LA DESTITUZIONE DEL SENSO INIZIATICO NELL’EPOCA MODERNA

Qual’è il significato oggi del decreto nietzschiano che annuncia la morte di Dio? Ha ancora senso parlare di Dio in un epoca, la nostra, dove tutto è ridotto a merce e quelli che un tempo erano considerati dei mezzi per soddisfare i bisogni, cioè il denaro e la tecnica, oggi sono diventati i fini primi, tali da sostituire perfino Dio nella concezione del senso esistenziale ? Cos’è diventato l’uomo in questo contesto se non un mezzo anch’esso, da asservire a quei nuovi fini che prima abbiamo nominato?  E ancora, si può enunciare che insieme a Dio anche l’uomo muore con lui e che questo condurrà inevitabilmente al declino e alla morte anche della civiltà occidentale? E quando affermiamo che i mezzi hanno sostituito i fini invertendone i ruoli, quella che i filosofi chiamano l’eterogenesi dei fini, abbiamo nominato la causa prima di questa morte annunciata? Esiste, infine, ancora una possibilità di liberazione e di riscatto della dignità cosmica dell’uomo, in quanto essere pensante?

La morte dell’uomo

Quando l’uomo da fine diviene mezzo è possibile decretarne la propria morte?

Nell’etica aristotelica col denaro non si può produrre ricchezza in quanto questo non è un bene, ma il simbolo di un bene e con i simboli non si produce ricchezza. Hegel formulò la teoria basata sulla necessità che il denaro dovesse essere considerato solo un mezzo idoneo al raggiungimento di determinati scopi, che sono la produzione dei beni e il conseguente soddisfacimento dei bisogni. Qualora il denaro fosse divenuto la condizione universale per realizzare qualsiasi altro scopo, allora sarebbe diventato esso stesso il fine primo, con la conseguenza che non necessariamente si sarebbero soddisfatti i bisogni e, di volta in volta, si sarebbero decise la quantità, la qualità e la tipologia dei beni da produrre, in base a leggi eterogenee di mercato. Secondo Hegel in occidente viene considerata persona colui che possiede ricchezza, ovvero colui che è in grado di pagare una sanzione qualora trasgredisca una legge. Tutti gli altri sono considerati individui, uomini esclusi dalla società: “L’uomo senza denaro è l’immagine della morte”. Siamo giunti a questo: la nostra società percepisce e riconosce il denaro come l’unico generatore di tutti i valori. Ma una società che fonda se stessa riassumendo i propri valori in un unico valore universale e relega l’uomo a un ruolo di semplice ingranaggio di una macchina complessa, è destinata disastrosamente a  franare su se stessa. Nel suo “L’uomo è antiquato”, la riflessione antropologica di Günther Anders, (filosofo ebreo e primo marito della ben più nota Hannah Arendt) maturata nel contesto degli eventi storici in cui è vissuto, ci fornisce una analisi tragica sul destino dell’uomo dei tempi moderni. La condizione dell’uomo inserito in un contesto di produzione e di consumo esasperati, dove l’unica legge è quella di ottenere il massimo risultato da un impiego minimo di mezzi e di risorse, è di essere relegato a semplice funzionario asservito alla tecnologia, ovvero a divenire, egli stesso, un ingranaggio e un fattore produttivo, il cui apporto è considerato utile nella misura in cui valgono le sue competenze specifiche. Tale limite riguarda anche la sua responsabilità soggettiva, circoscritta e limitata alle sole mansioni che gli sono assegnate, delineate in base alle proprie competenze. Ad esempio, in una fabbrica di armi atomiche, la realizzazione di una bomba da impiegare per lo sterminio di intere popolazioni innocenti richiede parecchie competenze e molti sono coloro che partecipano alla sua realizzazione. Nessuno di essi, tuttavia, sarà ritenuto responsabile degli effetti che quest’arma causerà, ma risponderà solamente in termini di efficienza produttiva e per la parte di competenza relativamente alle proprie mansioni.  Ma c’è di peggio: la morte stessa  può essere considerata un prodotto. Così  i morti di Hiroshima e dei campi di sterminio nazisti, nel pensiero dell’autore, sono considerati alla stregua di un laboratorio, come prodotti dell’efficienza organizzativa e tecnico-scientifico. Tutto assume la parvenza di una fabbrica in cui la tecnica è l’autrice del misfatto, mentre gli esseri umani sono semplici operatori o ingranaggi che svolgono la propria mansione e fanno funzionare una macchina complessa. L’uomo tecnologico, in quanto “mezzo” di produzione, oltre che della responsabilità soggettiva è stato così privato, per conseguenza, anche della sua libertà di giudizio e di decisione. L’uomo ha alienato da se la propria anima, fondando i propri precetti morali sulla produzione e sul consumo dei prodotti. Di fatto, l’homo faber ha soppiantato l’homo cogitans nel mondo della produzione, ma si scopre impreparato e inadeguato di fronte alla perfezione della macchina e del mondo dei congegni, deve solo obbedirle. Scopertosi superato nel proprio essere finito e obsoleto di fronte alla perfezione della tecnica, getta se stesso nel vortice indifferenziato del «dislivello tra il fare e l’immaginare, l’agire e il sentire, la conoscenza e la coscienza, la macchina e il corpo».

Nel saggio “L’uomo e la tecnica” Spengler ci fornisce la sua visione apocalittica del momento attuale: “Oggi ci troviamo all’apice, là dove comincia il quinto atto. È l’ora delle decisioni ultime. La tragedia si conclude. Ogni civiltà superiore è una tragedia; la storia dell’uomo nel suo insieme è tragica” .

La perdita dell’identità dell’uomo coincide con la sua morte e consiste nella metamorfosi della forma mentis in modalità univoca, che è causa prima nell’ignoranza delle differenze nella distinzione degli opposti: non sappiamo più cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è bello e cosa è brutto, ma sappiamo bene solamente cosa è utile. La mente umana ha disimparato a pensare in termini qualitativi, essa pensa solo in termini quantitativi e di calcolo. La domanda che precede ogni intenzione-azione è posta in termini di utilità: “è conveniente?”. Pensare poco significa vivere in modo acritico e affidarsi a idee generali o, peggio ancora, precostituite, le quali conducono tutte, inevitabilmente, verso un pensiero uniformato e unico. Tale pensiero solitamente è tranquillizzante e protettivo e consiste nella mancata problematizzazione dei concetti e nella creazione di falsi miti, quali sono ad esempio il mercato e la crescita economica. Problematizzare un concetto consiste nel discernerne il significato, ad esempio tra crescita e progresso: il progresso è un concetto qualitativo, mentre la crescita (economica) è un concetto quantitativo. All’interno di questo scenario, tutto ciò che l’homo cogitans è stato capace di produrre nei secoli passati in termini di cultura, arte, religione, filosofia, letteratura, musica e poesia, non  è più capace di creare se non all’interno di spazi utili; egli esiste solo attraverso una collocazione specifica di mercato, in grado, cioè, di generare profitto. Un opera d’arte è tanto più “artistica” quanto più elevata è la sua quotazione di mercato. Siamo giunti all’epilogo. La parola occidente significa terra del tramonto. Il suo destino sta scritto nella genesi del nome.

La scelta amletica e il senso iniziatico del domandare

«Il dio: giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame; come il fuoco si tramuta quando ad aromi si mescola, prende nome secondo l’olezzo di ognun d’essi» (Eraclito). 

La ragione umana ha terrore del sacro e per questo il suo scopo nel tempo della storia è stato quello di alienarsi dal sacro, per la sua salvazione e per il suo riscatto. Essa infatti si basa sulla univocità del giudizio e sul principio di non contraddizione: una cosa è se stessa e non altro, mentre il sacro è il luogo del linguaggio simbolico, dove una cosa è se stessa ma anche altro. E’ il luogo dell’indifferenziato e dell’armonia degli opposti, dove la cosa è pregna di ulteriorità. In una parola è’ il luogo della follia, abitato dal dio che non distingue il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto, la notte dal giorno e il vero dal falso. Un luogo sacro, dunque, è un luogo assai pericoloso e chi si avvicina o alberga in esso senza una adeguata preparazione e in maniera improvvida, a lungo andare rischia la folgorazione e la malattia mentale. Ciò nonostante continuiamo a recarci, forse non del tutto consapevoli, in luoghi che consideriamo sacri. Ci domandiamo, nel momento in cui varchiamo la porta di un tempio, di una sinagoga, di una chiesa o di una moschea, il senso del nostro ingresso e del nostro permanere in un luogo considerato sacro? E’ prudente, di questi tempi, varcare quella soglia? E’ prudente attribuire un senso irrazionale a un luogo fisicamente concreto e tangibile, cioè collocato in un tempo e in uno spazio determinati? La ragione, lo sappiamo, ha terrore dell’infinito e dell’imponderabile. Allora ci domandiamo il senso di questo paradosso, della nostra presenza in questo luogo, quale esso sia nel contesto di una coabitazione con la prerogativa, tutta umana, che consiste nella razionalizzazione del senso delle cose. Perfino azzardare una risposta a questa domanda potrebbe nascondere delle insidie e potrebbe rivelarsi pericolosa se tentata in maniera avventata e frettolosa.  Dunque, per il momento soffermiamoci a meditare solo sul senso del nostro domandare, ma intanto prendiamo atto che un senso, sebbene del tutto irrazionale, a questo luogo che abitiamo, è stato già attribuito: il senso del sacro, appunto. Ancora secondo Anders, rispondendo alla domanda fondamentale dell’antropologia filosofica: «che cosa è l’uomo?»  andrebbe negata una «differentia specifica» rispetto alle altre specie. Proprio le domande sul «che cosa» e sul «chi» sia l’uomo farebbero parte dell’impareggiabile autocompiacimento umano, secondo il quale egli sarebbe beneficiario di una posizione metafisica e teologica del tutto particolare. In altre parole, la domanda sull’essere ha significato solo se ha presupposti teistici. Chi è allora quest’uomo, che osa domandare il senso delle cose? Secondo Anders l’uomo è un errore della natura, una specie di mostruosità, o un incidente, destinato all’estinzione in quanto con la sua presenza e il suo domandare disturberebbe l’equilibrio naturale. Pertanto l’uomo sarebbe un folle a domandare, una sorta di disturbato mentale. Senonché Jung ci dice che: “La psiconevrosi è, in ultima analisi, una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio senso”. Quindi saremmo dei pazzi in ogni caso! Siamo giunti al bivio amletico: sprofondare ancor di più nel nichilismo più profondo, o aggrapparci disperatamente alla ricerca del senso.

“Il camminare nella direzione di ciò che è degno di essere domandato non è avventura, ma Ritorno in patria. Seguire una via, che una cosa ha già di per se presa, si dice senso”. In tedesco la parola  è sinn, la cui estensione in sinnen significa musa. “Impegnarsi nel sinn, cioè nel senso di una cosa, è l’essenza della meditazione, besinnung. Questa significa di più del semplice divenire di qualcosa, ma non siamo ancora nel besinnung quando siamo ancora nella coscienza. La meditazione è qualcosa di più, che va oltre la coscienza. Essa è il tranquillo abbandono a ciò che è degno di essere domandato. Tuttavia, anche quando per un favore particolare si giungesse al grado più elevato della meditazione, essa dovrebbe pur sempre contentarsi di predisporsi a ricevere quella parola, di cui la nostra umanità ha estremo bisogno. Che cosa riusciamo a capire se riflettiamo adeguatamente su questo? Che il tratto fondamentale del pensare non è l’interrogare, bensì l’ascoltare ciò che viene suggerito da ciò che deve farsi problema. Fare esperienza di qualcosa significa che quel “qualcosa” al quale aneliamo, proprio mentre siamo in cammino per raggiungerlo ci sopraggiunge, ci colpisce, ci pretende e ci trasforma secondo se stesso.”                        Da “Saggi e discorsi” di Martin Heiddegger. 

Qual’è, allora, il senso del nostro domandare sulla presenza dell’essere razionale per eccellenza in un luogo sacro? La risposta richiede una grande umiltà. Essa non tiene conto del livello della scala sociale che ognuno di noi ha raggiunto, o del grado di cultura a cui siamo pervenuti, dal momento che è la medesima per tutti. Si tratta di riconoscere, umilmente, ciò che sentiamo come una insufficienza nelle risposte razionali al nostro domandare, che si tramuta in una insufficienza di qualità nella vita che conduciamo. Sentire questo vuoto, questa mancanza di qualità nelle risposte razionali equivale a riconoscere l’insufficienza di noi stessi.  Nasce così il bisogno di colmare questo vuoto e questa mancanza di pienezza qualitativa. Ma i luoghi in cui a volte ci rechiamo per cercare di colmarlo, proprio questi luogo sacri, sono luoghi inconsueti, irrazionali e fuori dalla concezione esistenziale moderna. Qui sono vivi concetti che la ragione ha ucciso e sepolto da tempo: il concetto di sacro appunto, di iniziazione, di simbolismo, di sapienza. Ma solo qui e in pochi altri luoghi, questo tipo di domanda riacquista un  senso, che non è più razionale. Nel frammento di Heiddegger che abbiamo citato, comprendiamo il significato della Conoscenza Iniziatica, la riassumiamo in: “diventare ciò che vogliamo conoscere”. Tuttavia, tutta la Tradizione è d’accordo e Heiddegger lo riafferma, non siamo noi a pervenire alla Conoscenza con la nostra ricerca, ma è lei che si rivela a noi quando il nostra domandare, il nostro desiderare va nella giusta direzione, ovvero verso la ricerca del giusto senso. Ma la Conoscenza, ci insegnano tutte le Tradizioni, non ci è mai data senza una nostra collaborazione, ovvero senza una nostra predisposizione a riceverla. Collaborare significa crescere e creare, dare un senso alla propria esistenza e riacquistare la propria dignità. La questione assume in questo modo una dimensione collettiva e non più solo personale, perché in gioco non c’è solo la dignità e la libertà personale, ma la disumanizzazione e la schiavitù dell’umanità intera. Pertanto è indispensabile, nella ricerca del giusto senso, modificare la forma della nostra mente, predisponendola e preparandola ad accogliere l’intuizione e la rivelazione della Parola. Dice  Heiddegger:

“Il senso è un esistenziale dell’esserci (di stare nel mondo), e non è una proprietà che inerisce all’ente”.

Dunque è l’uomo che da il senso alle cose del mondo: le cose di per sé non hanno alcun senso se non è l’uomo ad attribuirglielo. Nessun altro essere al mondo, tranne l’uomo, si domanda quale sia il senso delle cose; quale il senso del venire al mondo, dell’esistere e quale il senso della morte. Ad ogni azione della sua vita l’uomo attribuisce un senso razionale, ma domanda il perché anche di ciò che razionale non è. Questo domandare, prerogativa esclusiva dell’essere umano, è in grado, da solo, di mandare in frantumi ogni teoria filosofica meccanicistica e riduzionista tentata da molti filosofi sull’essenza dell’uomo. Si tratta però di riconoscere l’elevatezza della natura umana, di prenderne coscienza, rinvenendola proprio in quel “bisogno di qualità mancante o perduta” di cui abbiamo poc’anzi parlato. A dirla anche dal punto di vista heiddeggeriano, siamo liberi di scegliere se vivere in forma autentica oppure inautentica. Il nichilismo è esattamente lo stato contrario a questa visione dell’esistenza. Esso è la conseguenza della morte annunciata nietzschiana di Dio che porta alla mancanza di senso e di scopo, alla mancanza dei perché, alla svalutazione di tutti i valori, al precipitare in un infinito nulla, all’implosione del senso della storia. Ma un Dio che muore è un Dio che è esistito: se pensassimo il medioevo senza Dio non avrebbe più senso storico e diventerebbe incomprensibile; mentre con la morte di Dio la nostra epoca rimane comprensibile, ma non lo sarebbe più se togliessimo le parola tecnica e la parola denaro dal senso antropologico moderno. Tutto nel medioevo, infatti, è impregnato della presenza di Dio: arte sacra, inferno, purgatorio e paradiso, donna angelo. Nietzsche distrugge quel mondo scoprendo la grande menzogna bimillenaria, che consiste in una visione metafisica distorta dell’uomo egocentrico, vittima e perdente. L’uomo, schiacciato dalla sua stessa debolezza di fronte alla debordante grandezza di Dio e dell’universo, precipita lo stato dell’essere nel nichilismo più profondo. Il nichilismo, dice Heiddegger, è l’epoca in cui l’essere viene dimenticato nella rappresentazione dell’ente: “l’uomo dimentica se stesso per rivolgere la sua attenzione all’oggetto”. Ma Zarathustra annuncia il sacrificio e l’uccisione dell’io egocentrico e annuncia la venuta sulla terra de ”l’oltre uomo”:

“In realtà, ogni grande crescita comporta un enorme sbilanciamento e deperimento. Il dolore dei sintomi di decadenza fanno parte delle epoche di enorme avanzamento. Ogni fruttuoso e potente movimento dell’umanità ha creato contemporaneamente anche un movimento nichilistico. In determinate circostanze sarebbe sintomo di crescita, incisiva ed essenzialissima, di passaggio a nuove condizioni di esistenza, il fatto che venisse al mondo una forma estrema di pessimismo, il vero e proprio nichilismo. Questo ho compreso!” (Nietzsche, aforisma: “Visione complessiva”).

Dunque l’umanità si trova di fronte a un bivio: il senso o il non senso dell’esistenza.

Ci ritroviamo ad oscillare continuamente come dei pendoli tra questi due stati, come tirati da due corde legate alle braccia, con alternanza, di volta in volta più violentemente da una parte o dall’altra. E’ qui che ritorna attualissima e prende forma la concezione di libertà e di dignità umana nel “De hominis dignitate” di Pico della Mirandola. Tutte le Tradizioni parlano di anima straniera sulla terra, di estraneità di fronte al mondo. L’origine dell’uomo è lontana e proviene da un ordine superiore rispetto alla natura della terra. Anche in questo le Tradizioni concordano, sul fatto che la verità dell’uomo, del suo essere, non è indagabile con le leggi manifestate della natura, ma appartiene ad un ordine superiore.

 «L’armonia invisibile è superiore all’armonia visibile» (Eraclito).

Cosa ci fa dire questo? L’uomo porta nel mondo ciò di cui l’universo non è capace, il problema del senso. Riconoscere ed esaltare questa singolarità umana significa confrontarsi con le Tradizioni e riconoscerne la serietà dei suoi enunciati:

“Ciò che da sempre è stato da tutti creduto merita di essere preso in seria considerazione” 

(Carl Gustav Jung).

 

Sandro Secci

 

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