L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA – Stefano Arcella

L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA

di Stefano Arcella (da Studi Evoliani 2010) www.fondazionejuliusevola.it

 

1. I precedenti della ricerca.

La mia attenzione al rapporto fra il pensiero di G. B. Vico e quella di J. Evola è andata maturando gradualmente negli anni, prima in occasione della mia Introduzione alle “Lettere di J.Evola a B. Croce”, poi nella relazione su “Lo Stato Organico nel pensiero di J. Evola”, infine nel contributo apparso in Appendice all’ultima edizione di Maschera e Voltodello spiritualismo contemporaneo. In questi interventi, il mio interesse si è concentrato sui motivi del passaggio di Evola dalla fase filosofica a quella che si può definire ”esoterico-tradizionale” e quindi sull’analisi di alcuni brani dei Saggi sull’Idealismo Magico e di Teoria dell’Individuo Assoluto concernenti il richiamo di J. Evola alla tesi vichiana del “Verum ipsum factum” e la lettura che il filosofo romano elabora di questo assunto filosofico. Il pensiero di Evola, si configura – ed è un tema sul quale tornerò più avanti – come una filosofia della prassi, intesa come azione interiore. Peraltro, questo aspetto del pensiero evoliano non è il solo che susciti un interesse sotto il profilo dei rapporti col pensiero del filosofo napoletano. Vi sono altri profili, quali la concezione ciclica della storia, i richiami molteplici alle “età vichiane”, la scelta del “metodo tradizionale” come approccio in profondità per la comprensione della storia, privilegiando l’attenzione al mito e al simbolo quali espressioni più autentiche dell”’anima” di una civiltà; sono tutti aspetti che completano il quadro dei possibili rapporti fra i due filosofi e che costituiscono, nell’insieme, altrettanti motivi di riflessione. Prima di entrare nel merito di questi aspetti, verificando se e fino a che punto vi siano influenze di Vico su Evola, è opportuno svolgere una ricognizione preliminare sulle citazioni di Vico nei testi del filosofo romano, analizzando il contesto tematico in cui tali citazioni sono state fatte.

2. Le citazioni di Vico nelle opere di Evola.

La prima citazione di Vico che si incontra è contenuta nei Saggi sull’Idealismo Magico (1925), laddove il pensatore romano si richiama alla tesi vichiana “Verum et factum convertuntur” con la quali Vico confuta il razionalismo cartesiano. Si tratta, a mio avviso, di un passo fondamentale per cogliere la peculiarità del pensiero evoliano come filosofia della prassi che sfocia in un vero e proprio superamento, apertamente asserito, della fase speculativa, benché – come ha giustamente notato Piero Di Vona – il profilo filosofico in Evola non si è mai esaurito, perché egli conservò sempre e tenne viva una statura filosofica. Quanto all’opera principale, Rivolta contro il mondo moderno, nell’Appendice dell’ultima edizione Roberto Melchionda, in un suo contributo intitolato Le tre edizioni di Rivolta, osserva che “la seconda edizione si accompagnò ad un discreto intervento sull’apparato con non molti apporti nuovi (solo ora compaiono Vico e il De Maistre de Les soirées du St.Petersboug et Du Pape) e con alcuni sfrondamenti e depennamenti (sparisce Dumézil)”. La prima edizione di Rivolta non conteneva citazioni di Vico e ciò mi sembra significativo; il filosofo romano scriveva sotto la spinta di un impulso intuitivo che solo in una fase successiva – di maggiore sistematizzazione – si arricchiva del supporto di più accurate citazioni bibliografiche. In Rivolta sono tre le citazioni di Vico. La prima, nel capitolo sulla Virilità spirituale, in ordine alla distinzione fra vir e homo e sul senso proprio di viro “Già G. B. Vico – scrive Evola citando La Scienza Nuova del 1725 (III,41) – aveva rilevato come questo termine implicasse una speciale degnità, designando non pure l’uomo di fronte alla donna nelle unioni patrizie e i nobili ma anche magistrati (duumviri, decemviri), sacerdoti (quindecemviri, vi gintiviri) , giudici (centumviri) «talché con questa voce vir si spiegava sapienza, sacerdozio e regno, che si è sopra dimostrato essere stata una stessa cosa nella persona dei primi padri nello stato delle famiglie». Ancora, nel capitolo “Sul carattere primordiale del patriziato, Evola cita Vico e specificamente le articolazioni di ciò che Vico chiamò ‘diritto naturale delle genti eroiche”‘. Nel caso specifico manca una citazione specifica in nota. Il riferimento vi chi ano si colloca subito dopo il riferimento al pater familias, alla sua sacralità ed allo ius vitae neclsque . Infine, nel capitolo Vita e morte delle civiltà, l’Autore osserva, riguardo al tema della decadenza, che “il mos delle vichiane età eroiche mai ha avuto a che fare con limitazioni moralistiche”. Egli sostiene che la causa della decadenza non va vista nella corruzione dei costumi che, semmai, è un effetto, non la causa vera. Orbene, queste citazioni hanno un elemento in comune: esse si situano nella prima parte di Rivolta, dedicata alle categorie spirituali del Mondo della Tradizione intese come categorie “a priori” di valore normativo e metastorico. Il metodo vichiano della ricerca etimologica per risalire alla Sapienza degli antichi Italici – teorizzato dal filosofo napoletano nel De Antiquissima Italorum Sapientia, ancor prima che nella Scienza Nuova - influenza il pensiero evoliano nel momento in cui deve identificare le peculiarità del “Mondo della Tradizione” e illuminarne i significati profondi. Quando Evola deve spiegare il senso profondo di certi vocaboli latini e coglierne l’origine, avverte l’esigenza di richiamarsi a Vico. Altre citazioni di Vico compaiono in Metafisica del Sesso  riguardo al concetto di pudore ed al senso del pudore presso gli uomini della vichiana “età degli dèi, ne L’arco e la clava (in tema di nazionalismo, allorché cita la vichiana “boria delle nazioni”) e soprattutto nella Introduzione al Tramonto dell’Occidente di O. Spengler, in tema di concezione ciclica della storia, con riferimento alle età vichiane ed ai corsi e ricorsi storici. Infine, un fugace cenno a Vico compare in un articolo per la rivista Rassegna Italiana del 1952 che concerne la rivoluzione conservatrice come “rivoluzione mancata” ove parla di “ritorno delle stesse forme” come caratteristica della dinamica storica e cita Vico e Spengler. Nei testi della fase ultima – quali Ricognizionil e Ultimi scritti, che sono raccolte di articoli giornalistici – compaiono due citazioni di Vico, rispettivamente in un articolo su “Prospettive della cultura di destra” e su ”La cultura di destra” a proposito della lettura regressiva della storia che, secondo Evola, “al massimo”, può desumersi dalla lettura di Vico. E’ interessante notare – ed il dato non appare casuale – che in tutti questi articoli, nessuno sia dedicato specificamente a Vico nel suo titolo, mentre compaiono molti altri articoli dedicati, nella loro intitolazione, a filosofi e scrittori sia antichi che moderni. Un esame attento e reiterato di tutta la bibliografia evoliana consente di affermare che, nonostante la copiosa produzione giornalistica, nessun articolo, né alcun saggio – fra i tanti che pure pubblicò su molteplici riviste – è dedicato specificamente al pensiero di Vico. L’impressione complessiva è che Vico, pur essendo ben presente nell’orizzonte culturale di Evola, in rapporto a temi significativi e centrali, sia rimasto, per cosÌ dire, “dietro le quinte” della produzione evoliana, a titolo di conoscenza specialistica, citato in alcuni testi per alcuni particolari riferimenti. Tale impressione è confermata dalla mancata citazione di Vico nella prefazione di Rivolta – in tutte e tre le edizioni -laddove illustra il senso e la funzione di quello che chiama “il metodo tradizionale”, riguardo al quale pure ebbe a citare, in varie sedi, il Bachofen e il Fustel de Coulanges. Al filosofo romano pure non poteva sfuggire la rivalutazione del mito come “vero narrativo” che è nella Scienza Nuova da lui citata in rapporto ad alcune etimologie. Peraltro, la pubblicistica su Evola non ha trascurato .di riferirsi in varie occasioni, all’importanza di Vico almeno quale antecedente e precursore - sotto alcuni specifici aspetti – del pensiero evoliano, dalla recensione di Piero Operti a Gli Uomini e le Rovine19 ai contributi di Piero di Vona e di Thomas Hakl che cita proprio Vico quale antecedente, insieme a Bachofen e a Fustel de Coulanges, del metodo tradizionale evoliano. Completato questo sintetico excursus bibliografico che è utile per avere una visione di insieme dello spazio e della collocazione di Vico nella produzione evoliana, occorre ora esaminare se e quali possano essere i punti di contatto fra i due pensatori.

3. Verum ipsum jactum.

Il De-Antiquissima Italorum Sapientia è dedicato a Matteo Doria, riferimento significativo poiché si tratta di un matematico e filosofo genovese trasferitosi a Napoli, che era attestato su una decisa posizione filosofica neo-platonica ed anti-cartesiana e che si riproponeva di ricostruire e riaffermare la matematica platonica e quindi, in definitiva, si collegava alla matematica pitagorica. Napoli, sin dall’epoca della dinastia aragonese, era un centro della tradizione filosofica ed esoterica neoplatonica. L’Accademia Pontaniana è – forse insieme a quella di Rimini – la piu’ antica Accademia Neoplatonica dell’Italia; essa fu una prosecuzione e una trasformazione dell’Accademia Aragonese. Il legame di Vico con il neoplatonismo rinascimentale è stato approfondito ed evidenziato da Giovanni Gentile, in un suo saggio sul filosofo napoletano. Nella sua opera, Vico attraverso l’originale metodo dell’analisi etimologica e l’individuazione delle voci “dotte” risale ad un antico sapere filosofico degli Italici e cita espressamente gli Ioni e gli Etruschi, valorizzando i primi per la loro sapienza matematica e geometrica, i secondi per la loro scienza rituale e la loro conoscenza dell’architettura, scienze entrambe trasmesse poi ai Romani. Già questo approccio è dirompente rispetto ad una concezione progressi sta della storia, poiché colloca in un lontano passato l’origine di una Sapienza dimenticata e che poi si riscopre attraverso il ricorso all’etimologia, coniugando filologia e filosofia .. Con tale metodo, Vico ritiene di identificare il fulcro di queste antichissime concezioni filosofiche, ossia che Verum et factum convertuntur, il vero e il fatto si convertono reciprocamente, nel senso che io posso conoscere solo ciò che ho fatto, il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto, per cui il campo di conoscenza dell’uomo concerne la matematica e la storia. La prima, perché possiamo dire di conoscere le proposizioni matematiche in quanto siamo noi a farle tramite postulati, definizioni; la seconda – la storia – possiamo dire di conoscerla perché essa è il frutto dell’azione dell’uomo. Noi non potremo dire – secondo Vico – di conoscere la natura perché non siamo noi uomini ad averla creata; essa esula dalle nostre possibilità creative. In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente delle Scuole, si convertono (Latinis ve rum et factum reciprocantur, seu, ut Scholarum vulgus loquitur, convertuntur). Intelligere è lo stesso che leggere perfettamente, conoscere apertamente. Si diceva cogitare nel senso in cui noi in volgare diciamo: “pensare” e ”andar raccogliendo”. Ratio significava il calcolo aritmetico, e la dote propria dell’uomo, per cui si differenzia dagli animali bruti e li supera; descrivevano comunemente l’uomo come un animale “partecipe di ragione”, non padrone completo di essa. D’altronde, come le parole sono simboli e note delle idee, così le idee sono simboli e note delle cose. Dunque, come legere è l’atto di chi raccoglie gli elementi della scrittura da cui si compongono le parole, così intelligere è il raccogliere tutti gli elementi della cosa atti ad esprimere un’idea perfettissima. Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero circa la verità, nelle seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto …… . Per illustrare tutto questo con una similitudine: il vero divino è una solida immagine delle cose, una specie di plastico; quello umano è un monogramma, un’immagine piana, una specie di dipinto. Pertanto mentre il vero divino è quello che Dio dispone e genera nel momento stesso in cui lo conosce, il vero umano è quello che l’uomo compone e fa nel momento stesso in cui lo apprende. E così la scienza è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa; per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa. Solida per Dio, che comprende tutto; piana per l’uomo, che comprende gli elementi estrinseci” (G.B. Vico. De Ant. , Cap.I, L).  In questa prospettiva, Vico anticipa l’idealismo del secolo successivo come ebbe a notare giustamente Giovanni Gentile. ‘ ”Non importa – scrive Gentile – peraltro qui vedere quali scienze Vico conceda alla mente umana; importa invece il carattere che egli attribuisce alla scienza, questo carattere costruttivo della realtà che ne è l’oggetto. Concetto che evidentemente nega la preesistenza dell’oggetto alla mente che lo conosce, e conferisce a questa un’ attività creatrice di quel mondo che essa è in grado di conoscere; sicché la certezza del fatto viene a coincidere con questa intimità della mente al mondo di cui è artefice. E’ la certezza del poeta che è il creatore dei suoi fantasmi, come Dio crea gli uomini vivi; ed è perciò dentro di essi, e ne conosce tutti i segreti. La verità è sì pensiero (evidenza delle idee alla mente) come voleva Cartesio; ma il pensiero non è spettatore di quel che si rappresenta, bensì produttore. Il fatto di cui perciò siamo certi non è quello di cui siamo testimoni; ma quello invece di cui noi siamo gli attori (costruendolo o ricostruendolo ). Orbene, Evola riprende questa tesi vichiana e la estende al campo dell’azione interiore, spirituale. L’uomo può conoscere non solo la storia in senso profano – leggi, costumi, usi civili, organizzazione economica _ ma può conoscere la realizzazione magica, può conoscere l’esperienza del rito e dell’azione sacrale guerriera, nonché le discipline della meditazione, della concentrazione, della contemplazione ma anche perché è egli stesso a farle, ossia a praticarle, a realizzarle con un atto della sua volontà e come contenuto della sua esperienza  ”Si è già visto – scrive il pensatore romano – come uno dei princìpi fondamentali che l’idealismo magico, con riferimento alle conquiste della moderna gnoseologia afferma, è che in tanto la conoscenza può essere intesa come capace di fornire un sistema di assoluta certezza, in quanto si va a concepire il pensiero non più come modellantesi sulle cose, bensì come modellante esso stesso le cose, cioè non più come un passivo riprodurre, bensì come una funzione generante, con sua energia, l’oggetto del conoscere nello stesso punto che la conoscenza di esso. Tale teoria fu intravista sin dal Vico, che la fissò nella nota formula: “verum et factum convertuntur” – cioè il vero, l’incondizionatamente certo – si mutua col fatto, ossia con ciò che viene prodotto consapevolmente da un’attività dell’Io: non vi è sapere assoluto, che là dove la scienza trae da se stessa il proprio soggetto … Concezione, questa, che nel Vico fu probabilmente provocata dall’osservazione delle matematiche, nelle quali il carattere di apoditticità e di universale validità si connette appunto al fatto che esse procedono essenzialmente per costruzione, secondo una libera posizione e una legislazione a priori. Senonché il Vico, in quanto si tenne ad un concetto concreto sì, ma unilaterale delle possibilità umane, si trovò costretto dal suesposto criterio a restringere la conoscenza assolutamente certa per l’uomo al dominio alquanto misero della matematica e della storia, sembrandogli questi i soli campi in cui l’Io potesse dirsi effettivamente creatore, laddove, circa la natura, affermò poter venire essa conosciuta secondo sapere assoluto solo da Dio. Evola non si ferma alla posizione del Vico e, richiamandosi al pensiero di Fichte, di Schelling e di Hegel, esprime una esigenza di estensione del dominio del “fatto” all’intero ambito dell’esperienza umana. ”Un sapere – egli scrive – se è parziale, non può avere il carattere di assoluto sapere e spezzare a metà il dominio della certezza implica in verità rovinare ogni certezza, in quanto assoluta certezza’. E poi, più avanti asserisce: “L’esigenza della filosofia di là da Vico è dunque legittima: se, in generale, vi deve essere una certezza assoluta, nulla deve essere per l’Io, che l’Io non abbia posto. Il filosofo critica poi l’astrattezza dell’Io trascendentale della filosofia idealistica e compie l’apertura alle dottrine sapienziali dell’Oriente e dell’Occidente. ”La veduta degli Orientali, che poi riecheggia nella mistica di ogni luogo, è invece che il processo conoscitivo è condizionato dal processo di effettiva trasmutazione e di potenziamento dell’Io concreto, che l’assoluto conoscere è un flatus vocis quando non rappresenti come il fiore o la luce sgorgante da colui che, con la sua potenza, si è compiuto nell’assoluta autorealizzazione del Rishi vedico, dell’Ahrat buddhistico, del Phap taoistico. Infine conclude che solo nell’Individuo assoluto “solo nell’atto interamente sufficiente il mondo diviene certo e, in ciò, è reale,,30. La filosofia di Evola si configura quindi come una filosofia della prassi, ove questo termine si estende al campo dell’azione interiore, volta a riscoprire e a modificare se stessi fino all’apice dell’unione col divino, sul modello e secondo le finalità degli antichi Misteri. Tale elaborazione del retaggio vichiano spiega perché il filosofo romano, in apertura dei saggi, ponga quella citazione di Lagneau secondo cui la filosofia è la riflessione che perviene alla coscienza della propria insufficienza – che come tale va superata – ed alla necessità di una azione assoluta che parta dall’interiorità. Se infatti noi conosciamo solo ciò che facciamo, ciò che è il frutto delle nostre azioni, che apprendiamo nel momento stesso in cui lo facciamo e viceversa, una filosofia intesa come pensiero astratto, scisso dal nostro fare, non ci offre alcuna effettiva possibilità di conoscenza. In questa premessa vichiana sviluppata dal filosofo romano, cogliamo la tendenza al superamento della fase esclusivamente speculativa per andare verso una fase operativa, realizzati va che avrà poi nella esperienza del gruppo di UR la sua espressione più significativa. Il rapporto fra i due pensatori non è, però, riduci bile, a questo aspetto, pur rilevante. E’ un rapporto più ampio e complesso che investe l’aspetto metodologico evoliano. Occorre chiedersi infatti quali siano le radici di questo metodo, se e fino a che punto il pensiero vichiano abbia influito su quello di Evola, o almeno sia un antecedente in termini di filosofia del metodo, di quello evoliano. In altri termini, possiamo considerare Vico quale precursore del metodo tradizionale? La risposta a questa domanda postula una analisi accurata di alcuni aspetti salienti del pensiero vichiano confrontati con l’elaborazione metodologica evoliana.

4. Vico precursore del metodo tradizionale?

Nella prefazione a Rivolta, Evola privilegia l’attenzione al mito e al simbolo per comprendere in profondità l’anima di una civiltà e delle civiltà, nel loro contenuto universale e metastorico. Un mito sull’imperatore Federico II dice – in questa prospettiva molto più di quanto dica la storia delle battaglie, delle guerre, dei re e delle corti; esso ci parla dell’anima della civiltà medievale, della sensibilità e della visione del mondo propria all’uomo del Medio Evo. Un mito dell’antica Grecia ci dice della sensibilità e della capacità immaginativa dei Greci, della loro anima, molto più di quanto ci dicano le lotte fra poleis greche. Peraltro il mito e il simbolo – di là dalla varietà delle forme specifiche in cui possono esprimersi e che sono legate alla varietà delle varie culture - risalgono ad un significato universale e metastorico, dimensione che unifica e accomuna le varie civiltà tradizionali, di là dalle differenze di tempo e di spazio. Nell’approfondire il rapporto Vico-Evola sotto l’aspetto della centralità del mito, mi richiamo ad un saggio di Gianfranco Cantelli ed anche al recentissimo libro di Stefano De Rosa su Vico precursore della nuova storia, dove si analizza il rapporto fra il pensatore napoletano e la scuola delle Annales e la cosiddetta Teoria delle catastrofi. Questi interventi riguardano un fondamentale aspetto del pensiero e dell’opera del filosofo napoletano: il mito come particolare tipo di linguaggio, al quale egli attribuisce un carattere di originalità, anzi di unicità. Il punto di vista ordinario, normalmente condiviso vuole che “il linguaggio dei miti, per costituirsi, trasmettersi e svilupparsi abbia come proprio fondamento quello che per noi è il vero linguaggio, cioé il linguaggio articolato” partendo dal presupposto secondo cui “il mito, quale oggi lo conosciamo, sia sempre espresso, sotto forma di racconto, da un discorso che si serve delle stesse parole, della stessa grammatica e della stessa sintassi che si usano per dire qualsiasi altra cosa riguardante l’esperienza umana. Da questo punto di vista il linguaggio dei miti non può quindi essere altro che un linguaggio di secondo livello”. La distinzione fra il significato logico-discorsivo delle parole con le quali viene narrata la storia del mito ed il senso allegorico di ciò cui il mito rinvia, secondo un diverso codice di lettura della realtà, consente a Vico di assumere una posizione del tutto diversa: egli sostiene che il linguaggio dei miti è un linguaggio originario, quindi anteriore al linguaggio articolato; quest’ultimo non avrebbe potuto formarsi senza il linguaggio mitico. ”Il mito – scrive Cantelli interpretando il pensatore partenopeo – è il primo linguaggio che “naturalmente ha parlato l’umanità. Ciò vuoI dire che “la storia procede per miti, e che le sue forze sono mitiche. Anche altri studiosi hanno posto in rilievo che, per Vico, l’invenzione del linguaggio è anteriore allo sviluppo della ragione e che quindi esso, in origine, era un mezzo per comunicare emozioni; i primi uomini espressero le loro idee come poesia. Vico enuncia questa teoria nella Sezione della Scienza Nuova dedicata alla metafisica poetica: “Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita e immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie. L’essere ricorso all’immaginazione poetica per spiegare come i pnll1l uomini abbiano esercitato in modo creativo la loro immaginazione ancor prima di aver inventato il linguaggio parlato, ha consentito a Edmund Leanch di accostare Vico e Lévi-Strauss; quest’ultimo, nel suo strutturalismo, condivide il medesimo punto di vista sull’anteriorità dell’immaginazione poetica rispetto non solo alla ragione ma al linguaggio parlato di tipo logico-discorsivo. E’ interessante notare come Vico parli di una metafisica non ragionata ed astratta, ma “sentita e immaginata”; egli non si limita a dire che essa fu immaginata, ma aggiunge che fu “sentita”, ossia corrispondeva ad un modo di percepire il mondo. Questo brano suscita il confronto con le prime pagine di Rivolta, laddove Evola parla della capacità conoscitiva - propria all’uomo delle civiltà tradizionali – di un diverso ordine di realtà sconosciuto all’uomo moderno. Il filosofo della Tradizione si spinge oltre Vico, parla di capacità percettiva e conoscitiva, mentre Vico parla di un sentire e di un immaginare, ma sempre nel quadro di un processo in cui questa esperienza del mondo è la prima fase, l’infanzia, di uno sviluppo, di una crescita che non è irreversibile e unidirezionale perché può avere anche interruzioni regressive, ma fondamentalmente, nelle grandi linee, si tratta pur sempre di un processo di crescita. E’ stato evidenziato che Vico, oltre a porre in risalto la capacità immaginativa dell’uomo allo stato di natura, arriva a presupporre uno stadio iniziale in cui gli uomini “naturali” vivevano in una condizione di pace beata. “Ma in quei tempi tutti orgoglio e fierezza per la fresca origine della libertà bestiale …. nella somma semplicità e rozzezza di cotal vita, ch’eran contenti de’ frutti spontanei della natura, dell’acqua delle fontane e di dormire nelle grotte; nella naturale egualità dello stato, nel quale tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto intendere né froda, né forza, colla quale uno potesse assoggettir tutti gli altri ad una civil monarchia [. ... ] . Qui è evidente l’eco del mito dell’età dell’oro presente in Esiodo e nel mito latino di Saturno, dio dell’aurea aetas, sebbene non su un piano di conoscenza spirituale ma di “rozza semplicità”, che sembra echeggiare una idealizzazione arcadica tipica del gusto e della cultura del ’700. In questo stato naturale, i primi uomini, ancor prima di aver inventato il linguaggio parlato, esercitano in modo creativo, secondo Vico, la loro immaginazione che egli chiama “immaginazione poetica”. ”E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutte robuste forze di corpo che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo essere un gran corpo animato, che per tale aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette “maggiori” che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa; e incominciarono a celebrare la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza. Noi vediamo il cielo e lo definiamo cielo e diamo per scontato che si sia sempre proceduto così. Ma i primi uomini crearono prima Giove quale ”sostanza animata” e poi definirono il tuono, il lampo e il cielo come manifestazioni di Giove. Ecco il punto in cui Vico capovolge la prospettiva razionali sta e dà risalto ai momenti prelogici dello spirito, con ciò anticipando certi temi del Romanticismo, come il Gentile ebbe giustamente ad osservare circa il carattere “preromantico” del pensatore napoletano. Al riguardo, Evola ebbe a dire, nel saggio sui Misteri di Mithra del 1926, che l’uomo delle civiltà tradizionali non divinizzò i fenomeni naturali in quanto tali ma li percepì come manifestazioni sensibili del sovrasensibile, la natura venendo sentita e vissuta come un grande linguaggio simbolico vivente, animato. In questa lettura evoliana del modo di percepire e vivere la natura si può cogliere l’eco e l’influenza del pensiero di Vico, tanto più che questi non si limitò certo all’esempio di Giove, ma ne fece molti altri (fra i quali Achille, Ercole) visti come modelli tipologici, quelli che lui chiama gli ”universali fantastici”. Resta, comunque, un problema: lo scarto fra il senso letterale dei linguaggi articolati – il nostro linguaggio logico-discorsivo – e il significato di immagini e di simboli che le parole tentano di definire. Vico offre una sua spiegazione di questo scarto. Il linguaggio che noi usiamo e nel quale il mito viene enunciato sotto forma di un racconto si è articolato, costituito e definito all’interno di una esperienza del mondo profondamente lontana dalla esperienza umana che si è formata ed espressa sulla base del mito. Per il pensatore napoletano, i miti sono i resti pervenuti da un mondo umano remoto, che testimoniano di un modo di vivere e di percepire il mondo che non ha più nel nostro linguaggio un adeguato strumento espressivo. Tra mito e linguaggio non c’è, pertanto, solo un divario ma una vera opposizione per cui il senso dei miti non solo è comunicato in modo inadeguato ma viene sistematicamente travisato dalle parole di un linguaggio logico-discorsivo che riflette tutt’altra esperienza del mondo. Eppure, il paradosso è che non abbiamo altro codice espressivo per poter dire il mito. Pertanto, fra l’universo di significati cui rimanda il mito e quello cui fa riferimento il nostro linguaggio, non c’è alcun punto in comune se non quello, paradossale, per cui il secondo si presenta quale l’unico strumento mediante cui il mito può essere trasmesso e comunicato. L’unico pensatore moderno che abbia reinventato un linguaggio miti cosimbolico per dire il mito e farlo parlare all’uomo moderno è il Nietsche di Così parlò Zarathustra, dove l’uso della metafora è frequente, quale frutto di una facoltà creativa che rivive e ripropone il mondo mitico dell’uomo antico. Il nostro linguaggio ordinario esprime un pensiero che nella riflessione e nella concettualizzazione ha già posto le basi per giudicare i contenuti dell’esperienza. Il linguaggio mitico, nelle sue immagini, figure e simboli, esprime un diverso stile di pensiero dominato – secondo Vico - dalla fantasia e dalla immaginazione dove i princìpi e le regole che definiscono il credibile e il verosimile sono abbandonati. Nel pensiero vichiano il linguaggio dei miti è, dunque, un linguaggio autentico e originario, perché originaria è l’esperienza del mondo cui quel linguaggio rinvia. Per Vico la conoscenza e la comprensione dei miti è, dunque, fondamentale, per comprendere la cultura e la storia dei popoli più antichi. In questo senso e sotto questo aspetto, Vico è un precursore del metodo tradizionale di Evola, anche se va subito notata una differenza di fondo fra i due pensatori; per il primo, la visione animata del mondo propria ai primi uomini è il frutto di una immaginazione creativa, il che sottintende che, in fondo, quella esperienza, non è conforme alla realtà ma è reale solo nel senso che quel tipo d’uomo, nella sua “semplicità e rozzezza” percepisce la realtà in quel modo. La visione animata della realtà propria all’ uomo della Tradizione di cui parla Evola è la conoscenza di un ordine di esperienze che è reale in un senso più profondo e che quindi per l’autore di Rivolta ha un valore oggettivo. E’ comunque da Vico che parte il processo speculativo che conduce a riscoprire e rivalutare il mito ed il simbolo nella loro dignità di linguaggio originario. Il pensiero del filosofo napoletano è, a sua volta, figlio di tutto un filone speculativo che risale al neoplatonismo rinascimentale e, in definitiva, a Platone, alla rilevanza che i miti hanno nella sua opera, echi, a loro volta, di antiche tradizioni di tipo misterico. Nell’Accademia Platonica di Firenze – fondata per volontà di Lorenzo il Magnifico – si curava particolarmente lo studio dei miti greci, com’è testimoniato dal Commento al Convito di Platone scritto da Marsilio Ficino. Peraltro, come Evola mette in rilievo che Vico anticipa, per certi aspetti, l’idealismo dell’800, cosÌ Giuseppe Rensi, nella sua introduzione all’opera di Ficino, osserva che questi, in certi passaggi del suo libro ”Sull’Amore” – scritto nell’italiano del ’400 – anticipa il pensiero idealista. E giustamente Giovanni Gentile, in un suo saggio su Vico, pone in rilievo questo legame fra l’autore della Scienza Nuova e i neoplatonici rinascimentali.

5. “Universali fantastici” ed archetipi.

Altro aspetto degno di rilievo e che merita attenta riflessione è la funzione di precursore che Vico ha svolto rispetto alla psicologia del profondo del Novecento, in particolare rispetto agli archetipi di cui parla Jung e che in Vico sono qualificati come “universali fantastici”. Secondo lo psicologo e filosofo americano James Hilmann, Vico può essere considerato un precursore della psicologia archetipica soprattutto per la sua elaborazione del pensiero metaforico. Hilmann coglie alcuni punti di contatto nell’uso vichiano degli archetipi animus ed anima e nell’asserire, come poi sosterrà Jung, l’origine autoctona dei miti i quali - secondo il filosofo napoletano – nascono in modo indipendente, senza un’unica fonte di diffusione fra popoli fra loro sconosciuti e quindi non riferibile a fenomeni migratori. Tale affinità si coglie inoltre nella tesi vichiana secondo cui determinati concetti come quelli espressi nel senso comune, nelle massime, nella saggezza popolare fanno parte di un immaginario di universali mentali ”una lingua mentale comune a tutte le nazioni. ”Per Vico – scrive James – questo tipo di pensiero era primario, come è primario per Jung il pensiero fantastico. Pertanto, la relazione fra i “caratteri poetici” di Vico e il concetto junghiano di archetipo sarebbe strettissima. Questa funzione di anticipazione della psicologia archetipica moderna e contemporanea viene colta da James anche in Plotino e in Ficino. Riguardo a quest’ultimo, si può ricordare che egli, nel suo libro “Sopra lo Amore” (ossia il Commento al Convito di Platone) evoca l’archetipo del dio Amore, come “il più antico di tutti gli dèi” e che la sua lettura del Convito solo in apparenza rispecchia il pensiero platonico, in realtà ricevendo anche, sotto vari aspetti, gli influssi del pensiero di Plotino. Tale comparazione ha un suo interesse ai fini del presente contributo, poiché è noto che Jung lesse e citò La Tradizione Ermetica di Evola, proprio nel quadro del suo approfondimento degli archetipi e dell’inconscio collettivo. Questa comparazione fra Vico e Jung sul tema degli archetipi – e quindi sui contenuti perenni di quella che Evola definisce come la “Tradizione universale” – ci avvicina ad un argomento importante, concernente il significato stesso del concetto di Tradizione nel pensiero di Evola e i suoi eventuali rapporti col pensiero di Vico.

6. Provvidenza vichiana e Tradizione evoliana. 

La dottrina di Vico esclude che la “storia ideale eterna” sia trascendente rispetto alla storia temporale, nel senso di essere esterna ad essa e capace di orientarla dal di fuori. Al tempo stesso, il pensiero di Vico esclude che la storia ideale eterna sia immanente nella storia umana e che l’ordine delle vicende umane sia in ogni caso garantito da quella. Se fosse così, il corso delle vicende umane dovrebbe necessariamente conformarsi alla successione ideale delle età, escludendo ogni libero arbitrio dell’uomo, quindi negando la sua libertà: in tal caso la provvidenza sarebbe l’unico vero protagonista. La Provvidenza di Vico non è né trascendente né immanente. Essa è equidistante sia dalla concezione crociana che la voleva priva di riferimenti alla trascendenza, sia dalla lettura anti-immanentista tipica dei filosofi cristiani della storia. Il filosofo Nicola Abbagnano legge la provvidenza vichiana come “una norma ideale cui il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente. In altre parole, la provvidenza vi chiana è un disegno che è, al tempo stesso, un’onnipresente sollecitazione o dover-essere profondo che spinge l’uomo ad agire in vista di valori ideali eterni. Se la provvidenza è un “dover-essere o sollecitazione profonda” vuoI dire che essa ha un valore normativo; se l’uomo, sollecitato dalla provvidenza, agisce per fini ideali eterni, vuoI dire che essa ha un carattere di “apriori”, ossia ha una validità intrinseca, a prescindere dall’esperienza umana. Orbene, nella prefazione di Rivolta e in vari capitoli della prima parte dell’opera, Evola considera la Tradizione come un valore normativo ed il mondo della Tradizione come un insieme di categorie a-priori. Le civiltà tradizionali sono una approssimazione, più o meno imperfetta, al modello dei valori tradizionali, metastorici e universali. Questa Tradizione universale si esprime in una pluralità di forme diverse secondo le differenze di tempo, luogo, etnia, condizione geografica. La Tradizione è dunque per Evola una “Trascendenza immanente”: ossia essa si cala e si esprime nella storia umana ma senza mai esaurirsi nella storia, che è sempre un’approssimazione. La storia dell’ uomo può avvicinarsi o discostarsi dalla Tradizione, perché al centro della storia c’è l’uomo con la sua azione. Evola, infatti, critica la concezione della storia con la s maiuscola tipica dello storicismo e contesta il determinismo. “Il nostro punto di vista – scrive in Orientamenti – non è quello del determinismo. Il fiume della storia scorre nel letto che esso stesso si è scavato . Questa configurazione della Tradizione come un quid né del tutto trascendente né del tutto immanente, poiché essa travalica la storia pur esprimendosi nella storia, presenta, a mio avviso, una qualche affinità con la provvidenza vichiana. Vico si ispira a Platone; la sua “storia ideale eterna” esprime una concezione di matrice platonica, così come la rivalutazione e la riscoperta del mito va collegata alla rilettura di Platone e dei miti che il filosofo ateniese tramanda (celebre, ad esempio, il mito della caverna). Orbene, non è certo un caso che, in apertura de Gli uomini e le rovine, Evola citi una frase di Platone, tratta dalla Repubblica, che dice “Vi è un modello fissato nei cieli che l’uomo possa vedere e, avendolo visto, conformarvisi in se stesso. Ma che esso esista o sia mai esistito, è cosa priva di importanza; perché questo è l’unico modello di cui egli mai possa considerarsi parte”. La “Trascendenza immanente” di Evola ha dunque una ispirazione platonica nel suo essere una norma ideale, un “modello nei cieli” cui l’uomo si conforma interiormente, se sceglie di conformarsi. Credo che i due sistemi di pensiero – quello vi chi ano e quello di Evola - nella loro comune ispirazione platonica abbiano pertanto un punto di contatto, ma anche alcune significative differenze, poiché in Vico la provvidenza si colloca nell’ambito di una concezione religiosa cristiana risolutamente negata dal filosofo romano della Tradizione. Il cristianesimo è visto, infatti, in Evola, come un processo involutivo antitradizionale, quale “sincope della tradizione occidentale” (che è, significativamente, il titolo del capitolo di Rivolta dedicato al cristianesimo) sovversione dei valori tradizionali; una posizione che il filosofo romano mantenne anche negli ultimi anni, com’è dimostrato da ciò che scrisse ne L’arco e la clava sul rapporto fra cristianesimo ed esoterismo tradizionale. La successiva romanizzazione del cristianesimo in cattolicesimo romano viene considerata, nella sua prospettiva, nella misura – e solo nella misura in cui – sono accolti dal cattolicesimo elementi caratteristici della romanità. Lo studio dei rapporti fra i due pensatori è appena iniziato e va ulteriormente approfondito. Intanto un primo punto fermo si può fissare: il filosofo napoletano, nel riscoprire il rilievo del mito per conoscere e comprendere le culture e la storia dei popoli più antichi ha aperto la strada per l’elaborazione di quel metodo di ricerca in profondità della storia universale che Evola definÌ “metodo tradizionale”. Le stesse ricerche e le intuizioni della storiografia romantica dell’800 sono state anticipate da Vico. E la visione della Provvidenza come un “dover-essere” ha aperto la strada per una lettura del rapporto fra Trascendenza e storia che fosse oltre l’esclusiva trascendenza o l’esclusiva immanenza.

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Un Commento a “L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA – Stefano Arcella”

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