Dalla Tradizione alle frontiere della Nuova Scienza

“Le teorie sulla radiazione enunciate da Bohr destano in me enorme interesse. Tuttavia non vorrei essere costretto ad abbandonare troppo in fretta il principio di causalità in senso stretto, senza averlo difeso più tenacemente di quanto abbia fatto finora. Trovo assolutamente intollerabile l’idea che un elettrone esposto a radiazione possa decidere di sua spontanea volontà non soltanto il momento di “saltare”, ma anche la direzione del “salto”. In questo caso preferirei fare il croupier di casinò piuttosto che il fisico… Dio non  gioca a dadi!”  Queste parole vennero pronunciata da Albert Einstein a seguito dei primi esperimenti che avrebbero dato inizio alla meccanica quantistica. Siamo ai primi anni del 1900 ed Einstein, nonostante questi risultati, non volle mai abbandonare, almeno ufficialmente, la sua fiducia nella scienza tradizionale basata sulla legge della causa e dell’effetto. Ma fu in seguito proprio a questi fatti che Niels Henrik David Bohr, (Copenaghen, 7 ottobre 1885, 18 novembre 1962) fisico e matematico danese, a capo della scuola di Copenhagen poté affermare che la causalità non è l’unico principio da cui consegue la realtà. Questa, infatti, si basa sulla legge della regolarità e non ammette, se non giustificandola astrusamente con l’attribuire ogni eccezione al “caso”, alcuna libertà acausale né, tanto meno, l’influenza di un soggetto cosciente. Questo tipo di concezione culturale deriva dalla separazione, a decorrere da un certo periodo storico, delle cosiddette scienze esatte dalle scienze umanistiche, considerando le prime superiori alle seconde. Ne derivò che da Cartesio in poi, il quale operò la scissione della  realtà spirituale  (res cogitans)  dalla realtà  fisica  (res extensa), vi fu una frattura insanabile tra la dimensione gnoseologica, o della conoscenza, e quella ontologica, o dell’essere in sé.  La meccanica quantistica sostiene che la sola legge della causa e dell’effetto non è applicabile all’oggetto del nostro studio, rappresentato dalla natura, bensì, è applicabile solamente alle manifestazioni generate da quest’ultima, in quanto la natura in sé sarebbe, essa stessa, coscienza. In buona sostanza si sostiene che la coscienza in generale e la coscienza dell’uomo in particolare, la sua mente, abbia la capacità di influenzare la realtà circostante nel momento dell’osservazione. Ciò che sorprende enormemente è che i principi e le teorie sui quali si basa questa nuova scienza li ritroviamo, analogamente e in forma misticheggiante, nelle antiche dottrine e nelle culture greche e indo iraniche, risalenti anche a ben oltre tremila anni prima di Cristo. Sarebbe, peraltro, inverosimile sostenere che quei popoli abbiano potuto disporre di strumenti scientifici in grado di portarli ad elaborare tali teorie, per cui dobbiamo ipotizzare che essi, pur nella pratica osservazione dei fenomeni naturali, si siano basati prevalentemente sull’intuizione. Lo stesso Niels Bohr sostenne, a seguito di un suo viaggio in oriente, che la visione filosofica di quei popoli meglio si conciliava, della filosofia occidentale, con le nuove teorie elaborate dalla meccanica quantistica. La dottrina samkya è una delle più antiche dell’India, benché il primo testo sistematico di tale scuola, il  Samkya-Karika, risalga al IV secolo d.C.. In essa viene elaborata la teoria dell’esistenza di due realtà differenti ma ugualmente eterne: le anime individuali (purusa) e la materia (prakrti). L’esistenza del samsara, considerata la realtà illusoria e causa principale della sofferenza, ovvero il divenire fenomenico, viene determinata dalla triplice combinazione dinamica dei modi di essere di parusa e prakrtisattva (leggero, luminoso, piacevole) rajas (mobile, dinamico, doloroso) e tamas (inerte, ottuso, ostacolante). Sull’idea che il mondo empirico sia prodotto dal perpetuo dinamismo dei tre modi di essere di parusa e prakrti, si basa una delle teorie più interessanti di quella speculazione: la preesistenza dell’effetto sulla causa. L’effetto, dunque, sarebbe una metamorfosi della causa, identico ad essa nella sua sostanza; ovvero sarebbe una sua trasformazione, derivante dall’avvicendamento dei tre modi di essere, sattva, rajas e tamas. Nella nuova scienza ritorna centrale il concetto di nous, da cui deriva il termine noetica. Il significato del termine trova la sua originale accezione nel periodo arcaico. Con esso Anassagora indica l’”Intelletto ordinatore”, mentre in Parmenide è “Identità di essere e pensiero”; per Platone è “Intelletto puro” che permette la conoscenza divina e si contrappone alla ragione discorsiva, “dianoia” (dialettica); per Aristotele è “pensiero di pensiero” e dunque autocoscienza, intuizione; il significato greco di noesis è infatti auto-intuizione. Per Plotino, infine, è piena “identità indivisa  di soggetto e oggetto”, dove non sussiste alcun dualismo, in quanto è auto-contemplazione dell’Uno, un traboccare estatico: estasi significa “uscire fuori da sé”. La noetica, infatti, è una disciplina e una scienza che si occupa dello studio della coscienza e della sua capacità di interagire con la realtà materiale e immateriale. Dunque soggetto e oggetto, osservatore e cosa osservata, non sarebbero più due enti distinti e separati, come sosteneva la vecchia concezione fisica. La noetica si propone, attraverso gli esperimenti della meccanica quantistica, di ridurre progressivamente, fino ad eliminarla del tutto, la separazione tra il soggetto e l’oggetto, ovvero tra materia e spirito, ovvero tra l’immanente e il trascendente. L’antica speculazione vedica, la cui raccolta dei testi sacri Veda risale al XX secolo a. C., nella sua visione mistico speculativa indica, come motivo principale dell’esistenza, la ricerca della salvezza attraverso la conoscenza dell’essenza del proprio io e del suo rapporto con lo spirito assoluto. Questo concetto, che esclude alla base qualsiasi principio dualistico tra spirito e materia, consiste nella liberazione dell’individuo attraverso la negazione del così detto samsara, verso il nirvana, cioè l’identificazione del proprio spirito con lo spirito assoluto. Il concetto centrale è quello di un principio unico alla base della vita universale e di quella dell’essere umano. Tale principio, che potremmo definire anche anima, spirito, o coscienza universale, nelle Upanisad è rappresentato dall’Atman. L’Atman è immune da ogni influenza empirica e spazio temporale ed è considerato ineffabile e definibile soltanto in forma negativa, ovvero di lui si può dire soltanto ciò che non è.  Benché principio unico e indifferente e nonostante questa sua forma metempirica, l’Atman è presente in ciascun individuo e rappresenta il proprio io essenziale e non l’io apparente.  Questo problema del sé individuale microcosmico, identico al sé universale macrocosmico, che esclude qualsiasi forma di dualismo, in Mandukya Upanisad, III, 7, viene spiegato nel modo seguente: “Come l’aria racchiusa nella brocca non è una trasformazione, né una parte dell’aria esterna ad essa, così il Sé individuale non è né una trasformazione né una parte del Sé universale.” L’Atman è identificato anche nell’energia spirituale contenuta e sprigionata nella preghiera: il Brahman, che nella speculazione Brahmana è considerato quale sostanza originaria del tutto. Ciò che impedisce la conoscenza dell’antinomia tra l’essenza del proprio io universale, l’Atman e l’apparenza del proprio io empirico, nelle Upanisad viene identificato nel Karman, il dinamismo, l’ignoranza insita dell’azione, che agisce attraverso la concatenazione degli eventi e dei pensieri. La liberazione dal samsara consiste, pertanto, nella presa di coscienza, ovvero nella conoscenza di tale antinomia e nel tendere verso l’Atman. Questo tipo di concezione, che tende ad annullare ogni dicotomia ed ogni scissione del reale, ci fa ben comprendere perché in India sia stata sempre minima la suddivisione fra religione e filosofia, fra scienza e misticismo. I più recenti risultati ottenuti nella sperimentazione della meccanica quantistica hanno condotto ad una ulteriore enfatizzazione del ruolo della coscienza, tanto da poter asserire che nulla può esistere oltre la percezione del soggetto cosciente e, pertanto, non ha alcun senso sostenere la scissione tra il soggetto e l’oggetto come due realtà a se stanti, per il fatto che ciò che esiste è unicamente e unitariamente l’essere che viene percepito. La scuola madhyamika e la scuola yogacara elaborarono la metafisica buddista del cosi detto grande veicolo. Nagarjuna, vissuto nell’India nord occidentale attorno alla metà del II secolo d. C. fu una delle più eminenti personalità del pensiero indiano, oltre che fondatore della scuola madhyamika. Nella sua filosofia, esposta nei 400 versi del Madhyamika-Karika, egli decreta, in forma logica e argomentata, l’insostenibilità dei concetti empirici in quanto contradditori, come lo è, ad esempio, il concetto di tempo. Nel mondo empirico nulla possiede una natura propria, ma tutte le cose si condizionano reciprocamente, annullando il proprio essere soggettivo e oggettivo in quello che viene considerato il mondo dell’apparenza. Ne consegue che tutto ciò che è compreso entro il mondo del molteplice e dell’opinione, altro non è che il prodotto dell’immaginazione del soggetto cosciente, ovvero dell’uomo. Il luogo in cui si dissolve la realtà illusoria del mondo dell’opinione è il vuoto, un’entità considerata non reale situata oltre il velo dell’apparenza (maya). Dalla consapevolezza che ogni cosa si riduce e si identifica entro questa sorta di monismo metafisico, quale è il vuoto, ne consegue l’eliminazione di ogni forma dualistica e si può raggiungere la liberazione. In questo modo l’assoluto non apparirà più come un entità esterna rispetto al mondo fenomenico e relativo, ma si identificherà con esso e, dunque, il nirvana e il samsara ci appariranno come due qualità appartenenti alla stessa ed unica realtà. In parallelo a questa interpretazione del vuoto metafisico di Nagarjuna, l’altra scuola filosofica del grande veicolo,  lo yogacara, elaborò la teoria secondo cui tutto ciò che esiste altro non è che coscienza, vijnana. Per questo motivo la scuola venne detta anche vijnanavada. Gli oggetti esistono solo in relazione con il soggetto conoscente e, dunque con la sua coscienza, che a sua volta è realtà assoluta e incondizionata. In questo modo la coscienza, nell’esprimere la sua potenzialità, compie un atto di creazione, ovvero può dare origine al proprio contenuto. Fondatore della scuola è ritenuto Maytreya, vissuto forse nel IV secolo d.C., ma i suoi più illustri esponenti furono i fratelli Asanga e Vasubandhu, vissuti all’inizio del V secolo d.C.. Secondo un altra teoria yogacara si perviene alla liberazione dal samsara intraprendendo la giusta via dello studio e della ricerca verso la conoscenza: “di due raggi, uno dei quali proviene da un gioiello e l’altro da una lampada, nessuno dei due è il gioiello, ma scambiando il primo per un gioiello si può pervenire a quest’ultimo, e non invece se ci si affida all’altro”. I  principi e gli indirizzi teorici su cui si muove la scienza  noetica  e la  meccanica  quantistica ci forniscono l’idea  di  una  sintesi  della conoscenza che risale ad oltre tre millenni. Possiamo indicare, in maniera speculativa, un macro periodo che va dalle origini della cultura fino all’Umanesimo come “era delle tesi o delle affermazioni”, per confluire in un “era dell’antitesi o delle negazioni”, che potremmo far decorrere dal periodo meccanicistico ed illuminista fino ad arrivare a ridosso dei giorni nostri. Ora si presenta la possibilità, con l’avvento della “nuova scienza”, di un ”era della sintesi o delle riaffermazioni”, in cui vengono riscoperti e rivalutati quei concetti appartenenti alla Tradizione che erano stati sminuiti e perfino ridicolizzati dalla vecchia scienza. Mi riferisco alla “Teoria del Tutto”, alla “Geometria Sacra”, alla “Simbologia Universale”, alla “Metafisica dei Numeri” e, infine, alla “Scienza Alchemica”, che viene oggi riconosciuta dalla noetica come la “suprema scienza della trasformazione interna”, il cui concetto basilare era la trasmutazione del sé umano inferiore nel suo corrispondente divino superiore, che simbolicamente gli alchimisti intendevano nel risanare la corruzione della materia con  l’opera della  trasmutazione del piombo (metallo vile e inferiore) in oro (metallo nobile e superiore). In questa prospettiva ci perviene il messaggio che le antiche filosofie tentano di comunicarci tramite le teorie della nuova scienza e consiste nella negazione e nel superamento del dualismo spirito-materia e soggetto-oggetto, entro una nuova dimensione di sintesi di uno spirito-coscienza universale. Espressione del misticismo ermetico è: “ Quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius” (Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso). L’Atman è la Realtà sottesa ad ogni aspetto del mondo delle forme e si identifica, a livello microcosmico, con il Sé individuale dell’uomo. L’identità tra Atman e Brahman, l’origine di ogni cosa, è enunciata nella frase della Chandogya Upanisad: “Tat tvam Asi”  (Tu sei Quello).

Sandro Secci

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