dio attraverso un processo degradante che avviene per stadi, simile alla luce che si spande dal sole o al calore irradiato da un corpo caldo. Per cui da Dio, che rimane Uno e immutabile, discendono i molti da cui derivano i gradi successivi di realtà, ognuno emanato dal precedente. L’emanatismo ammette una gerarchia degli esseri in relazione alla lontananza da Dio, che si traduce in un progressivo degrado e perdita della perfezione. Ogni stadio del processo emanativo è detto ipostasi. L’Uno è la prima ipostasi, totalmente trascendente  e superiore anche all’”essere” di Parmenide (Elea 515-450 a. C.) in quanto il concetto di essere deriva dagli oggetti dialogici dell’esperienza umana. La seconda ipostasi è il nous (l’essere parmenideo) o intelletto puro. Il termine nous è il termine con cui Plotino indica piena “identità indivisa di soggetto e oggetto”, dove non sussiste alcun dualismo, in quanto è auto-contemplazione dell’Uno, un traboccare estatico: estasi significa “uscire fuori da sé”. Il significato greco di noesis è infatti auto-intuizione o autocoscienza. Dal nous, o intelletto, promana l’anima del mondo, che procede dall’autocontemplazione dell’intelletto, ma in questo caso è una unione tra essere e pensiero mediata dal nous, che rende possibile il ragionamento discorsivo-dialettico e che  da origine a sua volta  all’anima umana e animale e, infine, alla materia. Quest’ultima non viene considerata una vera e propria ipostasi, ma un semplice “non essere”, indicato come il luogo estremo della discesa e delle illusioni sensibili e concepito da Plotino come privazione di realtà e di bene. La materia è all’estremo inferiore della scala alla cui sommità c’è Dio. Essa è l’oscurità che comincia là dove termina la luce, quindi diviene non-essere e male. L’uomo partecipa del mondo sensibile nella corporeità e di quello intellegibile con l’anima. Lo scopo dell’esistenza umana è per Plotino quello di tendere a cogliere l’intuizione del nous, tramite la rinuncia al mondo materiale e corporeo e, grazie ad una pratica purificatrice colta col pensiero, al raggiungimento della unione estatica con Dio. Il ritorno a Dio è un processo di crescita spirituale dell’uomo, che ripercorrendo in senso inverso il cammino delle emanazioni, si eleva fino alla divinità. Le tappe per questo percorso ascetico sono: il rispetto dei dovei sociali e delle virtù civili, tramite le quali l’anima si rende indipendente dal corpo (morigeratezza, rinuncia); la contemplazione della bellezza, la pratica e il godimento dell’arte; l’amore; l’amore per la sapienza e la pratica della filosofia; il superamento finale di ogni dimensione razionale nel raggiungimento dell’estasi. Le parole che seguono, rendono evidente il ruolo di  tensione mediatica e di libertà che Plotino assegna  all’uomo  durante la sua esistenza: “Noi diciamo di patire quando il nostro corpo patisce. Il noi designa dunque due cose: o la bestia aggiunta all’anima o ciò che è sopra la bestia: la bestia è il corpo vivente. Ben diverso è l’uomo vero e puro da queste passioni bestiali, possessore delle virtù intellettuali che risiedono nell’anima stessa separata: difatti anche quaggiù essa può separarsi dal corpo, perché quando lo abbandona del tutto quella vita, che da essa irraggia, se ne va con l’anima e l’accompagna [...] L’uomo è un composto di anima e di corpo: egli può appiattirsi sulla dimensione del corpo o elevarsi a quella dell’anima. L’anima e il corpo diventano così due modi di essere: il primo ci rende liberi, il secondo ci accomuna alle bestie [...] Fuggiamo dunque verso la nostra cara patria, questo è il consiglio vero che vorremmo raccomandare [...] La nostra patria, da cui siamo venuti, è lassù, dove è il nostro Padre. Ma che viaggio è, che fuga è? Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all’altra; né devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare il tuo modo di vedere con un’altro, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano [...] Cercate di congiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo”. Fra tutte le creature  viventi, l’uomo  è l’unico  ad essere dotato della libertà di autodeterminarsi, capace di invertire la necessità della dispersione, volgendo lo sguardo alla contemplazione dell’intellegibile, mediante la risalita o conversione (epistrofé). La condizione affinché questo avvenga è il “sentire”, inteso come “intuire” l’esigenza del ritorno all’unità, che è prerogativa del sapiente, ovvero di colui che “conosce” la meta da raggiungere.

Sandro Secci

 

Riferimenti bibliografici:

Plotino Enneadi, Rusconi Milano 1992;

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, antichità e medioevo, Garzanti Milano 1970;

N. Abbagnano, Il pensiero greco e cristiano dai presocratici alla scuola di Chartres, Gruppo Ed. l’Espresso Roma 2005;

 

I 72 nomi di Dio nella tradizione della Kabbalah

I 72 nomi di Dio nella tradizione cabalistica rappresentano differenti aspetti delle qualità del Creatore. Essi costituiscono un esempio di verità codificata in un testo sacro e sono un insieme di 72 serie di tre lettere ciascuna dell’alfabeto ebraico che, con metodo cabalistico, furono estratti dai tre versetti consecutivi dell’Esodo 14, 19-21 per descrivere l’aprirsi del Mar Rosso e la fine della schiavitù del popolo eletto: 19] L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. 20] Venne così a trovarsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello di Israele. La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. 21] Allora Mosè stese la mano sul mare e il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’Oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero.

Da questi tre versetti la cabala fa derivare i 72 nomi di Dio, ognuno dei quali è formato da tre lettere, una per verso attraverso la seguente costruzione logica: si prende la prima lettera del primo verso, l’ultima del secondo e la prima del terzo e si forma il primo nome. Poi si prende la seconda lettera del primo, la penultima del secondo e la seconda lettera del terzo verso e si forma il secondo nome, similmente si procede per tutti gli altri nomi, completando la sequenza.

Essi sono uno strumento potente utilizzato per aiutare gli israeliti a liberarsi dal giogo degli egiziani e destinato all’umanità intera per avere il controllo sul mondo fisico, plasmare la materia e sconfiggere l’ego. Insomma, costituiscono una potente tecnologia per l’anima, per mutuare il sottotitolo del best seller di Yehuda Berg “La Kabbalah e i 72 Nomi di Dio”.

I cabalisti sono in grado di utilizzare le 72 triadi, ognuna delle quali è considerata un nome di Dio e, attraverso i principi della Ghematria, si possono stabilire le correlazioni possibili tra le varie parti, per ottenere una autentica trasformazione spirituale. Essi si presentano come una sequenza di vibrazioni che trasmettono informazioni o attributi e servono ai cabalisti per accedere a stati di coscienza spirituale allargata e ad esperienze mistiche singolari, perché agiscono e penetrano nel profondo dell’anima umana.

Ogni nome sacro è composto da svariate combinazioni di lettere dell’alfabeto ebraico e trasmette specifiche combinazioni di Potenza divina, Autorità, Santità e Attributi divini[1]. Rappresentano un veicolo particolare e potente che permette di connetterci all’infinita corrente spirituale che scorre attraverso la realtà[2].

Sono il più antico e più importante strumento che l’umanità abbia conosciuto, una sequenza sacra che esprime tutta la loro influenza quando vengono pronunciate, quantunque secondo Yehuda Berg “è sempre necessario un atto fisico per attivare le forze intangibili nel nostro mondo” e permettere a questa forza di permeare la nostra anima.

Non è possibile afferrare il significato profondo delle lettere in tutta la loro pienezza, occorre uno sforzo spirituale considerevole, per penetrare l’incomprensibile, per esprimere l’inesprimibile, per tradurre l’ineffabile e trovare la chiave che apra le porte inaccessibili della divinità, che ci metta in contatto con la Totalità, con Dio.

Il Pensiero Supremo è al di sopra di ogni cosa ed è inaccessibile e “La gloria del Santo, che sia benedetto, è così elevata sopra l’intelletto umano da restare eternamente segreta. Da quando il mondo è stato creato, non vi è mai stato un uomo che abbia potuto penetrare il fondo della sua saggezza, tanto essa è nascosta e misteriosa” (Zohar, I, 103 a).

Dio, En-Sof, letteralmente “colui che non ha fine” che presiede ogni cosa e si manifesta dappertutto è perfezione assoluta e si svela nelle dieci Sefiroth che includono l’archetipo di ogni cosa creata al di fuori del mondo delle emozioni e delle sensazioni. Anche l’antico testo dello Zohar afferma che l’Essere Supremo è “La Volontà dell’Infinito, la Volontà che regge tutti i mondi in alto e in basso, la Volontà percettibile solo per l’atto che la segue, la Volontà che è destinata a regnare in basso come in alto affinché l’unione del Tutto con la Volontà sia perfetta” (Zohar, I, 45 b) e la cui essenza non può cogliersi semplicemente attraverso i sensi e la mente razionale.

La cabala ci aiuta a capire e a cogliere proprio la dimensione dell’En-Sof e con “il suo slancio prodigioso sembra non arrestarsi davanti ad alcun ostacolo. Con un sol colpo abbraccia l’universo e cerca di farci toccare con mano la natura intrinseca”[3]. Dio è in tutte le cose, è l’Essere Supremo, la Causa Prima (zimzum ha-rishon), generatrice di tutto ciò che esiste che si è in qualche modo ritirato dalla sua propria natura per un atto spontaneo di libera volontà e di amore incondizionato nei confronti della creazione increata.

YHVH, il Tetragrammaton (dal greco “quattro lettere”) è considerato il nome più grande di Dio, dal quale derivano tutti gli altri, il quale non deve essere mai pronunciato e al suo posto viene letto “Adonai”. Ciascuna lettera del tetragramma YHVH ha un valore numerico: questi numeri sommati danno 72.

Quindi, 72 sono gli attributi di Dio; 72 gli Angeli che circondano il suo trono; 72 le lingue secondo il numero delle famiglie presenti in seguito alla confusione della torre di Babele; Gesù Cristo aveva scelto, oltre i dodici apostoli, 72 discepoli, che furono inviati in tutte le parti del mondo per comunicare ai popoli la parola di Dio (Lc 10,1); secondo lo Zohar gli scalini della scala di Giacobbe erano in numero di 72. Nella tradizione biblica, nello Zohar, così come in altri testi sacri dell’antichità ricorre spesso questo numero e ci indica che la strada del cambiamento spirituale non solo è possibile ma altresì doverosa da percorrere.

Si possono compiere prodigiose azioni e operare grandi cambiamenti solo se pronunceremo questi nomi e vivremo secondo le leggi e la volontà di Dio, ottenendo i favori del Divino, protezione spirituale e purificazione interiore.

Secondo i cabalisti, Ein-Sof si rivela attraverso dieci aspetti, attributi od emanazioni dell’essere di Dio, le sefiroth (dall’ebreo sappir). “Ogni parte di Dio ha un nome specifico con una vibrazione specifica, alla quale possiamo accedere attraverso il ‘computer’ universale della Mente di Dio. Ogni sefirah è un modo diverso di percepire e ricevere Dio”.[4]

Attraverso questo potere spirituale si può rafforzare il mondo divino ed aiutare l’umanità intera a ricreare l’originaria armonia dell’Adam Kadmon che contiene in sé tutte le anime possibili. Ogni anima, infatti, è una grande scintilla della grande anima di Adamo.

Utilizzare i Nomi di Dio è l’essenza di ogni cammino spirituale degno di definirsi tale, è il mezzo che ci permette di ritrovare la nostra natura archetipa, l’Adamo Primordiale, l’Adam Kadmon che ci consente di eguagliarci alle qualità del Creatore perché “come l’armonia del nostro mondo dipende dal sostegno divino, così l’armonia del mondo divino dipende dal nostro sostegno”[5].

Domenico Annunziato Modaffari



[1] Kabbalah – tutti i segreti del misticismo ebraico di Gabriella Samuel, Milano, 2010

[2] La Kabbalah e i 72 Nomi di Dio – Una tecnologia per l’anima di Yehuda Berg, Milano, 2006

[3] Idem

[4] Cabala, la Chiave del potere interiore di Elizabeth Clare Prophet, Milano, 1999

[5] Idem

I SETTE PECCATI CAPITALI ALLA LUCE DEL SIMBOLISMO DEL NUMERO

Nella serie dei numeri a cifra unica ve ne sono due che si distinguono dagli altri dal momento che hanno un significato essenzialmente Divino, stiamo parlando dell’uno e del sette; tra di loro, come tra l’alfa e l’omega, si dipana l’intera rappresentazione dell’esistenza. Uno è il Creatore; due sta a significare lo Spirito,[1] tre il Cielo,[2] quattro la terra e cinque l’uomo, la cui collocazione è quella di quintessenza al centro dei quattro elementi, dei quattro punti cardinali dell’orientamento, e delle quattro stagioni dell’anno, che caratterizzano la condizione terrestre. Tuttavia l’uomo non può realizzare la sua funzione di mediatore tra Cielo e terra senza la dimensione trascendente di profondità ed altezza, l’asse verticale che passa attraverso il centro di tutti i gradi di esistenza e che  altro non è che l’Albero della Vita. Tale dimensione sovrumana è implicita nel punto centrale della quintessenza ma non diventa esplicita sino a quando non viene trasceso il numero cinque. E’ attraverso il sei che il centro diviene l’asse, che il seme diviene albero, ed il sei è il numero dell’uomo primordiale nello stato in cui fu creato il sesto giorno. Quale mediatore universale,[3] egli abbraccia, con le sue sei direzioni, l’intera esistenza, peraltro al di là del sei v’è ciò da cui proviene e a cui ritorna l’esistenza. E Dio benedì il settimo giorno, e lo santificò: poiché in esso Lui s’era riposato di tutto il suo lavoro (Genesi II: 3).

Sette sta quindi a significare il riposo nel Centro Divino. Da questo punto di vista è simbolo della Assoluta Finalità e della Perfezione, presente in questo mondo come Sigillo Divino posto sulle cose terrene, come nel numero dei giorni della settimana, i pianeti, i sacramenti della chiesa, e molti altri settenari, la cui menzione ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento. Tuttavia, nonostante queste considerazioni – o piuttosto proprio grazie a queste – c’è, come vedremo, una ragione profonda nel fatto che i peccati capitali debbano essere nel numero di sette.

Alla ricerca della chiave di tale paradosso, la prima cosa da riportare a mente è la fondamentale continuità che esiste tra l’uomo Edenico e l’uomo decaduto. Al tempo della Caduta non ci fu nuova creazione; virtualmente l’uomo è ancora un essere centrale. Se non lo fosse, la sua anima non proverebbe alcuna nostalgia, e la primordiale perfezione umana, invece d’esser una norma ed un ideale, risulterebbe irraggiungibile, considerata come un qualcosa d’estraneo. Tuttavia egli in realtà non è mai stato soppiantato, di qui la dottrina del peccato originale, che in se stessa è un’affermazione della continuità di cui stiamo parlando. Inoltre, la dottrina del peccato implica anche una dottrina d’espiazione: nella misura in cui parliamo di torpore e perversione dell’anima, e non di irrimediabile perdizione,  ebbene ci può essere risveglio e reintegrazione.

Tale reversibile continuità tra norma primaria e fatto presente significa che per quanto certe forze dell’anima possano essere ora inclini alla colpa, originariamente erano innocenti. Dobbiamo anche tener presente in tale connessione, l’assioma corruptio optimi pessima, il migliore quando è corrotto diviene il peggiore; e se ci si chiedesse ‘Cosa s’intende per peggiore?’ potremmo rispondere, in relazione all’anima umana, che si tratta de ‘ I sette peccati capitali’.

Comunque, questi peccati possono essere presi come punti di riferimento[4] per ciò che riguarda tutto quel che c’è di più maligno; e le tre parole sette peccati capitali in un certo senso si adattano alla corruptio ottimi pessima, dal momento che il numero sette svela la misteriosa presenza d’un optimum nel contesto di pessima corruptio del peccato capitale. Sta qui anche la soluzione al paradosso della corrispondenza dei peccati capitali coi pianeti, incluse le stelle.

Analizzandoli nel loro tradizionale ordine, la superbia (superbia) è in relazione al Sole, l’avarizia (avaritia) a Saturno, la lussuria (luxuria) a Venere, l’invidia (invidia) a Mercurio, la gola (gula) a Giove, l’ira (ira) a Marte, e l’accidia (accidia) alla Luna. Sarebbe tuttavia erroneo, e persino sacrilego, fraintendere tale modalità d’espressione ed affermare che i peccati sono in realtà rappresentati da questi corpi celesti, i nomi dei quali, in base a grado e luminosità  contrassegnano niente di meno che le Sfere Celesti.

Tutto quel che si può dire è che i pianeti sono simboli delle ‘parti migliori’ dell’anima; e quando queste optima sono corrotte, rimangono ancora in relazione coi pianeti, dal momento che ancora continuano a portare il sigillo del sette. In altre parole, quelle forze o tendenze di natura psichica che sono diventate veicoli di peccato capitale erano state enumerate prima della Caduta, quando nell’anima avevano un posto analogo a quello dei pianeti nel firmamento.

Il sette può quindi essere considerato come un marchio usato da un pastore, che sta ad indicare, quando una pecora è smarrita, il gregge a cui appartiene di diritto ed a cui può essere riportata indietro. Nel considerare come sia possibile per la pecora sviarsi in tal modo, cominciamo con un fatto che riguarda uno dei peccati che è generalmente conosciuto, ma raramente ben soppesato, e che non è privo di connessioni con altri peccati. Una caratteristica comune a tutte le religioni è l’approccio all’ira intesa come profana rottura di equilibrio, accanto al concetto della santa ira – esemplificata nel Cristianesimo da Cristo che caccia i mercanti dal Tempio – in relazione a cui lo stesso peccato[5] appare quale parodia. In modo analogo, sebbene il termine santa avarizia non è usato, non si potrebbe forse affermare che un avaro sia una caricatura di un asceta ed in rari casi perfino un potenziale asceta? La tradizionale rappresentazione dell’avaro come un affamato, vestito di stracci, e che porta una borsa d’oro, avrebbe un significato completamente diverso se l’oro lo si intendesse in modo simbolico e non letterale.

Sono state riportate testimonianze riguardo ad alcuni avari capaci di sopportare quelle che sarebbero definite, nel caso d’un santo, come ‘eroiche rinunce’. Ma visto che gli atti s’accompagnano alle intenzioni,[6] le due ‘indigenze’ sono così lontane tra di loro, come l’inferno e il paradiso. Tuttavia – dal momento che per Dio ogni cosa è possibile -  se un grande Maestro spirituale dovesse prendere un avaro e fare di lui un Santo, l’avarizia, sebbene necessariamente rigettata non dovrebbe essere sottoposta ad un rifiuto assoluto;[7] tuttavia il termine ‘fare di lui’ è usato qui ponderatamente, poiché la tendenza in questione avrebbe bisogno d’essere completamente riorientata. Ragionando su binari paralleli, non si potrebbe, per esempio, dire qualcosa d’analogo sul peccato della lussuria? La passione, se allontanata dal mondo, può imprimere fretta all’anima  nella giusta direzione.

In connessione con un altro peccato capitale, possiamo ricordare le parole del Decalogo: Io il Signore Dio tuo, sono un Dio geloso. Non che ‘geloso’, così com’è usato qui, sia sinonimo di ‘invidioso’, ma si può dire che i due termini abbiano una comune radice, ovvero il rifiuto d’accettare che un altro abbia, o riceva, qualcosa che si è convinti debba spettare soltanto a se stessi.

Potremmo dire che ogni studioso di metafisica condivide la gelosia Divina dal momento che è geloso di Dio, rifiutando che al relativo si lasci ricevere ciò che è appannaggio dell’Assoluto. E’ in tale ragionamento, inutile dirlo, e non nella sua peccaminosa parodia, che viene tirato in ballo Mercurio. Esotericamente la gelosia può essere trasportata ancora una volta dalla modalità oggettiva a quella soggettiva come rifiuto del permettere che l’ego empirico usurpi i diritti del vero Sé.

un livello meno accentuato possiamo anche ricordare che la parola invidia è spesso usata in un senso del tutto privo di biasimo, come nella frase: ‘Invidio quella tua natura calma’. Per fare un altro esempio, una tradizione islamica ci racconta d’un uomo che, essendosi svegliato tardi, arrivò alla moschea con l’intento di fare la preghiera mattutina, ma solo per incontrare sulla soglia gli uomini che uscivano. ‘Avete già fatto la preghiera?’ chiese al primo di questi; ed alla risposta affermativa, lanciò un tale lamento di rammarico che l’uomo da lui interrogato disse, ‘Prendi tu la mia preghiera, e lascia a me quel tuo lamento!’. Tale invidia spirituale ha il suo archetipo paradisiaco nella mutua meraviglia delle anime beate che ammirano ciascuna la perfezione dell’altra.[8]

Per quel che riguarda il peggiore peccato di tutti, è significativo che nell’Islam uno dei novantanove nomi Divini sia ‘il Superbo’. Il Corano usa esattamente la stessa parola per glorificare Dio come per condannare Faraone; e se Dio è Superbo, allora la superbia deve anche essere un aspetto della perfezione umana, fatta a Sua immagine. Ci troviamo di fronte ad una virtù ed a un vizio che portano lo stesso nome pur trovandosi ai poli opposti della possibilità umana; e la verità corruptio optimi pessima si erge come un ponte attraverso il golfo che sembra separarli. Rimane da vedere come sia possibile che tale ponte possa essere attraversato, sia con la corruzione che, per altro verso, col cammino di redenzione.

Per quel che riguarda la corruzione, potremmo trovare la risposta nel simbolismo di un altro  numero tradizionalmente associato ai peccati capitali, ovvero il numero otto[9], dal momento che se il sette denota semplicemente il migliore, l’otto nella sua accezione positiva[10] denota l’esatto grado in cui questo particolare migliore, il migliore dei corruttibili, è inserito nella gerarchia universale. Nel suo articolo sul simbolismo dell’ottagono, René Guénon fa presente che nell’architettura sacra ogni struttura ottagonale serve da supporto ad una cupola, accentuando così la transizione dalle fondamenta quadrate alla sommità circolare, cioè, dal numero terrestre quattro a quello celeste nove.[11] In altre parole, l’otto denota la regione intermedia tra terra e Cielo, ovvero a livello microcosmico, tra corpo e Spirito; peraltro l’ottagono che sorregge la cupola è qui particolarmente rilevante quale simbolo della ‘parte migliore’ della sostanza psichica, quella parte che serve da veicolo per la luce spirituale, simbolizzata dalla cupola stessa. Questo ottagono ha in realtà un triplice simbolismo, dal momento che non solo è un supporto della cupola ma esprime anche, essendo immediatamente adiacente ad essa, la vicinanza al Cielo degli elementi psichici in questione, ed essendo quasi circolare nella forma, non esprime altro che la loro natura spirituale. Inoltre, otto è il numero dei venti, che hanno significato d’ispirazioni, ovvero di ricettività dei suddetti elementi. Ma appartenendo all’anima, e non allo Spirito, queste relative altezze sono per definizione corruttibili; e non soltanto il diavolo vi ha accesso ma è soprattutto qui che interviene,[12] dal momento che non può arrecare gran danno all’anima umana a meno che non riesca prima a pervertire uno o più dei suoi più elevati elementi, che altrimenti, continuando a svolgere la loro funzione intuitiva, rimarranno come vigili sentinelle, sempre pronte a suonare l’allarme. La tentazione originale di Satana non fu certo rivolta alle facoltà inferiori, bensì a quelle che costituiscono le tendenze dell’uomo verso l’altro mondo: le sue speranze d’immortalità, le sue aspirazioni per ciò che va al di là del transitorio. Ciò emerge chiaramente dal racconto Coranico della caduta: Allora Satana sussurrò dentro di lui[13] e disse: “O Adamo, vuoi che ti mostri l’albero dell’immortalità ed un regno che non tramonta mai?” (XX:120)

 

Citiamo anche il seguente commento relativo:

 

‘Tutta la sua capacità d’inganno attraverso i secoli[14] è sintetizzata nel suddetto verso; egli senza tregua promette di mostrare all’uomo l’Albero dell’Immortalità, riducendo gradualmente, con tale mezzo, le facoltà superiori e più centrali dell’anima a favore di quelle esteriori, in modo da lasciarle imprigionate proprio lì dove c’è attaccamento a quegli oggetti contraffatti, da lui forgiati e messi ben in vista. È proprio la presenza di quelle facoltà pervertite – sia nello scontento, per il fatto che non riescono mai a trovare vera soddisfazione, sia in fine per un certo stato di atrofia per cui non sono mai messe propriamente in uso – che causa tutto quel disordine e quella ostruzione nell’anima dell’uomo decaduto.’[15]

Scendendo nei particolari, si potrebbe dire che il peccato di gola è causato dalla erronea presenza – nella parte esterna o inferiore dell’anima, quella parte che sta vicina ai sensi – di un elemento psichico pervertito, il cui giusto posto sta sulla soglia del Paradiso e la cui funzione regolare è di rappresentare, per l’individuo in questione, ciò che potrebbe essere definito il senso dell’Infinito. Fedele alla sua natura, cerca ancora infinita soddisfazione, ma è condannato a fare ciò nel più limitato degli ambiti. Potremmo dire che una simile erronea presenza stia alla radice del già citato peccato di lussuria.

D’altra parte, i peccati statici o contrattivi dell’ozio e dell’avarizia possono essere ascritti ad un senso pervertito d’Eternità. L’uno è l’afflato di realizzare la pace eterna in un ambito provvidenzialmente concepito per essere in movimento e nella vicissitudine. L’altro è il tentativo di mantenere eternamente ciò che è, per propria natura, effimero; è anche la cecità di attribuire al ‘tesoro terreno’ quell’assoluto valore che appartiene solo al tesoro Celeste.

Eternità ed Infinità sono dimensioni dell’Assoluto, e potremmo dire che il senso travisato dell’Assoluto – in modo diretto, o anche attraverso una di queste dimensioni – sia alla radice di ogni peccato capitale. E’ il ‘riverbero’ dell’assoluto, che per quanto in modo remoto, può da solo provocare la mostruosità delle più o meno malsane esagerazioni in questione.

Il peccato d’ira presuppone come nell’avarizia, altrettanta mancanza di senso della proporzione, sebbene su di una modalità complessivamente diversa; potrebbe anche essere descritto come effetto ‘assoluto’ d’una causa relativa.

Tuttavia l’avarizia è la deificazione d’un oggetto materiale, mentre l’ira, come anche i peccati d’invidia e d’orgoglio, implica una certa deificazione dell’ego, la presunzione di possedere diritti che appartengono soltanto all’Assoluto, ovvero al Supremo Sé. Comunque, alla sommità dell’anima del Santo ci sono necessariamente elementi di sublime ‘tuono e lampo’, proprio come ci sono necessariamente elementi che si può dire appartengano alla gelosia divina, dal momento che ‘lesinano’, con cauto discernimento, l’attribuzione di qualsiasi valore assoluto ad ogni cosa, tranne che al Sé. In modo simile, avendo realizzato la risposta alla domanda ‘Chi sono?’,[16] il Santo non può non partecipare all’Orgoglio Divino, che si rifletterà nella parte più esterna dell’anima, non come peccato d’orgoglio, ma come virtù di dignità e talvolta persino di maestà.

La parte intuitiva della sostanza psichica, la parte attraverso cui si può dire che l’anima colga il senso dell’Assoluto, dell’Infinito e dell’Eterno, può essere pienamente operativa soltanto se tutti i suoi elementi si trovino al posto giusto. L’anima del Santo è in perfetto ordine ed armonia; le anime decadute si trovano in uno stato di disordine che varia in modo incalcolabile da individuo a individuo. Ovviamente s’intende che parte della sostanza più elevata debba rimanere relativamente in uno stato non decaduto. Altrimenti non ci sarebbe alcun anelito per l’aldilà, e all’individuo in questione non riuscirebbe mai d’essere iniziato al cammino spirituale. Ma per quel che riguarda quegli elementi più elevati che sono disgregati e decaduti, finché non smetteranno di vivere al di sotto di loro stessi, cioè fin quando non abbandoneranno quei posti che hanno impropriamente occupato alla periferia dell’anima, ebbene lì continueranno a causare perversione o ostruzione a seconda che siano virulenti o intorpidenti.

In connessione col diffuso torpore degli elementi psichici, è particolarmente paradossale il fatto che la nozione di sincerità – o piuttosto la semplice parola, poiché raramente esprime qualcosa di più – debba apparire davvero grande nel compiacimento del ventesimo secolo, poiché la sincerità, che implica una vigilanza integrale, è proprio quel che manca all’uomo moderno. Le ormai trite parole ‘la sincerità è tutto quel che conta’ esprimono, se ben soppesate, una profonda verità; tuttavia, quasi ci si dimentica che la sincerità non può essere stabilita senza sapere riguardo a cosa si è sinceri. In altre parole, la qualità della reazione soggettiva è inestricabilmente dipendente dalla qualità dell’oggetto. Per fare qualche esempio pertinente, parlare di un ‘sincero umanista’ o di un ‘sincero comunista’ non è che una contraddizione in termini se poi la parola ‘sincero’ manca  totalmente di senso d’impiego. L’entusiasmo, lo sappiamo tutti, non è a garanzia che il soggetto sia sincero. Questo secolo, specialmente la sua seconda metà, è stato testimone delle più grandi orge d’instancabile entusiasmo, ed essendo l’oggetto, mai come prima, di così infimo valore, l’entusiasta è ridotto ad una piccola frazione d’anima, una frazione che – in modo provvisorio, così ci si auspica – s’è dichiarata indipendente dalla ragione, dalla memoria, e da altre facoltà. Tali casi non sono poi così pericolosi di per sé, ma sono in modo allarmante sintomatici d’una diffusa disgregazione psichica.

Per tornare ai meno iperbolici ma più cronici, e quindi più pericolosi entusiasmi dell’umanista e del comunista, dobbiamo soltanto considerare ciò che è l’uomo, per accorgerci che né l’umanesimo né il comunismo hanno alcunché da offrire a quelle che sono le più alte aspirazioni dell’anima umana.

Se un tale entusiasmo è tuttavia in grado di fare presa sull’intera vita d’un certo individuo, ebbene può farlo soltanto senza l’assenso dei suoi elementi più elevati; e la presenza negativa di questi elementi nella sua anima, siano essi intorpiditi o atrofizzati, sta a sottolineare una virtuale divisione interiore che impedisce qualsiasi forma di sincerità. Si potrebbe obiettare che in alcuni casi tali elementi siano pervertiti senza essere intorpiditi e che l’anima pur essendo piuttosto caotica, sia  nonostante ciò ‘tutta lì’, e quindi sia sincera; e non c’è dubbio, al riguardo dei due entusiasmi in questione, ch’essi siano capacissimi d’ottenere la loro formidabile spinta solo sviando, ad un grado elevato, i tesori latenti dell’anima di un fervore spirituale inoperoso e inutilizzato. Ma tali indebite sottrazioni non possono mai essere totali; la perversione è sempre frammentaria.

Nel suo significato più elevato, il fervore non è altro che la sete per l’Assoluto, per l’Infinito, per l’Eterno, e non ci possono essere misure comuni tra i veicoli psichici di tale fervore quando sono al loro posto, collocati alla sommità di un’anima normale, mentre soltanto una loro porzione s’è pervertita e s’è pericolosamente impantanata come parte d’un entusiasmo per qualche oggetto finito ed effimero.

Solo l’ortodossia religiosa nella sua interezza – ovvero fornita delle sue piene facoltà compresa la terza dimensione del misticismo – è abbastanza grande da conquistare l’intera sostanza psichica dell’uomo e coordinarla in una sincerità degna di questo nome. La Verità è Indivisibile Totalità e richiede all’uomo di diventare nient’altro che un tutt’uno indivisibile; inoltre è un criterio dell’ortodossia quello di rivendicare il diritto d’ogni elemento del nostro essere.

Tuttavia ci si chiede: come riesce il misticismo a determinare il contrario della corruptio optimi pessima, quel contrario che è espresso dalla pietra scartata dai costruttori ch’è divenuta testata d’angolo (Marco XII:10),[17] come anche da in Cielo ci sarà maggior gioia per un peccatore che si pente che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di pentirsi (Luca XV:7)?[18]

La prima fase dell’alchimia spirituale del pentimento è ‘la discesa agli Inferi’ così chiamata poiché in primo luogo è necessario penetrare nelle profondità dell’anima per recuperare coscienza di quel ‘peggio’ che attraverso il pentimento deve tornare ad essere il ‘meglio’. Ma deve essere compresa con chiarezza che tale discesa è del tutto diversa da qualsiasi esplorazione psicoanalitica del subconscio. La psicoanalisi moderna rientra nella casistica del cieco che guida un altro cieco; ed anche se la guida fosse meno cieca di colui che viene guidato, non si tratta d’altro che d’un anima che lavora su un’altra anima, senza l’aiuto d’alcuna forza trascendente. Ma in un cammino spirituale degno di tale nome, la guida è lo stesso Spirito, personificato nel Maestro, ed operativo nei riti che permettono l’avanzata del ‘viaggiatore’. Tuttavia la parola ‘discesa’ non deve trarci in inganno. Nell’epica dantesca, senza meno per motivi formali, Inferno e Purgatorio sono separati. Tuttavia, sebbene egli non riesca a rappresentare se stesso nella discesa verso l’abisso infernale in contemporanea all’ascesa della Montagna del Purgatorio, il processo di presa di coscienza della colpa e quello di purificazione sono in realtà, per molti versi simultanei; né potrebbe essere altrimenti.

Ciò che l’anima non è in grado di fare per se stessa o per un’altra anima, può essere realizzato dallo Spirito, la cui presenza, veicolata dai riti, richiede come ricettività la presenza dell’anima nella sua interezza. Gli elementi psichici pervertiti non possono fare a meno di manifestarsi, ma lo fanno malgrado loro, ed alcuni si presentano sotto forma d’ira, ancora avviluppati da forze infernali.

Da questo punto di vista è più giusto dire che l’Inferno salga più che il mistico discenda; ed il risultato di quella ascesa è una battaglia[19] di cui l’anima rappresenta il campo di battaglia. Ciò corrisponde a quella che nel Sufismo è chiamata la Grande Guerra Santa.[20] Quegli elementi che sono divenuti le possibilità più basse dell’anima devono essere liberati dalle forze dell’oscurità e costretti a rinunciare a quelle relatività che li tengono legati in modo eccessivo. È inutile dire, la guerra contro l’anima,[21] cioè contro i suoi mali interiori, non si vince facilmente. Ma se la parte fondamentale dell’anima è costante, e continua ad utilizzare quelle invincibili armi che lo Spirito le ha fornito, il nemico si arrenderà.

Una volta svuotati dei loro indegni contenuti e sgravati delle illusioni che li avevano resi ottusi ed inutilizzabili, gli elementi riscattati devono poi essere ben considerati nella loro vera natura. Si può dire che questa fase d’amore e di rimembranza segua quella della paura e della rinuncia, poiché il timore nei confronti del Signore è l’inizio della saggezza; ma anche qui c’è una sorta di simultaneità, nel fatto che l’amore è un fattore essenziale nell’alchimia della purificazione. Amore significa consapevolezza dei legami con l’Assoluto, ed è soprattutto tale consapevolezza che ha il potere di sciogliere i legami con la relatività. Si può dire che lo Spirito si rivolga agli elementi dell’anima decaduta esattamente con quello stesso messaggio che originariamente li aveva sedotti; ma questa volta il messaggio è vero, ed un messaggio vero è infinitamente più potente di uno falso: O Adamo, vuoi che ti mostri l’Albero dell’Immortalità ed un Regno che non tramonta mai? Agli elementi in questione, quelli che non furono concepiti che per il trascendente, ora viene soltanto chiesto di conformarsi alla propria natura, in modo che siano in grado di dimostrare quanto questa promessa di trascendenza, prima o poi, diventi irresistibile, di qui l’esaltazione da parte dei maestri spirituali di tutti i tempi e di tutte le religioni delle virtù della risolutezza, della perseveranza, della pazienza e della fiducia.

 



[1] Lo Spirito, nella dottrina dell’Islam, è la vetta e la sintesi di tutta la creazione, che s’apre all’Increato e quindi che possiede implicitamente, se non esplicitamente, l’Aspetto Increato che altro non è che la Terza Persona della Trinità Cristiana. Secondo quanto ci dice lo Sceicco al-‘Alawi, nel suo trattato sul simbolismo delle lettere dell’alfabeto, la lettera ba’, che ha valore numerico di due, è un simbolo dello Spirito. Si veda Un santo Sufi del XX° secolo (Mediterranee – 1994), capitolo 7.

[2] Ciò riguarda non solo il tre in se stesso, ma anche la sua potenza, ovvero tre per tre.

[3] In arabo la lettera waw ed in ebraico la lettera vav hanno entrambe il valore numerico di sei, e ciascuna ha valenza, nel proprio rispettivo linguaggio, di mediatrice linguistica, propriamente la congiunzione ‘e’.

[4] Questa riserva è forse necessaria poiché il settenario in questione sembra essere arbitrariamente incompleto, a meno che noi consideriamo gli specifici peccati per includerne implicitamente altri non esplicitamente menzionati ma che sono comunque strettamente affini. Prima di tutto, è bene ricordare che alcuni dei peggiori eccessi dell’uomo scaturiscono dalla partecipazione di due o più dei sette peccati. Per esempio, atti di terrificante crudeltà possono risultare dalla combinazione di peccato d’orgoglio, d’invidia, e d’ira, e ancora di più se questa triade narcisistica trovasse solide basi in un’avarizia così indurita da non lasciare spazio al benché minimo barlume di generosità.

[5] Inutile dire, ci sono molti gradi d’ira che stanno tra i due estremi; per esser più precisi, sebbene l’ira sia raramente santa, spesso è giusta e quindi spesso non è peccaminosa. Il peccato implica un eccesso di violenza sproporzionata alla causa, una più o meno completa perdita di controllo, e perciò di centralità, una momentanea sospensione di qualsiasi coscienza superiore; di contro la santa ira è come se fosse un flusso di coscienza superiore, una marea che dal centro straripa verso l’esterno.

[6] I detti del Profeta dell’Islam

[7] Ciò riporta alla mente la promessa Coranica a coloro che si pentono con sincerità: Dio cambierà i loro mali in beni, e Dio è Colui che tutto perdona, il Misericordioso (xxv: 70).

[8] Si veda sopra a pag. 55.

 

[9] La dottrina dei peccata capitalia può esser fatta risalire sin dai tempi di Serapione, vescovo di Thmuis presso il delta del Nilo a metà del IV° secolo. Avendo stabilito otto peccati capitali, ne conteggiò soltanto sette, e quando gli fu chiesto dell’ottavo, rispose che era la condizione elementare dell’anima sotto l’influsso del peccato, condizione simbolizzata dalla prigionia degli Israeliti in Egitto. Ora tale prigionia era uno stato intermedio tra due libertà, l’otto è infatti simbolo dell’intermedio o del transitorio, il che può essere negativo, come in questo particolare caso, ma può anche essere positivo, come peraltro neutrale.

[10] Per quel che riguarda ciò che da un certo punto di vista potrebbe essere considerato come aspetto negativo, l’otto ha un effetto ‘mortale’ sul ‘cinque’ (l’uomo), dal momento che il numero ottenuto dalla loro moltiplicazione è il quaranta, che in molte diverse tradizioni rappresenta il numero della morte. Inoltre, in astrologia, delle dodici case che costituiscono l’intero cerchio celeste, è l’ottava che sta a significare la morte; ed in tale connessione possiamo ricordare che l’ottavo segno dello zodiaco è lo Scorpione, il cui geroglifico, la lettera M con un segno terminale uncinato, è doppiamente simbolico della morte, per il motivo del pungiglione della coda e poiché la stessa lettera sta per mors. Ma la morte non è necessariamente negativa, e  se la consideriamo come transizione da uno stato all’altro, il simbolismo ‘mortale’ dell’otto può essere incluso nel complessivo significato del numero, quale simbolo dell’intermedio, che è ciò che stiamo qui considerando. Si veda anche, in relazione a ciò, pag. 74, nota 1.

[11]  Simboli fondamentali della scienza sacra (Adelphi – 1987), capitolo 44.

[12] Come, ad esempio, quando riesce a sviare Mosè e Giosuè ch’erano quasi sul punto di raggiungere le Acque della Vita.

[13] Il Corano qui rappresenta Satana che tenta Adamo, non attraverso Eva, ma in modo diretto, ed in altri passaggi si rivolge a loro quando stanno assieme.

[14] È privo d’ogni fondamento reale sostenere che nessuna singola anima possa essere ritenuta responsabile di ciò che è avvenuto ‘attraverso i secoli’ e che la sua responsabilità inizi solo con la sua nascita su questo mondo. Secondo le religioni più antiche, che possono ancora permettersi di insegnare, con obiettivo realismo, certe verità secondarie che le religioni più recenti hanno ben ritenuto di velare – senza dubbio per far sì che i propri fedeli meno qualificati non siano distratti dall’essenziale – il nostro mondo non è altro che uno d’una infinita sequenza di mondi, una periferica catena di morti e rinascite denominata dall’Induismo e dal Buddismo come samsara. Tutte le fedi sono d’accordo che la religione è l’unico mezzo per fuggire dalla periferia al centro; ma la dottrina del samsara afferma espressamente che quando un individuo entra in un mondo, la particolare eredità e l’ambiente in cui nasce in quel mondo, sono la risposta esatta a tutti i meriti conseguiti nel suo precedente stato, ovvero al suo karma. Si può dire che le religioni più recenti implichino ciò affermando che Dio è Giusto e che i bambini non nascono innocenti, di qui la dottrina del peccato originale. In altre parole, anche se Ebraismo, Cristianesimo, ed Islam non riconoscano esplicitamente precedenti stati di esistenza, la realtà li obbliga quantomeno a considerare ogni essere come se fosse venuto al mondo con un carico di colpe già addebitate. Si veda, in riferimento al samsara, Martin Lings, L’undicesima ora (Settimo Sigillo – 2003).

[15] Abu Bakr Siraj ad-Din, The Book of Certainty, capitolo 6 (Cambridge, 1991). Si veda anche ibidem, il capitolo 5 su tale punto.

 

[16] Il riferimento è alla questione metodologica che è alla base dell’insegnamento di Sri Ramana Maharshi.

[17] Si veda anche Matteo XXI:42 e Luca XX:17. Non viene propriamente espresso da queste parole nel loro senso più elevato, così come sono citate da Cristo e commentate da San Paolo, ma in un senso più relativo, riguardo ciò ch’è insito alla parabola del figliuol prodigo. Il loro originale contesto nei Salmi (CXIII:22) è direttamente, sebbene non in modo esclusivo, suggestivo di tale ulteriore interpretazione relativa:

Il Signore m’ha castigato duramente: ma non mi ha abbandonato alla morte

Aprimi i cancelli della rettitudine: io v’entrerò, e pregherò il Signore…

Ti pregherò: poiché Tu mi hai ascoltato, e sei venuto in mio soccorso.

La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta testata d’angolo.

[18] Questa ‘giustizia’ è esattamente analoga alla simmetria della maggioranza delle pietre. D’altro verso, la mancanza di simmetria per cui la chiave di volta fu rifiutata, considerandola deforme rispetto agli standard abituali, una volta che questa pietra ha assunto la sua giusta collocazione alla sommità del suo arco, appare come estensione di celestiale sopraformalità, peraltro nel simbolismo massonico, come vedremo, l’arco è uno dei simboli fondamentali del Cielo.

 

[19] Molto di quel che sta in questo paragrafo, ho avuto già modo di pubblicare altrove, con riferimento a Shakespeare. Non ci sono dubbi che in età matura egli fu profondamente conscio di quel che si sta considerando qui, ovvero dello sviluppo dell’anima verso l’umana perfezione, che presuppone la redenzione e l’integrazione di tutte quelle parti della sostanza psichica che si trovano fuori posto. In più d’una delle sue tarde opere teatrali ci viene mostrato l’improvviso destarsi degli elementi intorpiditi in un anima fin a quel momento inconsapevole della loro esistenza. Due dei personaggi in questione sono Angelo in Misura per misura e Leonte nel Racconto d’inverno. Si veda Il segreto di Shakespeare (Athanor – 1985).

[20] Si veda Muhammad: his life from the earliest sources (Inner Traditions – 1983).

[21] Definizione del Profeta della Grande Guerra Santa

 

Martin Lings tradotto da Eduardo Ciampi

Il Mito nella Cultura Tradizionale

“[...] queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione.”

Salustio, Sugli dèi e il mondo, IV, 8

 

 

Nella storia della cultura non vi è assolutamente nulla di più affascinante e misterioso del mito. Esso sembrerebbe, apparentemente, destinato a restare un enigma insolubile; secondo alcune correnti di pensiero, una manifestazione del tutto inintelligibile della mente umana; lo si è infatti voluto etichettare a tutti i costi sotto la voce ‘irrazionale’, giacché si pretende che sia, per definizione, del tutto privo di logica. Secondo la vulgata evoluzionista o progressista, è soltanto l’espressione primitiva di un pensiero debole, ancora incapace di vera razionalità e comprensione, pertanto si esclude categoricamente che esso abbia mai effettivamente qualcosa da insegnarci, e, se mai invece dovessimo in qualche modo scorgervelo, si può star certi che tale insegnamento non valicherà mai gli angusti confini dell’umano. Si è detto e si dirà: “Gli dèi non hanno forse forma umana? E non sono fin troppo umane le loro personalità e loro vicende?”. Sì, apparentemente. In verità, vi è innanzitutto da dire che tutte le accennate concezioni del mito appartengono invariabilmente a punti di vista che sono nettamente estranei, e non solo per ragioni cronologiche od antropologiche, al contento originario in cui il mito stesso è sorto e si è tramandato. Tale contesto è indiscutibilmente quello del Sacro e, in particolare, della cultura misterica e sapienziale. Chiunque prescinda, volontariamente o involontariamente, da tale ineludibile presupposto, non potrà che effettuare un’operazione interpretativa scorretta e fallimentare a priori, se non proprio procedere ad una mistificazione pura e semplice. Quando si intende studiare obbiettivamente una cultura notevolmente differente dalla propria, è indispensabile accettarne i principî ed i valori fondanti, gli archetipi che la costituiscono e la animano; è assolutamente necessario, altresì, osservarla attraverso la visione complessiva del mondo che la caratterizza, e non secondo una concezione della realtà che non le appartiene minimamente. Il dovere dell’autentico ricercatore è quello di sforzarsi di comprendere il più possibile il particolare punto di vista della cultura studiata – che dev’essere assunto preliminarmente come base metodologica costante, e come garanzia dello stesso rigore scientifico della ricerca -, e non di criticarla o rappresentarla secondo un complesso di idee precostituite, derivate dal contesto culturale a cui appartiene esclusivamente il ricercatore stesso. Sarebbe come un tale che decidesse di imparare una lingua straniera totalmente diversa dalla propria, e pretendesse di analizzarla, o addirittura criticarla, come se questa dovesse possedere per forza la stessa grammatica, la stessa sonorità, o basarsi sullo stesso immaginario.

Il mito è sempre, universalmente legato ad una teologia e ad una cosmologia ben definite, e solo in strettissimo rapporto con esse possiede un’effettiva validità ed intelligibilità. Commettono quindi un errore madornale tutti coloro i quali lo considerano alla stregua della pura narrativa fantastica, e conseguentemente lo apprezzano solo in termini letterari, ossia per la grande vivacità immaginativa che esso dimostrerebbe. Troviamo quindi assolutamente sbalorditivo, anzi inconcepibile – e perciò fors’anche abbastanza sospetto -, che, facendo l’esempio specifico dei miti greci – altamente rappresentativi di quelli di ogni epoca e cultura, e come tali assunti d’ora innanzi -, nel tempo ci sia stata una caparbia ostinazione nel non voler in alcun modo tenere buon conto della loro interpretazione da parte degli spiriti più nobili dell’antica filosofia ellenica. Si è riusciti nella più che acrobatica manovra di aggiramento storico e culturale che si possa immaginare: evitare, nella maniera più gratuita ed incomprensibile, di fare diretto ricorso alle più grandi menti dell’antichità occidentale, le quali effettivamente si erano pronunciate – e nemmeno troppo concisamente – sia sul tema generale, e sia sull’interpretazione puntuale di vicende mitiche precise. Innanzitutto, qualcuno, tra coloro che solitamente affermano l’equazione mito = irrazionalità, dovrebbero spiegarci come mai, ad esempio, lo stesso Platone che sappiamo essere, oltre che sommo maestro di filosofia, un grande esperto di logica pura, matematica, geometria, fisica ed astronomia, non solo tramandò alcuni miti arcaici dell’Ellade, ma ne creò anche di suoi – se è effettivamente vero che ne fu lui stesso l’autore originario – per esprimere alcune sue dottrine. E come mai si ignora completamente Plutarco quando illustra, con la massima chiarezza e la sufficiente ampiezza di argomentazione, la genesi e le finalità autentiche dell’espressione mitica? E che dire, poi, di Plotino, o di Proclo, o di altri notevoli filosofi Platonici come Damascio, Olimpiodoro, Ermia di Alessandria o Salustio, che rivelarono esplicitamente il significato recondito di svariate narrazioni mitiche sorte dalla tradizione misterica legata al nome del leggendario Orfeo? Perché tutto questo antico e notevole patrimonio esegetico si trova seppellito nel silenzio quasi completo? Perché esso, invece, non si trova ad essere, come necessariamente dovrebbe, il nucleo centrale ed imprescindibile di qualunque serio studio sul mito ellenico? Sulla base di quale pretesa uno studioso dell’era moderna, per poter comprendere quella cultura arcaica – lontanissima da lui non solo in termini meramente cronologici, ma piuttosto filosofici e spirituali -, dovrebbe trovarsi in una posizione migliore di tutti questi sapienti, i quali, non solo erano contemporanei di un mondo di idee ancora vivente, ma avevano ancora a loro disposizione un enorme deposito di tradizioni orali e di testi – si pensi solo alla leggendaria biblioteca di Alessandria – per noi perlopiù irrimediabilmente perduti? Ad esempio, come ha mai potuto osare un Otto Kern definire “stupidaggini” le interpretazioni procliane dei più importanti miti orfici? Se non fosse stato per i filosofi Platonici, avremmo certamente ignorato la maggior parte di ciò che sappiamo dell’Orfismo. Perché, dunque, considerare quegli autori solo in quanto validi mitografi e non anche quali eminenti mitologi, ossia come preziosissimi ed insostituibili esegeti dei mitologhemi da essi stessi trasmessi? O il rifiuto viene opposto solo perché si tratta di interpretazioni metafisiche? E con quale arbitrio si sosterrebbe – o si sottintenderebbe – che la metafisica non debba avere nulla a che fare col mito, o viceversa? Collocandosi su posizioni di questo tipo, non si rischierà forse di consentire a qualche maligno di sospettare, quantomeno, che è assai più facile fare i filologi, od i critici letterari, piuttosto che i filosofi nel senso più vero del termine? In effetti, è indubbio che la metafisica, o la teologia, dei filosofi Platonici è estremamente complessa e di difficile assorbimento; pertanto, è ben chiaro che se essa dovesse essere riconosciuta indispensabile per la reale comprensione dei miti ellenici, certamente non pochi mitologi moderni si troverebbero a mal partito. Specie tra quelli più fantasiosi e “creativi”.

Sia dunque ribadito definitivamente: da un punto di vista tradizionale, non è assolutamente ammissibile la validità di alcuna interpretazione di qualunque retaggio mitico, laddove tale operazione si collochi, parzialmente o totalmente, al di fuori del contesto teologico o sapienziale della tradizione sacra che ha generato e trasmesso quello stesso retaggio.

A parte i grandi maestri del Tradizionalismo del secolo XX, solo alcuni importanti studiosi hanno considerato ed espresso il mito per quel che realmente è: Mircea Eliade, Walter F. Otto, Henry Corbin e pochissimi altri. Tuttavia, nonostante i loro notevoli sforzi, a causa della pressione schiacciante del razionalismo e del materialismo imperanti, sciaguratamente prevale un’idea di esso che si conforma ad un inveterato pregiudizio “illuminista”. Assolutamente ridicola, in primis, è la pretesa secondo cui i miti furono concepiti essenzialmente per poter in qualche modo spiegare i fenomeni naturali: anche al loro lettore più superficiale non dovrebbe affatto sfuggire che l’universo mitico si presenta come una realtà sui generis, come un cosmo avente una realtà del tutto autonoma ed indipendente dal mondo naturale in cui ci troviamo. Di più: all’interno di esso è molto più quel che ci appare di innaturale, per non dire di impensabile o di impossibile, piuttosto che di naturale o anche solo di verosimile. E non è forse altrettanto evidente che, mentre gli eventi o le forze naturali ci appaiono necessariamente impersonali, gli dèi dell’universo posseggono invece delle identità non solo molto precise, ma dotate di personalità decisamente spiccate, dai tratti inconfondibili? A tal proposito, la solita vulgata ha sempre asserito che tale modo di concepire quelle forze, personificandole, dipendesse dall’elementare esigenza psicologica di “umanizzare” tali entità apparentemente insensibili ed inesorabili. Naturalmente, quest’idea non regge minimamente, giacché, volendo porre la questione nella stessa ottica dei materialisti e dei razionalisti, se l’uomo arcaico era costretto a lottare quotidianamente e duramente contro gli elementi del mondo fisico, i quali spesso ne minacciavano la stessa sopravvivenza, egli era decisamente più pressato a trovare delle valide ed efficaci soluzioni tecniche, ossia pratiche, ai suoi problemi materiali, piuttosto che a fantasticare vanamente di dèi, spiriti o altro. E se anche avesse inizialmente perso tempo con tali presunte fantasticherie ed i rituali annessi e connessi, dovendone inevitabilmente riscontrare quasi subito la totale e drammatica inutilità, non avrebbe tardato molto a farla finita con tutto ciò. O si vuole comunque insistere nel considerare gratuitamente l’uomo della remota antichità come una specie minorato mentale? Le antiche civiltà, invece, non ci hanno forse stupefatto, così come tuttora fanno e faranno in futuro, in mille occasioni, proprio nel campo della tecnica?

Rifacciamoci, dunque, ai summenzionati sapienti dell’antica Ellade, e definiamo il Mito esclusivamente in base all’insegnamento che ci è stato tramandato: come sostiene Proclo – al principio del primo libro della sua Teologia Platonica -, oltre a Plutarco nel suo Iside e Osiride, esso non è altro che il sottile linguaggio per “immagini”, che la metafisica e le teologie arcaiche adottavano per esprimere i propri concetti e misteri. Le realtà trascendenti ed eterne, essendo assolutamente incorporee, invisibili, o, in generale, del tutto impercettibili, e soprattutto inconcepibili dalla mente umana considerata nel suo stato ordinario, non possiedono in se stesse alcuna forma, e pertanto, a meno di una loro diretta rivelazione, resterebbero naturalmente occulte ed incomunicabili. Le immagini mitiche, tuttavia, possiedono per l’appunto il potere di rivestire tali realtà divine di una forma che le renda effettivamente comunicabili al pensiero, parlando innanzitutto all’immaginazione ed all’intuito.

Il linguaggio mitico si basa sulla capacità espressiva del simbolo, il quale deve la propria veridicità ed efficacia al suo essere costituito sulla base di un’analogia effettiva con la realtà simboleggiata, sia quando esso è un ente naturale e sia quando invece è un oggetto appositamente concepito e strutturato per divenire tale. In questo senso, la logica mitica è sempre precisa e rigorosa: essa svela la trama invisibile dei nessi impalpabili che collegano tutto ciò che esiste, in base alla legge trascendente della «simpatia universale». In tal modo, dunque, la realtà divina, da essere totalmente ineffabile, diviene, per natura o per artificio, in qualche modo trasparente alla mente umana, che è ora resa capace di coglierne un riflesso nient’affatto illusorio, bensì rivelatore, profetico. L’universo mitico, ancorché profondamente enigmatico, è lo specchio veridico del cosmo divino, e questo si disvela attraverso quello solo allorquando se ne possiedono le chiavi, e queste possono essere date solo dalla sacra tradizione sapienziale. Inoltre, l’enigmaticità del Mito è connaturata al mistero profondo delle realtà divine, lo riflette: l’enigma spinge alla ricerca l’uomo istintivamente proteso al Divino, gli indica la via necessaria al suo raggiungimento, la quale non può mai essere quella di ciò che è esteriormente evidente, ma solo quella che punta all’interno della stessa coscienza, come in un oscuro antro sacro.

Tornando alle idee erronee sulla mitologia, Plutarco condanna nettamente l’“evemerismo”, che è quella concezione secondo cui i miti riguardanti gli dèi non sarebbero altro che il risultato della mitizzazione di eventi storici reali ed estremamente remoti, i cui protagonisti avrebbero finito per essere divinizzati dalla memoria e dalla fantasia popolari. Si deve tener conto che spesso gli dèi sono presentati come grandi inventori o padri civilizzatori – come Prometeo, Mercurio/Hermes o Saturno/Kronos -; ebbene, se invece si fosse trattato di semplici uomini, per quale assurda ragione si sarebbero dovute inventare delle entità soprannaturali al posto degli effettivi benefattori della razza umana? Ad ogni modo, non v’è dubbio che la cultura antica abbia sempre distinto nettamente gli antenati illustri e gli eroi dagli dèi veri e propri, per cui pare proprio che, perlomeno concettualmente, non vi fosse alcuna confusione tra di essi; persino i faraoni egizi, pur essendo considerati divini, non venivano affatto incorporati nel pantheon della religione ufficiale. È soprattutto assolutamente chiaro che gli dèi possiedono invariabilmente un carattere di universalità che non può in alcun modo accordarsi con delle individualità umane, per quanto valorose o gloriose possano mai essere.

In verità, la ragione più autentica e profonda di qualunque rappresentazione antropomorfica delle realtà divine – ed il grande beneficio che essa in tal modo può produrre -, soprattutto in un ambito politeista, consiste nel fatto che, esprimendo la presenza dell’umano nel divino, essa per converso suggerisce anche la presenza del divino nell’umano; in tal modo, non solo avvicina le due realtà, ma addirittura le lega insieme inestricabilmente, poiché, sottilmente, suggerisce che dal primo nasca il secondo e viceversa, in un ciclo eterno ed immutabile. Spesso il Mito non ci narra forse delle origini divine degli eroi, o dell’intera razza umana, e non evidenzia di continuo la costante interazione o compenetrazione tra il mondo divino e quello umano? Di certo il lato umano della storia del mondo sembra esserne il lato debole, ma, allora, perché mai gli dèi dovrebbero interessarsene così tanto da interferirvi costantemente? Quale oscura necessità li indurrebbe a tale comportamento?

Non sarebbe il caso di ricordare la massima di colui che disse che gli dèi sono uomini immortali e gli uomini dèi mortali?

Un altro importante dato dottrinale, che il filosofo di Cheronea ci ha fortunatamente trasmesso, è che in verità i protagonisti dei racconti mitici non siano affatto gli dèi, ma le entità demoniche ad essi collegate: Proclo infatti spiega che esistono precise “serie” o “catene” che, a diversi livelli, gerarchicamente, legano le realtà soprannaturali; e quei “demoni” costituiscono precisamente l’ultimo anello di tali catene, quello più vicino agli uomini ed in contatto con loro. Essi sono appunto i messaggeri degli dèi, ed è per questo che Plutarco afferma che sono infatti solo loro, e non gli stessi dèi, a pronunciare oracoli negli antri sacri o nei santuari. Anche Platone, nel Simposio, accenna al fatto che forse i miti che narrano di guerre tra gli dèi, o di singoli episodi di violenza riguardanti alcuni di essi, non andrebbero davvero riferiti ad essi; e non riteniamo che con ciò il maestro di Atene abbia semplicemente voluto intendere che tali racconti non dovrebbero esser presi alla lettera – cosa fin troppo evidente e scontata -, ed infatti qui egli parla anche di Eros, in quanto demone, e non in quanto dio, come in precedenza aveva fatto, a riprova che esiste tanto un supremo dio con quel nome, quanto un demone omonimo, collegato e subordinato al primo.

L’elemento fornito da Plutarco è assai prezioso, perché indica precisamente la dimensione alla quale il mito appartiene; infatti, i “demoni” – da non confondere con gli esseri diabolici noti nel giudaismo e nel cristianesimo – appartengono al regno dell’Anima del Tutto, ossia alla sfera incorporea dello psichismo cosmico, che è intermedia tra la sfera puramente spirituale e quella prettamente sensibile e fenomenica. Si tratta di quello che Henry Corbin ha chiamato «Mondo immaginale», ossia, come s’è detto, all’universo psichico autonomo costituito dalle immagini metafisiche degli esseri divini. Il “luogo” delle teofanie. Anche se in qualche modo vi abbiamo già accennato, non resta che dire come il Mito ebbe origine; ebbene, ancora una volta, è la tradizione sacra a rivelarcelo; è vero infatti che i grandi poeti ellenici, autentici profeti, abbiano sempre dichiarato esplicitamente di aver trasmesso in poesia le loro visioni sugli dèi in seguito ad una ispirazione divina, e sempre tutto ciò venne puntualmente e nettamente confermato dai grandi maestri della sapienza di Grecia, i quali fin troppo bene conoscevano i prodigi dell’invasamento divino, dell’autentico “entusiasmo”. Assai male, quindi, farebbe chi pensasse che tali dichiarazioni costituissero un mero espediente retorico – esso avrebbe potuto divenirlo solo molto più tardi -, giacché, per quanto incredibile possa sembrare, quella è null’altro che l’assoluta verità.

 

 

Giovanni M. Tateo